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Somewhen
La mostra, in concomitanza con la Biennale di Architettura di Venezia, presenta fotografie di celebrati artisti internazionali e giovani talenti emergenti, e si concentra sull’idea di transitorietà come condizione per lo più invisibile, eppure perennemente presente, dell’abitare umano.
Comunicato stampa
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L’immagine fotografica, sempre legata costitutivamente all’hic et nunc, a una contemporaneità e compresenza rispetto al proprio oggetto, ripresenta ineludibilmente uno “stato delle cose”. La questione del rapporto tra arte e fotografia ruota sostanzialmente attorno alla capacità del fotografo, al di là del modo in cui lo fa, di superare questo limite e di estrarre la potenzialità prerogativa dell’immagine di condurre consapevolmente il pensiero dello spettatore, mediante un percorso mentale, oltre i confini di ciò che in essa appare. Le opere presenti in mostra sono accomunate dal perseguimento di questo obiettivo attraverso la messa in atto, da parte degli artisti, di una personale strategia estetica che presenta il visibile simulando uno sguardo analitico, neutro ed imparziale. La visione statica di un preciso momento nella storia di un determinato luogo, la cui estensione nel tempo resta indeterminata, collide con la netta percezione, da parte dello spettatore, di un senso di instabilità, di mutevolezza rispetto alla presenza dell’uomo. Pur mostrando il presente, le fotografie inducono la mente a fluttuare nel tempo, immaginando il passato o ipotizzando il futuro.
Se l’arte di progettare e costruire spazi per l’abitare dell’uomo presuppone la necessità di pensare un’utopica immutabilità, di fingere l’inconsapevolezza che in un tempo indefinito un evento catastrofico, l’incuria, la follia o semplicemente la volubilità dell’animo umano distruggeranno o modificheranno quanto è stato edificato, un’altra arte si assume così il compito di mostrare la natura effimera del carattere e del senso dei luoghi di fronte all’incessante avanzare del tempo, inducendoci a immaginare altri tempi del loro esistere.
Le immagini realizzate a Beirut nel 1991 da Gabriele Basilico, così come quelle di Robert Polidori a New Orleans tra il 2005 e il 2006, testimoniano drammaticamente, in fotografie dallo stile differente ma tutte dallo straordinario equilibrio formale, quanto restava di due città sconvolte da eventi completamente diversi ma egualmente tragici. Concentrandosi prevalentemente il primo su una visione complessiva della città, il secondo sugli spazi privati, essi ci pongono di fronte ai resti materiali di un’epoca e di uno stile di vita scomparsi per sempre, tanto quanto agli interrogativi sul loro futuro, purtroppo tuttora irrisolti. Lontano dai drammi collettivi, anche Guido Guidi lavora sulla memoria dei luoghi. La scelta di realizzare fotografie in cui gli ambienti sono perfettamente strutturati dal punto di vista della resa spaziale e dell’incidenza della luce, finge un disinteresse per le tracce di vita del passato che emergono più silenziosamente, ma non per questo con meno forza. La serie di fotografie dal sapore di epopea che Edward Burtynsky ha scattato nella valle del fiume Yangtze nel 2002, mostrano l’atmosfera spettrale degli ultimi giorni di vita di un insediamento umano prima di essere cancellato per sempre dal faraonico progetto della Diga delle Tre Gole, voluto dal governo cinese. L’instabilità dell’abitare umano come riflesso dei grandi mutamenti ambientali, oggetto da sempre della ricerca di Burtynsky, è da lui presentata ancora una volta come inevitabile conseguenza delle logiche del mondo contemporaneo.
Il mutamento nel momento stesso in cui si manifesta è all’attenzione, in modo diverso, anche di Primož Bizjak, Teodoro Lupo e Andrea Botto. Bizjak si introduce nottetempo nel cuore di edifici urbani in stato di ristrutturazione o di abbandono, fotografandone dall’interno l’esoscheletro. La luce artificiale che dalla parte pulsante della città inonda questi spazi vuoti, divenuti fantasmi della memoria, ne modifica la percezione sospendendo il tempo in una dimensione irreale.
Lupo, nella serie di fotografie Staubfilm (Pellicola di polvere), riprende alcuni spazi commerciali di Berlino nel lasso di tempo in cui un’attività ha chiuso i battenti e una nuova, nella stessa sede, sta per essere intrapresa. In questo modo, paradossalmente, la staticità dell’immagine diventa sintomo della mobilità di una città. L’immagine di Botto invece, realizzata durante le riprese della realizzazione di una grande opera nella Pianura Padana, non mostra direttamente l’esecuzione dei lavori, ma sfruttando l’eccezionale illuminazione necessaria a svolgerli, conduce la nostra attenzione sulle dimore degli abitanti, spettatori passivi delle irrimediabili modificazioni in corso del paesaggio.
Il dittico di Martina Della Valle presenta anch’esso una situazione edilizia indefinitamente sospesa, mostrando da una parte l’intera parete interna di una casa, rimasta unica traccia di una storia abitativa dopo la parziale demolizione dell’edificio; dall’altra, un dettaglio di un’altra parete da una casa anch’essa diroccata. La presenza su questa dei lacerti di un affresco ritraente un antico villaggio, crea un dialogo tra le parti instaurando una riflessione sull’immagine e il trascorrere del tempo.
