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Sinergie
Una mostra di arte contemporanea dedicata ai maestri Bellotto, Brancher, Guerra e Santorossi, inaugura un’innovativa modalità espositiva, che modificherà la struttura interna di alcune stanze del Palazzo.
Comunicato stampa
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MEL - L’Associazione Feudo ha il piacere di presentare l’Esposizione Collettiva “Sinergie” al Palazzo delle Contesse di Mel (BL) il 19 settembre p.v. alle ore 18.00. “Sinergie”, una mostra di arte contemporanea dedicata ai maestri Bellotto, Brancher, Guerra e Santorossi, inaugura un’innovativa modalità espositiva, che modificherà la struttura interna di alcune stanze del Palazzo.
L’esposizione, che proseguirà fino al 18 ottobre p.v., intende far conoscere ai visitatori le più recenti produzioni pittoriche e scultoree dei Maestri , con testi e presentazione della mostra a cura dei noti critici d’arte Antonella Alban e Michele Beraldo.
L’importanza della mostra “Sinergie” risiede, oltre che nel calibro degli artisti presentati, nell’innovativa modalità espositiva delle opere, che diventa un vero e proprio strumento di comprensione in mano al visitatore per penetrare in profondità all’interno del pensiero artistico e culturale delle opere in esposizione. Da qui il significato del titolo della mostra “Sinergie”: unire la forza espressiva degli artisti, con quelle del luogo espositivo e della modalità espositiva stessa. Per raggiungere questo ambizioso obiettivo alcune stanze del Palazzo verranno modificate per l’evento, per consentire anche alle esposizioni future di beneficiare di una maggior fruibilità delle opere da parte dei visitatori.
MARCO BELLOTTO
La solvibilità critica nei confronti di alcuni artisti può essere più faticosa che per altri. E’ il caso, per quanto mi riguarda, di Marco Bellotto e delle sue opere. Non corrispondendo a modelli interpretativi facilmente desumibili dalla storia dell’arte o a enunciati critici genericamente affini, essi finiscono per costituire un ostacolo alla pur provvida indiscrezione di chi se ne vuol far interprete.
Francesco Crosato, che è poeta e sa come stare al passo di Bellotto, immagina ciò che noi non sappiamo e possiamo riferire: la pittura di Marco “è come una pallina di mercurio o colorata anni sessanta”, capace di schizzare in ogni angolo della superficie del quadro disegnando imprevedibili traiettorie, e in questo continuo gioco di sponda ci sentiamo sballottare da una parte all’altra e poi, con lo sguardo, compiamo zigzaganti percorsi da cui ne usciamo affaticati e un poco smarriti. Abituati a congruenti letture formali dell’opera, a leggere “da sinistra verso destra”, a considerare il centro, l’equilibrio, l’armonia, parole rassicuranti e intendibili da chiunque, la continua imprevedibilità e la variazione infinita dei temi che Bellotto ci propone, assurgono allora ad esempi di più ampia e fervida immaginazione, inesauribili – direbbe il poeta - come “l’acqua di getto”.
Nel delicato ma doveroso compito interpretativo a cui non posso sottrarmi, figurandomi poeta, punto ad osservare come nella pittura di Marco Bellotto vi siano similitudini alquanto evidenti con alcune manifestazioni genericamente riconducibili all’arte primitiva. Innanzitutto nei colori, improntati ad avere un carattere intenso e coprente, poi nelle forme, spaziate bidimensionalmente sulla superficie pittorica, infine nelle mutevoli loro espressioni, compartimentate da logiche geometriche oppure sciolte in linearismi armonici che evidenziano, in taluni casi, il prevalere di modelli totemici e simbolici.
Questo carattere di apparente “semplicità”, che contraddistingue il modello creativo delle opere di Marco, trova significativi addentellati anche con il mondo del graffitismo contemporaneo, in particolare nelle risolutive semplificazioni iconografiche e coloristiche di Keith Haring.
