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Sisto Righi – Dentro e Fuori
mostra personale
Comunicato stampa
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Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose;
ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo
Jean-Jacques Rousseau, Émile, 1762
Superare il timore della diversità, è l’imperativo che spinge Sisto Righi a manifestare il proprio Io. Un impulso dal quale lo scultore non può sottrarsi, dal momento che, al contrario, è il desiderio di testimoniare la bellezza del diverso ad accendere in lui la scintilla dell’arte. Lo sottolinea puntualmente Andreina De Tomassi, in apertura del suo intervento, riportando una frase dell’artista dove, con un perentorio «tutto abbia felicemente congiurato per condurmi proprio qui», chiariva come fosse il proprio percorso di vita ad averne definito la ricerca estetica.
Posto dunque il “motivo dell’arte” – se mai l’arte avesse bisogno di un motivo per manifestarsi –, non resta che immergersi nel mondo onirico di Sisto Righi, fatto di esseri appartenenti alla sfera del sensibile e tratti dalle molteplici esperienze vissute in giro per il mondo. Due i canali del suo linguaggio: figurazione espressionista e sintetismo tribale, da cui si evidenzia l’immediata volontà di restare fedele alla predisposizione figurativa. Non si tratta di un artista “astratto”, piuttosto un narratore di storie raccolte in lungo e in largo, tra villaggi sperduti dell’Africa o zone remote del Sud America, a contatto con gli ultimi e in armonia col diverso. Da qui la necessità, nel 2011, e grazie al contatto con la scultrice Roberta Giovannini Onniboni, di restituire all’esterno ciò che in tanti anni aveva acquisito come esperienza diretta. Un moto centripeto che dall’interno del suo essere porta fuori, sottoforma di oggetto scultoreo, il contenuto di sentimenti e pensieri accumulati nel tempo. Inevitabile l’insistenza su riferimenti umani, poiché lo sforzo intellettuale di Righi è orientato verso la definizione estetica di un racconto personale, costruito nell’incontro con società diverse o persone ai margini della propria, ma pur sempre diretta ad accogliere l’individuo. Si rinviene quella stessa determinazione di chi, al pari di un Gauguin, va per mari a cercare la diversità come approdo verso culture non ancora corrotte dalla vita moderna. Ben consapevole, tuttavia, che quel “diverso” è anche tra noi, tremante sotto un ponte logoro o in qualche sottopassaggio metropolitano, segregato nelle stanze di un centro di recupero o seduto su un marciapiede.
Tutto questo è il coraggio di accogliere e scoprire la diversità che Righi esprime in opere come Mondo (2015), dove un uomo anziano, ma dal fisico ancora prestante, si staglia in posizione eretta mettendo ben in evidenza i lunghi capelli rasta e calpestando materiale di vario genere, tra cui compare un bottiglia in plastica. L’opera ha subito nel tempo delle trasformazioni dovute ad una caduta accidentale, pertanto certi particolari sono stati ridimensionati dall’artista, ma resta inalterato il messaggio: l’aspetto ibrido della diversità converge in questo corpo difficile da identificare, i cui piedi poggiano su cumuli di spazzatura ed è evidente, con ciò, quanto si voglia rimarcare la condizione del pianeta, metaforizzandone l’essenza stessa proprio attraverso l’immagine dell’uomo. Inevitabile, d’altra parte, il ricorso a quel carattere espressionista cui ci si riferiva in precedenza, emergendo tale immagine dall’interiorità dell’artista. Non si può non rilevare la condizione carnale con cui Righi traduce le forme umane, evidente nell’opera esaminata come pure in altre sculture, tra cui Migranti (2013) dove il corpo femminile esaspera le rotondità fisiche ottemperando quella convergenza estetica con le primordiali statue votive dedicate alla fertilità. Ma sono i volti, soprattutto, a destare maggiore attenzione nell’opera di Righi, volti marcati da espressioni decise, mai distesi, a volte tragicamente atteggiati in condizione urlante, come nel caso della scultura Rasta (2014) di cui, tuttavia, rimane ambigua la posa, impossibile da definire con certezza.
Volti che diventano maschere, su cui l’artista tratteggia il proprio Io. Emerge così l’altro lato della sua iconografia: quello tribale, arcaico, legato alla condivisione estetica con le culture lontane, in cui il “sintetismo” formale coincide, ancora oggi, con una semplicità di vita esprimibile, senza veli, nel diretto rapporto tra uomo e natura. Riappare il mito del “buon selvaggio”, quasi richiamando Rousseau, quando sottolineava come l’uomo non nasca ne buon ne cattivo, ma piuttosto venga plasmato in bene o male da influenze esterne. Dunque il tema del dentro e fuori, adesso, non riguarda solamente l’artista, piuttosto interroga l’umanità intera agli albori del terzo millennio, immersa nel delirio ipertecnologico e confusa da una comunicazione multimediale schizofrenica.