Laddove la vita sembra invece scorrere senza scosse, in un ripetersi ciclico indifferenziato, è nelle fotografie di Joël Tettamanti e in quelle di Jürgen Nefzger, complice la costruzione formale dell’immagine. Tuttavia, proprio questa indeterminatezza contribuisce a generare, per converso, una proiezione verso un futuro tutt’altro che certo. I villaggi della Groenlandia fotografati da Tettamanti, immersi in una pace assoluta in un’atmosfera fiabesca, nascondono la minaccia dei grandi cambiamenti climatici e della stretta globalizzatrice sulle popolazioni indigene. Il placido scorrere dell’attività quotidiana ritratto con ironia nelle fotografie di Nefzger, contrasta con l’inquietante sagoma delle centrali nucleari, che si tramutano in elemento paesaggistico ordinario dissimulando l’ingombrante lascito ambientale della loro produzione energetica.
Se l’arte di progettare e costruire spazi per l’abitare dell’uomo presuppone la necessità di pensare un’utopica immutabilità, di fingere l’inconsapevolezza che in un tempo indefinito un evento catastrofico, l’incuria, la follia o semplicemente la volubilità dell’animo umano distruggeranno o modificheranno quanto è stato edificato, un’altra arte si assume così il compito di mostrare la natura effimera del carattere e del senso dei luoghi di fronte all’incessante avanzare del tempo, inducendoci a immaginare altri tempi del loro esistere.
Le immagini realizzate a Beirut nel 1991 da Gabriele Basilico, così come quelle di Robert Polidori a New Orleans tra il 2005 e il 2006, testimoniano drammaticamente, in fotografie dallo stile differente ma tutte dallo straordinario equilibrio formale, quanto restava di due città sconvolte da eventi completamente diversi ma egualmente tragici. Concentrandosi prevalentemente il primo su una visione complessiva della città, il secondo sugli spazi privati, essi ci pongono di fronte ai resti materiali di un’epoca e di uno stile di vita scomparsi per sempre, tanto quanto agli interrogativi sul loro futuro, purtroppo tuttora irrisolti. Lontano dai drammi collettivi, anche Guido Guidi lavora sulla memoria dei luoghi. La scelta di realizzare fotografie in cui gli ambienti sono perfettamente strutturati dal punto di vista della resa spaziale e dell’incidenza della luce, finge un disinteresse per le tracce di vita del passato che emergono più silenziosamente, ma non per questo con meno forza. La serie di fotografie dal sapore di epopea che Edward Burtynsky ha scattato nella valle del fiume Yangtze nel 2002, mostrano l’atmosfera spettrale degli ultimi giorni di vita di un insediamento umano prima di essere cancellato per sempre dal faraonico progetto della Diga delle Tre Gole, voluto dal governo cinese. L’instabilità dell’abitare umano come riflesso dei grandi mutamenti ambientali, oggetto da sempre della ricerca di Burtynsky, è da lui presentata ancora una volta come inevitabile conseguenza delle logiche del mondo contemporaneo.
Il mutamento nel momento stesso in cui si manifesta è all’attenzione, in modo diverso, anche di Primož Bizjak, Teodoro Lupo e Andrea Botto. Bizjak si introduce nottetempo nel cuore di edifici urbani in stato di ristrutturazione o di abbandono, fotografandone dall’interno l’esoscheletro. La luce artificiale che dalla parte pulsante della città inonda questi spazi vuoti, divenuti fantasmi della memoria, ne modifica la percezione sospendendo il tempo in una dimensione irreale.
Lupo, nella serie di fotografie Staubfilm (Pellicola di polvere), riprende alcuni spazi commerciali di Berlino nel lasso di tempo in cui un’attività ha chiuso i battenti e una nuova, nella stessa sede, sta per essere intrapresa. In questo modo, paradossalmente, la staticità dell’immagine diventa sintomo della mobilità di una città. L’immagine di Botto invece, realizzata durante le riprese della realizzazione di una grande opera nella Pianura Padana, non mostra direttamente l’esecuzione dei lavori, ma sfruttando l’eccezionale illuminazione necessaria a svolgerli, conduce la nostra attenzione sulle dimore degli abitanti, spettatori passivi delle irrimediabili modificazioni in corso del paesaggio.
Il dittico di Martina Della Valle presenta anch’esso una situazione edilizia indefinitamente sospesa, mostrando da una parte l’intera parete interna di una casa, rimasta unica traccia di una storia abitativa dopo la parziale demolizione dell’edificio; dall’altra, un dettaglio di un’altra parete da una casa anch’essa diroccata. La presenza su questa dei lacerti di un affresco ritraente un antico villaggio, crea un dialogo tra le parti instaurando una riflessione sull’immagine e il trascorrere del tempo.
Laddove la vita sembra invece scorrere senza scosse, in un ripetersi ciclico indifferenziato, è nelle fotografie di Joël Tettamanti e in quelle di Jürgen Nefzger, complice la costruzione formale dell’immagine. Tuttavia, proprio questa indeterminatezza contribuisce a generare, per converso, una proiezione verso un futuro tutt’altro che certo. I villaggi della Groenlandia fotografati da Tettamanti, immersi in una pace assoluta in un’atmosfera fiabesca, nascondono la minaccia dei grandi cambiamenti climatici e della stretta globalizzatrice sulle popolazioni indigene. Il placido scorrere dell’attività quotidiana ritratto con ironia nelle fotografie di Nefzger, contrasta con l’inquietante sagoma delle centrali nucleari, che si tramutano in elemento paesaggistico ordinario dissimulando l’ingombrante lascito ambientale della loro produzione energetica.
10
settembre 2008
Somewhen
Dal 10 settembre al 15 novembre 2008
fotografia
Location
JARACH GALLERY
Venezia, Campo San Fantin (San Marco), 1997, (Venezia)
Venezia, Campo San Fantin (San Marco), 1997, (Venezia)
Orario di apertura
da Martedì a Sabato ore 10-13 e 14.30–19.30. Domenica e lunedì su appuntamento
Vernissage
10 Settembre 2008, ore 18:00
Autore
Curatore