Così come, in un ottica postmoderna, si possono individuare analogie con gli sviluppi espressivi del futurismo, del dadaismo e della pop art, i cui codici estetici – dinamicità, giocosità e appianamento visivo - trovano larga condivisione in artisti come Pablo Echauren e Ugo Nespolo, che sul piano concettuale e creativo si sintonizzano molto bene con Bellotto.
In ultima analisi resta da intendere lo sviluppo apportato dall’artista nelle sue ultime opere.
Vi si ribadiscono i concetti generali espressi nelle precedenti, chiarendone ulteriormente gli intendimenti grafici e sviluppandoli biunivocamente sui rapporti del bianco e del nero, del pieno e del vuoto. Emerge quindi una maggiore volontà descrittiva e particolareggiata tale da illustrare ogni singolo frammento o apparato di un ingranaggio fantastico che Bellotto sa innescare con estrema facilità ampliando o zoomando su insiemi ormai sempre più ordinati e meccanomorfi.
Se nei soggetti antecedenti vi si potevano scorgere suggestivi rimandi a certi disegni di Nazca (le grandi forme misteriose impresse sull’altipiano del Perù circa 1500 anni fa) ora invece intravediamo correlazioni e percorsi adattabili ad una civiltà post-moderna e tecnologica: mappe urbane, fantascientifiche piste di decollo e di atterraggio, vettoriali configurazioni e sottospazi simmetricamente ordinati che disorbitano – come dice il poeta - “in direzione finalmente lineare”.
SILVANO BRANCHER
Appartengono all’astrattismo due grandi correnti: quella informale-gestuale-segnica e quella geometrica-concreta-razionale. Nella prima l’artista conferisce sulla tela la propria personalità, anche perentoriamente; nella seconda impone a se stesso di mantenere, attraverso una rigorosa ripartizione scientifica dello spazio pittorico, un inevitabile distacco emotivo rispetto a ciò che sta facendo. Poiché ciò che realizza non è dettato da uno spirito di parte, egli deve riuscire nell’intento di a-strarre dalle forme i principi generali e universali che le costituiscono.
Questo percorso, apparentemente freddo, che consegue dal neoplasticismo olandese di Piet Mondrian, dal suprematismo russo di Kazimir Malevic e dal rigoroso impianto razionalista posto in atto nel Bauhaus tedesco di Walter Gropius, appartiene da alcuni decenni a Silvano Brancher.
Ripensando ai capisaldi dell’astrattismo storico, Brancher ha considerato di poter realizzare, con serietà e altrettanta passione, una metodologia scientifica che si avvalesse delle più importanti teorie del colore, dei caratteri generali della Gestalt - quindi della percezione visiva - e al contempo di modelli matematici da declinare in rapporto alle differenti forme della geometria.
Sono così sorte delle immagini che ridisegnano strutture rigorose e modulari, come i “labirinti”, altre invece che pur componendosi di insiemi ordinati, cerchi, quadrati, rettangoli e “stelle” di diversa conformazione, ambiscono a penetrare lo spazio visivo oltre l’estensività della superficie dipinta, ritagliandovi una porzione di cosmo celeste.
L’evocazione dell’infinitezza spaziale ricorre nelle opere di Brancher, a mio avviso, attraverso due varianti: la prima si costituisce partendo da modelli che evincono la loro perfezione compositiva dalla simultanea e apparente visibilità delle forme, equivalenti e simmetriche, le quali si scompongono e si ricompongono come all’interno di un caleidoscopio.
La seconda variante è congrua alla prima, lì dove l’immagine ripropone auree corrispondenze euclidee, osservandovi però una porzione più ampia e visivamente estesa di “cosmo”.
Brancher sembra allora intervenire con uno zoom e di volta in volta decidere quale panoramica offrirci, quale particolare ingrandire a dismisura o viceversa rimpicciolire e rigettare nel mezzo di tanti piccoli puntini orbitanti attorno a indistinti sistemi solari.