L’insistenza di Righi su formule arcaiche, come nell’opera Metamorfosi della paura (2011/2012), suggerisce l’intenzione di un ritorno ai valori della condivisione fisica esperienziale, quale immersione motivata nella sfera dell’alterità culturale. È da sottolineare in questo la sua vicinanza con la Casa degli Artisti, di Sant’Anna del Furlo, luogo di “reazione” ad una contemporaneità finalizzata alla definizione di un sistema elitario dell’arte e dove, proprio la non accettazione di ciò che esula degli stereotipi imposti dalle grandi multinazionali, spinge allo smussamento di quelle diversità espresse da Righi.
Tale presupposto agisce anche internamente alla sua opera, giustificando un metamorfismo evidenziabile nell’utilizzo disinvolto di materiali diversificati come legno, ceramica, marmo nero del Belgio, resine, elementi che l’artista tratta separatamente o unisce in azzardate ibridazioni metaforiche. È il caso di opere come Tucidide e Cheronea – nomi non più in uso, ma accolti dall’artista per evidenziare caratteri di diversità – dove sovrappone legno, ceramica raku, foglia oro, stoffa, colori accesi e smalti, in contrapposizione alla povertà del materiale ligneo. Chimere scultoree la cui resa esterna richiama maschere tribali e al cui interno si nascondono i suoi messaggi, ben riassunti, infine, nell’opera simbolica Accidentalità della vita (2015), dove ci si allontana dal figurativismo per dare spazio all’immaginario simbolico: la sfera. Trasposizione del globo terrestre, quest’ultima si collega ad una forma femminile tratta da una pianta. Si potrebbe in ciò vedere quasi un testamento artistico di Righi, persuaso dalla necessità imprescindibile di testimoniare l’animo umano al di là di ogni alterità, consapevole che ogni progetto di vita è spesso destinato a naufragare nell’incertezza degli avvenimenti. Non resta che abbandonarsi alla vita, abbattendo ogni limite imposto dal nostro pensare, ricordandosi che il viaggio sulla Terra, per la sua stessa forma sferica, è destinato a non interrompersi mai.
Andrea Baffoni
ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo
Jean-Jacques Rousseau, Émile, 1762
Superare il timore della diversità, è l’imperativo che spinge Sisto Righi a manifestare il proprio Io. Un impulso dal quale lo scultore non può sottrarsi, dal momento che, al contrario, è il desiderio di testimoniare la bellezza del diverso ad accendere in lui la scintilla dell’arte. Lo sottolinea puntualmente Andreina De Tomassi, in apertura del suo intervento, riportando una frase dell’artista dove, con un perentorio «tutto abbia felicemente congiurato per condurmi proprio qui», chiariva come fosse il proprio percorso di vita ad averne definito la ricerca estetica.
Posto dunque il “motivo dell’arte” – se mai l’arte avesse bisogno di un motivo per manifestarsi –, non resta che immergersi nel mondo onirico di Sisto Righi, fatto di esseri appartenenti alla sfera del sensibile e tratti dalle molteplici esperienze vissute in giro per il mondo. Due i canali del suo linguaggio: figurazione espressionista e sintetismo tribale, da cui si evidenzia l’immediata volontà di restare fedele alla predisposizione figurativa. Non si tratta di un artista “astratto”, piuttosto un narratore di storie raccolte in lungo e in largo, tra villaggi sperduti dell’Africa o zone remote del Sud America, a contatto con gli ultimi e in armonia col diverso. Da qui la necessità, nel 2011, e grazie al contatto con la scultrice Roberta Giovannini Onniboni, di restituire all’esterno ciò che in tanti anni aveva acquisito come esperienza diretta. Un moto centripeto che dall’interno del suo essere porta fuori, sottoforma di oggetto scultoreo, il contenuto di sentimenti e pensieri accumulati nel tempo. Inevitabile l’insistenza su riferimenti umani, poiché lo sforzo intellettuale di Righi è orientato verso la definizione estetica di un racconto personale, costruito nell’incontro con società diverse o persone ai margini della propria, ma pur sempre diretta ad accogliere l’individuo. Si rinviene quella stessa determinazione di chi, al pari di un Gauguin, va per mari a cercare la diversità come approdo verso culture non ancora corrotte dalla vita moderna. Ben consapevole, tuttavia, che quel “diverso” è anche tra noi, tremante sotto un ponte logoro o in qualche sottopassaggio metropolitano, segregato nelle stanze di un centro di recupero o seduto su un marciapiede.
