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Stefania Demaria
Stefania Demaria nasce a Molochio nel 1973, si trasferisce a Reggio Calabria dove frequenta il Liceo Artistico e si diploma successivamente all’Accademia delle Belle Arti. Inizia la sua attivita’ espositiva nel 1993.
Comunicato stampa
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Non capita di frequente di imbattersi in un giovane artista che abbia le idee chiare. Mi spiego: che abbia intuito un suo campo di ricerca ben delimitato, ne abbia definito le forme e la sintassi e ne vada indagando le possibilità linguistiche, in un percorso coerente che evita tanto la mera ripetizione quanto le divagazioni inutili.
È il caso di Stefania Demaria, che, pur con una storia artistica ancora giovane, ha appunto ben circoscritto fin da subito il proprio campo d’indagine, scegliendo per di più non la scorciatoia di una figurazione facile, o di altri media più ammiccanti e fascinosi che vanno per la maggiore, ma la “porta stretta” dell’astrazione, di un linguaggio che si appaga di se stesso e delle proprie regole.
La matrice della storia, della storia recente dell’arte, è chiara: è il vastissimo alveo dell’arte astratta del ‘900, che ormai fa parte del nostro immaginario visivo, che condiziona il nostro modo di vedere, ne siamo o no consapevoli, per quanto ha voluto e vuole ancor dire in termini non solo di arte in senso stretto ma di design, grafica, architettura…
Demaria si rapporta a questo mondo di forme, con una consapevolezza e una libertà però che ne marcano la novità, la “giovinezza” – e che si ritrovano in altri artisti che oggi si muovono nello stesso ambito, configurando un’astrazione che, lungi dall’essere morta e sepolta come poteva apparire solo pochi anni fa, trova nuove energie, nuovi orizzonti di espressione, proprio radicandosi nella tradizione.
La libertà sta soprattutto nell’attingere senza preclusioni sia al filone geometrico che a quello informale, i due principali “affluenti” dell’ampio fiume dell’astrazione. Nei primi lavori dell’artista appaiono infatti due “motivi” formali ben distinti, inizialmente presentati in contesti separati: da un lato le forme organiche, tese e percorse di una interna dinamicità, realizzate tendendo in alcuni punti delle calze di nylon – e in qualche caso il risultato è di un tale equilibrio e di una tale pulizia da far addirittura dimenticare che si tratta di una calza. Dall’altro la tela, questa volta dipinta, è incentrata su una forma geometrica statica, dal profilo regolare, una sorta di gancio che funziona come un modulo, una cellula formale che viene ripetuta, moltiplicata, intersecata. In lavori intermedi tra i primi e i più recenti questa sagoma si sdoppia come se proiettasse la propria ombra e suggerisce così uno sviluppo in profondità che mi pare l’aspetto più interessante del lavoro di Demaria, confermato da un segno, in genere chiaro e sottile, che si sovrappone ai grigi retrostanti e sembra suggerire un ulteriore piano, questa volta “davanti”. La spazialità, ovviamente non la spazialità prospettica del ‘500, ma quella “profondità del piano” che suona come un paradosso ed è però uno dei temi di ricerca più forti del ‘900, è quindi l’ambito di indagine dell’artista.
Lo confermano i lavori più recenti in cui quei due morfemi prima separati trovano una possibilità di interazione e di sintesi: i ritagli di calza sostituiscono il fondo, che prima restava inerte, e servono ora a creare uno spazio arcuato, avvolgente, quasi fosse percorso da un movimento interno di lento rigonfiamento; con questo spazio agiscono le forme, quel pattern di cui si parlava, ulteriormente sviluppato ritagliando la tela su cui è dipinto in anelli concentrici dalla geometria perfetta e poi sfalsandone la ricomposizione sulla tela finale, che resta bianca.
Un bianco accecante, che buca il vuoto, spintona i grigi e si piazza in primo piano. E fa l’effetto di un sorriso perfido, che mette in discussione la costruzione spaziale di tutto il resto.
La “giovane” astrazione ha anche questo di buono: che sa mettersi in discussione ed è consapevole che, sì, il suo scopo è ancora cercare l’equilibrio e l’armonia, ma che non può trattarsi, oggi, altro che di un equilibrio e di un’armonia provvisori e transeunti, conquistati e negati al tempo stesso.