Da un’altra angolazione potremmo anche osservare come, rispetto alle “immagini vettoriali” di Marco Bellotto, le quali se si allargano a dismisura non perdono di nitore e mantengono inalterata la “risoluzione”, quelle di Silvano Brancher sembrano realizzate in grafica raster, attraverso una sequenza di pixel concatenati tra di loro. In un medesimo sistema dinamico, simile a quello dei frattali, i singoli tasselli di legno che coordinano le superfici dei suoi quadri e che si moltiplicano all’infinito, trovano nella perfetta sintonia dell’universo la loro correlazione.
FRANCESCO GUERRA
Il carattere sintetico e razionale che si individua nelle opere di Francesco Guerra è il risultato di un percorso artistico iniziato negli anni cinquanta, coerentemente inteso a proporre un’analisi sempre più misurata e concisa della realtà. Le partenze “giovanili” erano perciò strutturate in accordo con le plastiche soluzioni di un dipingere ancora classico, calibrato ed armonico, dove la forma si accordava, in virtù della sua oggettiva rappresentabilità, alle ragioni di una realtà visivamente tangibile. E’ questo il periodo delle “nature morte”, banco di prova sul quale l’artista esercita e affina le sue innate propensioni pittoriche e grafiche.
Ciò che avviene in quegli anni non è però ultimativo: le forme propendono sempre più a squadernarsi, ad aprirsi, inseguendo una modalità operativa che attiene ai risultati del cubismo. E’ in questa fase, di accorciamento prospettico e di annullamento dei valori plastici, che le raffigurazioni di Guerra cominciano ad abbandonare ogni addentellato con la realtà, e a “rifugiarsi” all’interno di una dimensione più mentale ed astratta.
In questo ambito, in cui il colore propende ad estendersi delimitando campiture regolari, l’artista ricrea uno spazio pittorico idealmente connesso all’astrazione geometrica.
Vi aggiunge poi un ulteriore e fondamentale elemento: il legno, materia che egli utilizza non quale semplice accessorio da posporre al dipingere ma come oggetto dell’opera in sé.
I rimandi alle compagini neopoveriste o novorealiste dell’arte contemporanea sono da evitare perché l’assemblaggio di tessere, sagome sinuosamente addolcite e ricurve, losanghe e triangoli, che Guerra inventa e lavora con la pazienza dei vecchi artigiani, trova semmai affinità con la tarsia alla certosina e con i modelli geometrici di quella quattrocentesca. Si tratta quindi di opere composte da singoli elementi disgiunti gli uni dagli altri ma che si predispongono, nell’unità della superficie, alla coesione spaziale e all’armonia della forma.
Le partiture geometriche e ondulatorie che compongono i quadri (nello specifico troviamo consonanze evidenti con talune esperienze del suprematismo e dell’astrattismo geometrico kandiskiano) trovano una felice applicazione anche nelle sculture, che rileggono tridimensionalmente alcuni particolari dei lavori in legno policromo.
Per l’artista il variare dei temi (attinenti anche alla realtà di rudimentali quanto essenziali strumenti musicali) non stabilisce alcun limite, consentendogli invece di misurarsi su più versanti, di interagire liberamente sulla superficie di uno spazio eterogeneo, sempre diverso e liricamente creativo.
SANTOROSSI
Da alcuni anni la pittura di Santorossi si caratterizza per la strenua fedeltà verso un unico soggetto: la figura umana. Esaminata, contrariamente a quanto ci si possa attendere da un artista “figurativo”, non attraverso i tratti fisionomici e gli aspetti reconditi del suo carattere, bensì con una modalità che appare superficiale e priva di connotazioni psicologiche. Di fatto Santorossi riveste gigantografie di uomini e donne appartenenti allo star system (cinematografico o pubblicitario) con una patina di colore rosso e nero che surroga interamente la loro fisicità e identità.
