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Stefano Borioni – Piangi Roma
Mostra personale
Comunicato stampa
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Stefano Borioni, romano, classe 1980, dottore in Psicologia Clinica, coltiva la passione per la fotografia ormai da dieci anni. All’attivo tre personali (“Un libero cercare” - febbraio 2008; “Cardiologia” – maggio 2008; “Forse da molto lontano” – febbraio 2009) e due collettive c/o il Circolo degli Artisti di Roma all’interno degli eventi “N.U.A. - L’Arte Invisibile” e “WI.fi.Art”.
Per la prima volta espone in Puglia, nell’elegante cornice del centro storico di Lucera, con una personale a carattere retrospettivo che racchiude 14 scatti e diversi approcci stilistici e tematici: dall’amatissimo bianco e nero a sperimentazioni astratte, da paesaggi suggestivi a pose di carattere documentaristico o di denuncia sociale. Uno sguardo attento ma a volte sognatore che cattura attimi di vita quotidiana o semplicemente suggestive immagini che permettono all’osservatore di liberare pensieri e riflessioni scaturiti anche dai titoli accattivanti delle sue fotografie.
Intervista all’artista STEFANO BORIONI
A cura di ELEONORA ZACCARIA
I titolo delle tue mostre hanno sempre un significato particolare. Perché PIANGI ROMA?
Tutti i titoli delle mie mostre hanno un senso ed una storia, possono nascere da una parola che leggo in strada o sull’autobus, da una frase pronunciata da uno sconosciuto o da una riga di una canzone, questo non conta. L’importante è che quando sento “quella” singola parola mi rendo conto che qualcosa scatta dentro di me, sento che è quella giusta, quella che meglio in quel momento può rappresentare le mie fotografie, e quindi me.
“Cardiologia”, per esempio, richiamando alla mente quella specifica branca della medicina che studia le anomalie del cuore era perfetta nella sua valenza metaforica, dove il cuore rappresenta l’emozionalità in senso lato: gli scatti proposti erano proprio volti ad indagare le anomalie di tale emozionalità.
Per quanto riguarda “Piangi Roma” il discorso è stato simile: nella prima mostra che faccio lontano da casa ci tenevo a citare il nome della mia città, soprattutto perché odio vedere Roma associata sempre ai soliti cliché polverosi. Con queste idee che mi giravano in testa ho ascoltato per caso l’ultimo pezzo del gruppo musicale i “Baustelle”, a mio avviso autori di alcuni tra i più interessanti e suggestivi pezzi scritti negli ultimi dieci anni in Italia, colonna sonora del film di Luigi Piccioni “Giulia non esce la sera”con V. Golino e V. Mastrandrea. Tale pezzo si intitola appunto “Piangi Roma” (eseguito dai Baustelle con la stessa Golino) e fin dal primo ascolto ho trovato al suo interno, ben miscelati, sia i passaggi neoromantici che le invocazioni pre-apocalittiche che alcuni hanno rintracciato (giustamente) nelle mie fotografie. E’ dunque un omaggio a quella Roma che porto nel cuore e tiene legate tra loro quelle suggestioni che caratterizzano me stesso oltre che il mio lavoro.
Coltivi la tua passione per l’arte da molti anni. Perché hai scelto di dedicarti proprio alla fotografia?
Ci sono tanti modi per rispondere a questa domanda, credo dipenda principalmente da quanta voglia uno abbia di aprirsi realmente, al di la delle solite banalità che tutti si aspettano dal pittore, il fotografo, l’attore eccetera (sorride). Diciamo che le cause del mio amore per la fotografia sono tante, primo tra tutte e forse quello più pratico, lo puoi leggere sulla mia biografia di Flickr: sono stato instradato all’arte da mio padre fin da quando ero un bambino. Se associo la parola domenica alla mia infanzia mi vedo con lui su un ponte di Trastevere a fare acquerelli in cappotto o, in estate, sulla spiaggia della nostra vecchia casa di Cerenova, fantasticando su di un colore trasparente per colorare il mare sulle mie tele. Forse la fotografia è stato quel fantomatico colore trasparente. Credo però che tutti questi momenti sarebbero caduti nel vuoto se nella mia vita non avessi avuto la “fortuna/sfortuna” di essere messo al corrente molto presto, dai tanti buoni maestri che ho avuto, dell’importanza e dell’unicità della vita per ogni essere umano; notizia sconvolgente ma molto utile se non ci si vuole svegliare una mattina a sessant’anni chiedendosi “che cosa ho fatto della mia vita?”. Credo che fare arte, quando si è in buona fede, non si dissoci mai dal concetto di ricerca: cerchi qualcosa che non riconosci finché non trovi e di solito è un processo piuttosto frustrante. La gioia che però provi quando raggiungi l’obiettivo, per quanto fugace, è davvero molto intensa.