Chiara Tavella
È il caso di Stefania Demaria, che, pur con una storia artistica ancora giovane, ha appunto ben circoscritto fin da subito il proprio campo d’indagine, scegliendo per di più non la scorciatoia di una figurazione facile, o di altri media più ammiccanti e fascinosi che vanno per la maggiore, ma la “porta stretta” dell’astrazione, di un linguaggio che si appaga di se stesso e delle proprie regole.
La matrice della storia, della storia recente dell’arte, è chiara: è il vastissimo alveo dell’arte astratta del ‘900, che ormai fa parte del nostro immaginario visivo, che condiziona il nostro modo di vedere, ne siamo o no consapevoli, per quanto ha voluto e vuole ancor dire in termini non solo di arte in senso stretto ma di design, grafica, architettura…
Demaria si rapporta a questo mondo di forme, con una consapevolezza e una libertà però che ne marcano la novità, la “giovinezza” – e che si ritrovano in altri artisti che oggi si muovono nello stesso ambito, configurando un’astrazione che, lungi dall’essere morta e sepolta come poteva apparire solo pochi anni fa, trova nuove energie, nuovi orizzonti di espressione, proprio radicandosi nella tradizione.
La libertà sta soprattutto nell’attingere senza preclusioni sia al filone geometrico che a quello informale, i due principali “affluenti” dell’ampio fiume dell’astrazione. Nei primi lavori dell’artista appaiono infatti due “motivi” formali ben distinti, inizialmente presentati in contesti separati: da un lato le forme organiche, tese e percorse di una interna dinamicità, realizzate tendendo in alcuni punti delle calze di nylon – e in qualche caso il risultato è di un tale equilibrio e di una tale pulizia da far addirittura dimenticare che si tratta di una calza. Dall’altro la tela, questa volta dipinta, è incentrata su una forma geometrica statica, dal profilo regolare, una sorta di gancio che funziona come un modulo, una cellula formale che viene ripetuta, moltiplicata, intersecata. In lavori intermedi tra i primi e i più recenti questa sagoma si sdoppia come se proiettasse la propria ombra e suggerisce così uno sviluppo in profondità che mi pare l’aspetto più interessante del lavoro di Demaria, confermato da un segno, in genere chiaro e sottile, che si sovrappone ai grigi retrostanti e sembra suggerire un ulteriore piano, questa volta “davanti”. La spazialità, ovviamente non la spazialità prospettica del ‘500, ma quella “profondità del piano” che suona come un paradosso ed è però uno dei temi di ricerca più forti del ‘900, è quindi l’ambito di indagine dell’artista.
Lo confermano i lavori più recenti in cui quei due morfemi prima separati trovano una possibilità di interazione e di sintesi: i ritagli di calza sostituiscono il fondo, che prima restava inerte, e servono ora a creare uno spazio arcuato, avvolgente, quasi fosse percorso da un movimento interno di lento rigonfiamento; con questo spazio agiscono le forme, quel pattern di cui si parlava, ulteriormente sviluppato ritagliando la tela su cui è dipinto in anelli concentrici dalla geometria perfetta e poi sfalsandone la ricomposizione sulla tela finale, che resta bianca.
Un bianco accecante, che buca il vuoto, spintona i grigi e si piazza in primo piano. E fa l’effetto di un sorriso perfido, che mette in discussione la costruzione spaziale di tutto il resto.
La “giovane” astrazione ha anche questo di buono: che sa mettersi in discussione ed è consapevole che, sì, il suo scopo è ancora cercare l’equilibrio e l’armonia, ma che non può trattarsi, oggi, altro che di un equilibrio e di un’armonia provvisori e transeunti, conquistati e negati al tempo stesso.
Chiara Tavella
09
maggio 2009
Stefania Demaria
Dal 09 maggio al 04 giugno 2009
arte contemporanea
Location
LA ROGGIA
Pordenone, Viale Trieste, 19, (Pordenone)
Pordenone, Viale Trieste, 19, (Pordenone)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 16 - 19,30
Vernissage
9 Maggio 2009, ore 11,30
Autore
Curatore