Gli unici indizi da cui si ricavano le differenti individualità ci sono suggeriti da fluide linee di contorno bianche poste a rilevare i tratti principali del viso (bocca, naso, sopraciglia) e a separare le larghe campiture di colore che identificano il volto dalla capigliatura. Questa modalità del dipingere potrebbe avvalersi degli stessi criteri operativi della pop-art, a tal proposito viene in mente la cover di un vinile degli Who, Face Dances, su cui troviamo i quattro volti dei componenti della rock band inglese reinterpretati dai maggiori artisti pop come Jones, Blake, Tilson, Hockney, Kitay e Hamilton. Ma se le prerogative estetiche possono essere simili (sia Warhol - con i suoi ritratti serigrafati - che Santorossi, intervengono serialmente nella duplicità dell’immagine e nella “ripetizione differente” dei suoi caratteri) sostanzialmente diversi appaiono i contenuti semantici. La pop-art americana, nel riprodurre gli oggetti e le immagini della società consumistica, ha trasmesso a quelle stesse immagini la potenza del mito, esaltandole e celebrandole agli occhi dello spettatore. Santorossi, invece, non condividendo il carattere edonistico della pop, opera all’inverso: invece di esaltare la fisionomia del soggetto fotografato, la adombra, disinnesca la carica narcisistica e ne riduce la sua fascinazione. In questo modo l’immagine si livella e si banalizza. I volti, che prima appartenevano allo spettacolo, ora obliano se stessi e il proprio ruolo, uniformandosi ad un mondo verniciato cui pensavano ingenuamente di non appartenere.
Nel compiere questa operazione l’artista si impone dei limiti: non snatura del tutto l’immagine, non la manipola con disprezzo, non vi irrompe con pennellate decise e segni distintivi. Ne rispetta la sua integrità e la forma. E soprattutto non oscura la traccia di quell’intimo segnale che più di altri volge all’umano: fendendo prudentemente la vinilica superficie del volto, gli occhi, cerulei e bianchi dei personaggi, torniti come quelli delle bambole, aspirano al compiersi della loro vera individualità.
L’esposizione, che proseguirà fino al 18 ottobre p.v., intende far conoscere ai visitatori le più recenti produzioni pittoriche e scultoree dei Maestri , con testi e presentazione della mostra a cura dei noti critici d’arte Antonella Alban e Michele Beraldo.
L’importanza della mostra “Sinergie” risiede, oltre che nel calibro degli artisti presentati, nell’innovativa modalità espositiva delle opere, che diventa un vero e proprio strumento di comprensione in mano al visitatore per penetrare in profondità all’interno del pensiero artistico e culturale delle opere in esposizione. Da qui il significato del titolo della mostra “Sinergie”: unire la forza espressiva degli artisti, con quelle del luogo espositivo e della modalità espositiva stessa. Per raggiungere questo ambizioso obiettivo alcune stanze del Palazzo verranno modificate per l’evento, per consentire anche alle esposizioni future di beneficiare di una maggior fruibilità delle opere da parte dei visitatori.
MARCO BELLOTTO
La solvibilità critica nei confronti di alcuni artisti può essere più faticosa che per altri. E’ il caso, per quanto mi riguarda, di Marco Bellotto e delle sue opere. Non corrispondendo a modelli interpretativi facilmente desumibili dalla storia dell’arte o a enunciati critici genericamente affini, essi finiscono per costituire un ostacolo alla pur provvida indiscrezione di chi se ne vuol far interprete.