Dai tuoi scatti emerge un forte interesse per il quotidiano. Cosa ti spinge ad inserire risvolti sociali nelle tue foto?
La mia sensazione è che viviamo tutti in una società in qualche modo perduta ed impazzita: l’egoismo, le banalità, i razzismi multiformi o i pregiudizi ci sono sempre stati, per carità, ma in questo particolare periodo storico mi sembra si navighi talmente spesso a vista che il rischio di confondere la virtù con il vizio sia molto forte. Siamo tutti estasiati dal nuovo iPOd, dalla nuova telecamera o dal fuoristrada fiammante ma li usiamo per ascoltare musica di plastica, riprendere l’ennesima vacanza nell’ennesimo villaggio turistico a Sharm el Sheik in cerca d’un ristorante italiano o fare a gara in tangenziale con quello della corsia di fianco. Ed il problema è che ci va bene così. Credo che parimenti ad un’evidente evoluzione tecnologica stiamo sperimentando un imbarbarimento che in qualche modo tocca tutti. Ecco quindi che nelle mie foto a volte cerco la provocazione, non lo choc fine a stesso come nel caso di “opere” criminali come nel caso di Guillermo Habacuc Vargas, ma una provocazione che in qualche modo possa sollecitare la riflessione, nella speranza di collaborare nel mio piccolo a contrastare la tendenza generale al non pensiero o, al massimo, al pensiero passivo.
I titoli delle tue fotografie sono molto accattivanti. Che ruolo hanno le parole?
I miei titoli non sono didascalici, ho troppo rispetto dello spettatore per spiegargli cosa sta vedendo.
Io uso il titolo come una freccia, in modo che possa essere la cassa risonanza concettuale dell’opera. Ti faccio un esempio: nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, ho fotografato un bambino che guarda incuriosito un cartello in tedesco, lo osserva perplesso senza capire l’orrore intrinseco di tutto quello che gli sta intorno, dai muri dove avvenivano le fucilazioni ai forni crematori. Ora, secondo me non avrebbe avuto senso chiamare questa foto “Auschwitz” o “Bambino ad Auschwitz”, queste sono cose che possono vedere tutti e non dicono nulla di più rispetto a quel che propone già l’immagine. Io ho voluto dialogare con lo spettatore, mettermi idealmente alle sue spalle e sussurrargli alle orecchie di tenere a mente quel momento, quella sensazione. E’ per questo che la fotografia si chiama “Portami con te”.
Perchè giochi con i colori?
Per tanti anni le mie fotografie sono state in bianco e nero, un’abitudine che sfiorava i fondamentalismo (ride). Per gioco, come giustamente hai detto tu, ho provato a sperimentare il bianco e nero assieme a delle variazioni cromatiche che mi sembravano interessanti. Ogni tanto permetto a qualche colore di dire la sua ma sempre a patto che l’equilibrio (o il disequilibrio) che sto cercando, venga rispettato.
Sei Dottore in Psicologia. Come unisci la tua formazione professionale ai tuoi scatti?
Questa è una domanda che mi viene fatta spesso e devo ammettere che è stata per me fonte di riflessione. Credo che un legame tra psicologia e arte ci sia, ma non come la maggior parte delle persone lo immagina. Parti dal presupposto che entrambe queste discipline hanno in comune la curiosità, l’apertura verso il mondo e le persone che lo popolano con una particolare predilezione per i tanti elementi suggestivi che vi girano intorno. Però l’immagine dello psicologo onnisciente ed affascinante, che conosce talmente bene se stesso dall’applicare questa consapevolezza al mondo e, forte di questo, coglie gli aspetti più interessanti di ciò che lo circonda, è un soggetto interessante per un film di Hollywood con Richard Gere, non di più. Penso piuttosto che la psicologia sia utile per approfondire questa necessità, perché più che volontà è appunto una necessità, di comunicare ed al tempo stesso di tirar fuori attraverso la tua arte i demoni e le farfalle che hai dentro. Attraverso una maieutica autoreferenziale (troppo spesso confusa con l’egocentrismo) puoi creare qualcosa che prima non c’era e dopo di te ci sarà, magari per tanti anni. Questo è bellissimo, rasenta quello che molti chiamano con estrema indulgenza felicità, ma credo anche che la paghi salatamente in quei momenti di ricerca di cui ti parlavo prima. Questo è il giochino per cui molti signori, sperando di cavalcare la tigre, assumono l’aria degli artisti maledetti sperando di risultare più affascinanti agli occhi del mondo. Spesso, però, la mancanza di talento è talmente evidente che il rischio di diventare la caricatura di quel che vorrebbero essere rasenta la certezza matematica.
