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Simone Ponzi / Paolo Lagazzi – dedicato ad Attilio Bertolucci
Anche oggi, a tre anni dalla scomparsa del grande poeta, se tento di ripercorrere in breve la parabola umana e creativa, questa è l’impressione che prevale su di me: che il fondo della sua poesia sia inafferrabile.
Comunicato stampa
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Gli occhi di Bertolucci
Una volta, dopo molti anni dal mio primo incontro con Attilio Bertolucci, e dopo già tante pagine da me dedicate alla sua opera, un amico parmigiano mi chiese: “Ma hai intenzione di scrivere per sempre su di lui? “ Candidamente, e forse un po’ provocatoriamente, gli risposi di si, aggiungendo che il mio bisogno di occuparmi della sua poesia nasceva dalla forza del suo mistero.
Anche oggi, a tre anni dalla scomparsa del grande poeta, se tento di ripercorrere in breve la parabola umana e creativa, questa è l’impressione che prevale su di me: che il fondo della sua poesia sia inafferrabile. Con questo non voglio affatto dire che i versi di Bertolucci ci si offrano come qualcosa di ambiguo in senso novecentesco, vale a dire come il frutto di un’operazione depistante, di una volontà di architettare labirinti. La poesia di Bertolucci sfugge alla presa come la vita stessa, come il flusso incessante del tempo, e proprio sfuggendo ci illumina e nutre.
Nel primo capitolo della Camera da letto il poeta parla del “destino misto” della sua famiglia, della vicenda di gioie e di miserie che nell’arazzo famigliare dei Bertolucci si sono susseguite “come/nel cielo estivo sull’alto Appennino/ nuvole e sole in vittoria alterna”. Questa non è una semplice metafora, ma una verità radicata nel cuore vivo del mondo. Bertolucci sentiva il destino come un movimento meteorologico, come una luce di continuo cangiante: e questo sentire era un fatto primario, addirittura fisico, al punto da riflettersi nella sua fisionomia, nel suo volto. Senza motivi apparenti, vedevo il lampo arguto e profondo dei suoi occhi, quell’”intenerito riso” della sua bocca da lui fermato nel Piccolo autoritratto, a volte oscurarsi, velarsi, indurirsi, assumere pieghe improvvise. Quali fantasmi attraversavano allora la sua anima? Non lo so, non lo saprò mai. Ma, allo stesso modo, scorgevo poi le ombre del suo sguardo alleggerirsi, svaporare, perdersi, e udivo la sua voce, per qualche momento incrinata, ritrovare la propria dolcezza maliziosa, la sua pungente innocenza.
Proprio questo suo abitare l’esistenza come flusso, senza mai preclusioni menteli, ma abbandonandosi all’avventura, al brivido, alla vertigine nascente dello spostarsi continuo delle cose (anche delle cose più minute e impalpabili), faceva di Bertolucci un maestro,e delle parole semi preziosi. Troppi, nel Novecento, hanno posato a maestri perché l’idea di “maestria” possa godere ancora di buona fama. Ma la maestria di Bertolucci era un fatto naturale, inevitabile: era la vibrazione intima di uno stile negato a qualsiasi rigidezza ideologica, a ogni petizione di principio. Senza l’ambizione d’insegnare alcunché, Bertolucci sapeva insegnare tutto: come si guarda un film, come si può leggere un libro o interpretare la moda, e come è possibile difendersi dal cattivo gusto semplicemente socchiudendo gli occhi; come si può far tesoro anche degli errori, e quali piccoli trucchi bastano, certi giorni, per preservare la nostra libertà, la freschezza profonda del nostro respiro.
Per pura forza di passione e intuizione,attraverso la prova della vita e la verità della propria poesia, Bertolucci era arrivato, credo, a una sapienza naturale assai prossima a quella dei maestri taoisti. Ogni conversazione con lui era sempre un evento, un segno, un’occasione per scoprire qualcosa, per portare qualche grano di luce ad affiorare dal magma dell’esperienza. Solo avvicinandomi all’arte giapponese ho avvertito una finezza sensibile pari a quella che Bertolucci sapeva esercitare con la nonchalance dei gesti ordinari, delle parole gettate un po’ a caso sul sentiero dei momenti. Ma nessun altro uomo che ho conosciuto ha saputo trasmettermi un amore così assoluto per l’esistenza in tutti i suoi aspetti, poiché nessun uomo più di lui conosceva gli infiniti modi di manifestarsi della bellezza, perfino nelle situazioni più umili, nei luoghi più inappariscenti, nelle plaghe benedette dell’abbandono”.
Per questa sua capacità di amore non riesco a crederlo morto. Ha scritto una volta Rilke: “forse i morti sono coloro che si sono appartati per pensare alla vita”. Bertolucci si era appartato ( e in questo senso viveva in un suo esilio) non dalla vita ma dalla storia, che della vita è solo la corruzione l’ombra distorta, l’eco deforme: e non praticava il suo “a parte” per pensare alla vita, ma per liberarla, nella poesia, dal peso delle idee, dal velo dei pensieri che la impoveriscono, soprattutto quando credono di arricchirla. Ecco perché la sua poesia non può arrivare a chi pretende di pesarla con il bilancino della ragione, con gli strumenti a freddo delle poetiche. Per quanto mi riguarda, seguire Bertolucci nell’avventura delle sue parole sarà sempre tentare di intuire a cosa alludono, come quando, nei tramonti estivi di Casarola, cercavo d’intravedere al suo fianco ciò che riusciva a scorgere nell’inazzurrarsi della luce, nell’avanzare quieto della notte sugli spalti dorati del Groppo Sovrano.
Paolo Lagazzi
22
novembre 2003
Simone Ponzi / Paolo Lagazzi – dedicato ad Attilio Bertolucci
Dal 22 novembre al 20 dicembre 2003
arte contemporanea
Location
FIORILE ARTE
Bologna, Via Nosadella, 37/D, (Bologna)
Bologna, Via Nosadella, 37/D, (Bologna)
Orario di apertura
tutti i giorni su appuntamento \ venerdi e sabato ore 16 - 19
Vernissage
22 Novembre 2003, ore 18