Francesco Crosato, che è poeta e sa come stare al passo di Bellotto, immagina ciò che noi non sappiamo e possiamo riferire: la pittura di Marco “è come una pallina di mercurio o colorata anni sessanta”, capace di schizzare in ogni angolo della superficie del quadro disegnando imprevedibili traiettorie, e in questo continuo gioco di sponda ci sentiamo sballottare da una parte all’altra e poi, con lo sguardo, compiamo zigzaganti percorsi da cui ne usciamo affaticati e un poco smarriti. Abituati a congruenti letture formali dell’opera, a leggere “da sinistra verso destra”, a considerare il centro, l’equilibrio, l’armonia, parole rassicuranti e intendibili da chiunque, la continua imprevedibilità e la variazione infinita dei temi che Bellotto ci propone, assurgono allora ad esempi di più ampia e fervida immaginazione, inesauribili – direbbe il poeta - come “l’acqua di getto”.
Nel delicato ma doveroso compito interpretativo a cui non posso sottrarmi, figurandomi poeta, punto ad osservare come nella pittura di Marco Bellotto vi siano similitudini alquanto evidenti con alcune manifestazioni genericamente riconducibili all’arte primitiva. Innanzitutto nei colori, improntati ad avere un carattere intenso e coprente, poi nelle forme, spaziate bidimensionalmente sulla superficie pittorica, infine nelle mutevoli loro espressioni, compartimentate da logiche geometriche oppure sciolte in linearismi armonici che evidenziano, in taluni casi, il prevalere di modelli totemici e simbolici.
Questo carattere di apparente “semplicità”, che contraddistingue il modello creativo delle opere di Marco, trova significativi addentellati anche con il mondo del graffitismo contemporaneo, in particolare nelle risolutive semplificazioni iconografiche e coloristiche di Keith Haring.
Così come, in un ottica postmoderna, si possono individuare analogie con gli sviluppi espressivi del futurismo, del dadaismo e della pop art, i cui codici estetici – dinamicità, giocosità e appianamento visivo - trovano larga condivisione in artisti come Pablo Echauren e Ugo Nespolo, che sul piano concettuale e creativo si sintonizzano molto bene con Bellotto.
In ultima analisi resta da intendere lo sviluppo apportato dall’artista nelle sue ultime opere.
Vi si ribadiscono i concetti generali espressi nelle precedenti, chiarendone ulteriormente gli intendimenti grafici e sviluppandoli biunivocamente sui rapporti del bianco e del nero, del pieno e del vuoto. Emerge quindi una maggiore volontà descrittiva e particolareggiata tale da illustrare ogni singolo frammento o apparato di un ingranaggio fantastico che Bellotto sa innescare con estrema facilità ampliando o zoomando su insiemi ormai sempre più ordinati e meccanomorfi.
Se nei soggetti antecedenti vi si potevano scorgere suggestivi rimandi a certi disegni di Nazca (le grandi forme misteriose impresse sull’altipiano del Perù circa 1500 anni fa) ora invece intravediamo correlazioni e percorsi adattabili ad una civiltà post-moderna e tecnologica: mappe urbane, fantascientifiche piste di decollo e di atterraggio, vettoriali configurazioni e sottospazi simmetricamente ordinati che disorbitano – come dice il poeta - “in direzione finalmente lineare”.
SILVANO BRANCHER
Appartengono all’astrattismo due grandi correnti: quella informale-gestuale-segnica e quella geometrica-concreta-razionale. Nella prima l’artista conferisce sulla tela la propria personalità, anche perentoriamente; nella seconda impone a se stesso di mantenere, attraverso una rigorosa ripartizione scientifica dello spazio pittorico, un inevitabile distacco emotivo rispetto a ciò che sta facendo. Poiché ciò che realizza non è dettato da uno spirito di parte, egli deve riuscire nell’intento di a-strarre dalle forme i principi generali e universali che le costituiscono.
Questo percorso, apparentemente freddo, che consegue dal neoplasticismo olandese di Piet Mondrian, dal suprematismo russo di Kazimir Malevic e dal rigoroso impianto razionalista posto in atto nel Bauhaus tedesco di Walter Gropius, appartiene da alcuni decenni a Silvano Brancher.