Alcune foto hanno poco di reale. Da cosa scaturiscono questi esperimenti astratti?
Sono dell’idea che ogni artista, in ogni fase storica abbia utilizzato tutte le tecniche che la sua epoca gli metteva a disposizione per potersi esprimere al meglio e che, puntualmente, sia stato stigmatizzato dai colleghi anziani come “distruttore dell’arte”. E’ successo nel passaggio dalla pittura ad olio alla pittura acrilica, dalla pittura alla fotografia, dal passaggio di pellicole leggendarie come Kodachrome alla fotografia digitale; solo per fare i primi esempi che mi vengono in mente. Tutte le innovazioni vengono osteggiate finché non diventano la norma, è un processo inevitabile, grazie a Dio, perché ci salva dalla stagnazione artistica. Un giorno i vecchi della mia generazione rimpiangeranno Photoshop e le Reflex che oggi utilizziamo tutti facendo incazzare i nostalgici dell’analogica (sorride). Dico questo perché, pur non essendo un amante del fotoritocco, ne riconosco le potenzialità creative e come potrai vedere in questa mostra ne ho fatto uso quando quel che volevo rappresentare invece che davanti ai miei occhi era dentro di me.
Il tuo messaggio e il filo conduttore della tua Arte
Non credo di avere un messaggio a livello artistico, casomai qualche idea. Una di queste è che fare fotografia non è spendere migliaia di euro in armamentari fotografici, flash, cavalletti ed ogni diavoleria che un catalogo ci propone; casomai è comprare una buona compatta e mettersi in gioco, cercando dentro noi stessi prima che fuori quel che vogliamo dire con le nostre foto. Basta fotografare il Colosseo o il colonnato di S.Pietro e pretendere di essere “artisti” perché dal Giappone o dalla Malesia si complimentano con noi su Flickr, ogni tabaccaio di ogni grande città è piena di cartoline di quel genere, sono soggetti sovraesposti e per questo talmente semplici da fotografare da diventare soggetti impossibili. Un tempo a Roma gli artisti si incontravano al Caffè Greco, al Caffè Rosati di Piazza del Popolo o magari al Pantheon, oggi paradossalmente tutto sembra più dispersivo ed è proprio per questo che su Flickr ho fondato il gruppo AREs (Artisti Romani Emergenti), luogo di scambio per chi si occupa di arte in Italia con un particolare occhio di riguardo per chi lo fa a Roma. L’idea è quella di creare contatti, organizzare o promuovere Personali e Collettive, dar vita a collaborazioni e dibattiti. Magari il messaggio di cui parlavi prima lo troveremo assieme, influenzandoci reciprocamente.
Per la prima volta espone in Puglia, nell’elegante cornice del centro storico di Lucera, con una personale a carattere retrospettivo che racchiude 14 scatti e diversi approcci stilistici e tematici: dall’amatissimo bianco e nero a sperimentazioni astratte, da paesaggi suggestivi a pose di carattere documentaristico o di denuncia sociale. Uno sguardo attento ma a volte sognatore che cattura attimi di vita quotidiana o semplicemente suggestive immagini che permettono all’osservatore di liberare pensieri e riflessioni scaturiti anche dai titoli accattivanti delle sue fotografie.
Intervista all’artista STEFANO BORIONI
A cura di ELEONORA ZACCARIA
I titolo delle tue mostre hanno sempre un significato particolare. Perché PIANGI ROMA?
Tutti i titoli delle mie mostre hanno un senso ed una storia, possono nascere da una parola che leggo in strada o sull’autobus, da una frase pronunciata da uno sconosciuto o da una riga di una canzone, questo non conta. L’importante è che quando sento “quella” singola parola mi rendo conto che qualcosa scatta dentro di me, sento che è quella giusta, quella che meglio in quel momento può rappresentare le mie fotografie, e quindi me.