Tutto questo è il coraggio di accogliere e scoprire la diversità che Righi esprime in opere come Mondo (2015), dove un uomo anziano, ma dal fisico ancora prestante, si staglia in posizione eretta mettendo ben in evidenza i lunghi capelli rasta e calpestando materiale di vario genere, tra cui compare un bottiglia in plastica. L’opera ha subito nel tempo delle trasformazioni dovute ad una caduta accidentale, pertanto certi particolari sono stati ridimensionati dall’artista, ma resta inalterato il messaggio: l’aspetto ibrido della diversità converge in questo corpo difficile da identificare, i cui piedi poggiano su cumuli di spazzatura ed è evidente, con ciò, quanto si voglia rimarcare la condizione del pianeta, metaforizzandone l’essenza stessa proprio attraverso l’immagine dell’uomo. Inevitabile, d’altra parte, il ricorso a quel carattere espressionista cui ci si riferiva in precedenza, emergendo tale immagine dall’interiorità dell’artista. Non si può non rilevare la condizione carnale con cui Righi traduce le forme umane, evidente nell’opera esaminata come pure in altre sculture, tra cui Migranti (2013) dove il corpo femminile esaspera le rotondità fisiche ottemperando quella convergenza estetica con le primordiali statue votive dedicate alla fertilità. Ma sono i volti, soprattutto, a destare maggiore attenzione nell’opera di Righi, volti marcati da espressioni decise, mai distesi, a volte tragicamente atteggiati in condizione urlante, come nel caso della scultura Rasta (2014) di cui, tuttavia, rimane ambigua la posa, impossibile da definire con certezza.
Volti che diventano maschere, su cui l’artista tratteggia il proprio Io. Emerge così l’altro lato della sua iconografia: quello tribale, arcaico, legato alla condivisione estetica con le culture lontane, in cui il “sintetismo” formale coincide, ancora oggi, con una semplicità di vita esprimibile, senza veli, nel diretto rapporto tra uomo e natura. Riappare il mito del “buon selvaggio”, quasi richiamando Rousseau, quando sottolineava come l’uomo non nasca ne buon ne cattivo, ma piuttosto venga plasmato in bene o male da influenze esterne. Dunque il tema del dentro e fuori, adesso, non riguarda solamente l’artista, piuttosto interroga l’umanità intera agli albori del terzo millennio, immersa nel delirio ipertecnologico e confusa da una comunicazione multimediale schizofrenica.
L’insistenza di Righi su formule arcaiche, come nell’opera Metamorfosi della paura (2011/2012), suggerisce l’intenzione di un ritorno ai valori della condivisione fisica esperienziale, quale immersione motivata nella sfera dell’alterità culturale. È da sottolineare in questo la sua vicinanza con la Casa degli Artisti, di Sant’Anna del Furlo, luogo di “reazione” ad una contemporaneità finalizzata alla definizione di un sistema elitario dell’arte e dove, proprio la non accettazione di ciò che esula degli stereotipi imposti dalle grandi multinazionali, spinge allo smussamento di quelle diversità espresse da Righi.
Tale presupposto agisce anche internamente alla sua opera, giustificando un metamorfismo evidenziabile nell’utilizzo disinvolto di materiali diversificati come legno, ceramica, marmo nero del Belgio, resine, elementi che l’artista tratta separatamente o unisce in azzardate ibridazioni metaforiche. È il caso di opere come Tucidide e Cheronea – nomi non più in uso, ma accolti dall’artista per evidenziare caratteri di diversità – dove sovrappone legno, ceramica raku, foglia oro, stoffa, colori accesi e smalti, in contrapposizione alla povertà del materiale ligneo. Chimere scultoree la cui resa esterna richiama maschere tribali e al cui interno si nascondono i suoi messaggi, ben riassunti, infine, nell’opera simbolica Accidentalità della vita (2015), dove ci si allontana dal figurativismo per dare spazio all’immaginario simbolico: la sfera. Trasposizione del globo terrestre, quest’ultima si collega ad una forma femminile tratta da una pianta. Si potrebbe in ciò vedere quasi un testamento artistico di Righi, persuaso dalla necessità imprescindibile di testimoniare l’animo umano al di là di ogni alterità, consapevole che ogni progetto di vita è spesso destinato a naufragare nell’incertezza degli avvenimenti. Non resta che abbandonarsi alla vita, abbattendo ogni limite imposto dal nostro pensare, ricordandosi che il viaggio sulla Terra, per la sua stessa forma sferica, è destinato a non interrompersi mai.
Andrea Baffoni
22
aprile 2018
Sisto Righi – Dentro e Fuori
Dal 22 aprile al 02 maggio 2018
arte contemporanea
Location
SPAZIO 121
Perugia, Via Armando Fedeli, 121, (Perugia)
Perugia, Via Armando Fedeli, 121, (Perugia)
Orario di apertura
da martedì a Domenica ore 9 - 12 e 16 - 19
Vernissage
22 Aprile 2018, ore 17,30
Autore