Ripensando ai capisaldi dell’astrattismo storico, Brancher ha considerato di poter realizzare, con serietà e altrettanta passione, una metodologia scientifica che si avvalesse delle più importanti teorie del colore, dei caratteri generali della Gestalt - quindi della percezione visiva - e al contempo di modelli matematici da declinare in rapporto alle differenti forme della geometria.
Sono così sorte delle immagini che ridisegnano strutture rigorose e modulari, come i “labirinti”, altre invece che pur componendosi di insiemi ordinati, cerchi, quadrati, rettangoli e “stelle” di diversa conformazione, ambiscono a penetrare lo spazio visivo oltre l’estensività della superficie dipinta, ritagliandovi una porzione di cosmo celeste.
L’evocazione dell’infinitezza spaziale ricorre nelle opere di Brancher, a mio avviso, attraverso due varianti: la prima si costituisce partendo da modelli che evincono la loro perfezione compositiva dalla simultanea e apparente visibilità delle forme, equivalenti e simmetriche, le quali si scompongono e si ricompongono come all’interno di un caleidoscopio.
La seconda variante è congrua alla prima, lì dove l’immagine ripropone auree corrispondenze euclidee, osservandovi però una porzione più ampia e visivamente estesa di “cosmo”.
Brancher sembra allora intervenire con uno zoom e di volta in volta decidere quale panoramica offrirci, quale particolare ingrandire a dismisura o viceversa rimpicciolire e rigettare nel mezzo di tanti piccoli puntini orbitanti attorno a indistinti sistemi solari.
Da un’altra angolazione potremmo anche osservare come, rispetto alle “immagini vettoriali” di Marco Bellotto, le quali se si allargano a dismisura non perdono di nitore e mantengono inalterata la “risoluzione”, quelle di Silvano Brancher sembrano realizzate in grafica raster, attraverso una sequenza di pixel concatenati tra di loro. In un medesimo sistema dinamico, simile a quello dei frattali, i singoli tasselli di legno che coordinano le superfici dei suoi quadri e che si moltiplicano all’infinito, trovano nella perfetta sintonia dell’universo la loro correlazione.
FRANCESCO GUERRA
Il carattere sintetico e razionale che si individua nelle opere di Francesco Guerra è il risultato di un percorso artistico iniziato negli anni cinquanta, coerentemente inteso a proporre un’analisi sempre più misurata e concisa della realtà. Le partenze “giovanili” erano perciò strutturate in accordo con le plastiche soluzioni di un dipingere ancora classico, calibrato ed armonico, dove la forma si accordava, in virtù della sua oggettiva rappresentabilità, alle ragioni di una realtà visivamente tangibile. E’ questo il periodo delle “nature morte”, banco di prova sul quale l’artista esercita e affina le sue innate propensioni pittoriche e grafiche.
Ciò che avviene in quegli anni non è però ultimativo: le forme propendono sempre più a squadernarsi, ad aprirsi, inseguendo una modalità operativa che attiene ai risultati del cubismo. E’ in questa fase, di accorciamento prospettico e di annullamento dei valori plastici, che le raffigurazioni di Guerra cominciano ad abbandonare ogni addentellato con la realtà, e a “rifugiarsi” all’interno di una dimensione più mentale ed astratta.
In questo ambito, in cui il colore propende ad estendersi delimitando campiture regolari, l’artista ricrea uno spazio pittorico idealmente connesso all’astrazione geometrica.
Vi aggiunge poi un ulteriore e fondamentale elemento: il legno, materia che egli utilizza non quale semplice accessorio da posporre al dipingere ma come oggetto dell’opera in sé.
I rimandi alle compagini neopoveriste o novorealiste dell’arte contemporanea sono da evitare perché l’assemblaggio di tessere, sagome sinuosamente addolcite e ricurve, losanghe e triangoli, che Guerra inventa e lavora con la pazienza dei vecchi artigiani, trova semmai affinità con la tarsia alla certosina e con i modelli geometrici di quella quattrocentesca. Si tratta quindi di opere composte da singoli elementi disgiunti gli uni dagli altri ma che si predispongono, nell’unità della superficie, alla coesione spaziale e all’armonia della forma.
Le partiture geometriche e ondulatorie che compongono i quadri (nello specifico troviamo consonanze evidenti con talune esperienze del suprematismo e dell’astrattismo geometrico kandiskiano) trovano una felice applicazione anche nelle sculture, che rileggono tridimensionalmente alcuni particolari dei lavori in legno policromo.
Per l’artista il variare dei temi (attinenti anche alla realtà di rudimentali quanto essenziali strumenti musicali) non stabilisce alcun limite, consentendogli invece di misurarsi su più versanti, di interagire liberamente sulla superficie di uno spazio eterogeneo, sempre diverso e liricamente creativo.
SANTOROSSI
Da alcuni anni la pittura di Santorossi si caratterizza per la strenua fedeltà verso un unico soggetto: la figura umana. Esaminata, contrariamente a quanto ci si possa attendere da un artista “figurativo”, non attraverso i tratti fisionomici e gli aspetti reconditi del suo carattere, bensì con una modalità che appare superficiale e priva di connotazioni psicologiche. Di fatto Santorossi riveste gigantografie di uomini e donne appartenenti allo star system (cinematografico o pubblicitario) con una patina di colore rosso e nero che surroga interamente la loro fisicità e identità.
Gli unici indizi da cui si ricavano le differenti individualità ci sono suggeriti da fluide linee di contorno bianche poste a rilevare i tratti principali del viso (bocca, naso, sopraciglia) e a separare le larghe campiture di colore che identificano il volto dalla capigliatura. Questa modalità del dipingere potrebbe avvalersi degli stessi criteri operativi della pop-art, a tal proposito viene in mente la cover di un vinile degli Who, Face Dances, su cui troviamo i quattro volti dei componenti della rock band inglese reinterpretati dai maggiori artisti pop come Jones, Blake, Tilson, Hockney, Kitay e Hamilton. Ma se le prerogative estetiche possono essere simili (sia Warhol - con i suoi ritratti serigrafati - che Santorossi, intervengono serialmente nella duplicità dell’immagine e nella “ripetizione differente” dei suoi caratteri) sostanzialmente diversi appaiono i contenuti semantici. La pop-art americana, nel riprodurre gli oggetti e le immagini della società consumistica, ha trasmesso a quelle stesse immagini la potenza del mito, esaltandole e celebrandole agli occhi dello spettatore. Santorossi, invece, non condividendo il carattere edonistico della pop, opera all’inverso: invece di esaltare la fisionomia del soggetto fotografato, la adombra, disinnesca la carica narcisistica e ne riduce la sua fascinazione. In questo modo l’immagine si livella e si banalizza. I volti, che prima appartenevano allo spettacolo, ora obliano se stessi e il proprio ruolo, uniformandosi ad un mondo verniciato cui pensavano ingenuamente di non appartenere.
Nel compiere questa operazione l’artista si impone dei limiti: non snatura del tutto l’immagine, non la manipola con disprezzo, non vi irrompe con pennellate decise e segni distintivi. Ne rispetta la sua integrità e la forma. E soprattutto non oscura la traccia di quell’intimo segnale che più di altri volge all’umano: fendendo prudentemente la vinilica superficie del volto, gli occhi, cerulei e bianchi dei personaggi, torniti come quelli delle bambole, aspirano al compiersi della loro vera individualità.
19
settembre 2009
Sinergie
Dal 19 settembre al 18 ottobre 2009
arte contemporanea
Location
PALAZZO DELLE CONTESSE
Mel, Piazza Papa Luciani, 7, (Belluno)
Mel, Piazza Papa Luciani, 7, (Belluno)
Orario di apertura
venerdì: 17.30-19.00 sabato e domenica 10.00-12.30 15.00- 19.00.
Vernissage
19 Settembre 2009, ore 18
Autore
Curatore