“Cardiologia”, per esempio, richiamando alla mente quella specifica branca della medicina che studia le anomalie del cuore era perfetta nella sua valenza metaforica, dove il cuore rappresenta l’emozionalità in senso lato: gli scatti proposti erano proprio volti ad indagare le anomalie di tale emozionalità.
Per quanto riguarda “Piangi Roma” il discorso è stato simile: nella prima mostra che faccio lontano da casa ci tenevo a citare il nome della mia città, soprattutto perché odio vedere Roma associata sempre ai soliti cliché polverosi. Con queste idee che mi giravano in testa ho ascoltato per caso l’ultimo pezzo del gruppo musicale i “Baustelle”, a mio avviso autori di alcuni tra i più interessanti e suggestivi pezzi scritti negli ultimi dieci anni in Italia, colonna sonora del film di Luigi Piccioni “Giulia non esce la sera”con V. Golino e V. Mastrandrea. Tale pezzo si intitola appunto “Piangi Roma” (eseguito dai Baustelle con la stessa Golino) e fin dal primo ascolto ho trovato al suo interno, ben miscelati, sia i passaggi neoromantici che le invocazioni pre-apocalittiche che alcuni hanno rintracciato (giustamente) nelle mie fotografie. E’ dunque un omaggio a quella Roma che porto nel cuore e tiene legate tra loro quelle suggestioni che caratterizzano me stesso oltre che il mio lavoro.
Coltivi la tua passione per l’arte da molti anni. Perché hai scelto di dedicarti proprio alla fotografia?
Ci sono tanti modi per rispondere a questa domanda, credo dipenda principalmente da quanta voglia uno abbia di aprirsi realmente, al di la delle solite banalità che tutti si aspettano dal pittore, il fotografo, l’attore eccetera (sorride). Diciamo che le cause del mio amore per la fotografia sono tante, primo tra tutte e forse quello più pratico, lo puoi leggere sulla mia biografia di Flickr: sono stato instradato all’arte da mio padre fin da quando ero un bambino. Se associo la parola domenica alla mia infanzia mi vedo con lui su un ponte di Trastevere a fare acquerelli in cappotto o, in estate, sulla spiaggia della nostra vecchia casa di Cerenova, fantasticando su di un colore trasparente per colorare il mare sulle mie tele. Forse la fotografia è stato quel fantomatico colore trasparente. Credo però che tutti questi momenti sarebbero caduti nel vuoto se nella mia vita non avessi avuto la “fortuna/sfortuna” di essere messo al corrente molto presto, dai tanti buoni maestri che ho avuto, dell’importanza e dell’unicità della vita per ogni essere umano; notizia sconvolgente ma molto utile se non ci si vuole svegliare una mattina a sessant’anni chiedendosi “che cosa ho fatto della mia vita?”. Credo che fare arte, quando si è in buona fede, non si dissoci mai dal concetto di ricerca: cerchi qualcosa che non riconosci finché non trovi e di solito è un processo piuttosto frustrante. La gioia che però provi quando raggiungi l’obiettivo, per quanto fugace, è davvero molto intensa.
Dai tuoi scatti emerge un forte interesse per il quotidiano. Cosa ti spinge ad inserire risvolti sociali nelle tue foto?
La mia sensazione è che viviamo tutti in una società in qualche modo perduta ed impazzita: l’egoismo, le banalità, i razzismi multiformi o i pregiudizi ci sono sempre stati, per carità, ma in questo particolare periodo storico mi sembra si navighi talmente spesso a vista che il rischio di confondere la virtù con il vizio sia molto forte. Siamo tutti estasiati dal nuovo iPOd, dalla nuova telecamera o dal fuoristrada fiammante ma li usiamo per ascoltare musica di plastica, riprendere l’ennesima vacanza nell’ennesimo villaggio turistico a Sharm el Sheik in cerca d’un ristorante italiano o fare a gara in tangenziale con quello della corsia di fianco. Ed il problema è che ci va bene così. Credo che parimenti ad un’evidente evoluzione tecnologica stiamo sperimentando un imbarbarimento che in qualche modo tocca tutti. Ecco quindi che nelle mie foto a volte cerco la provocazione, non lo choc fine a stesso come nel caso di “opere” criminali come nel caso di Guillermo Habacuc Vargas, ma una provocazione che in qualche modo possa sollecitare la riflessione, nella speranza di collaborare nel mio piccolo a contrastare la tendenza generale al non pensiero o, al massimo, al pensiero passivo.
I titoli delle tue fotografie sono molto accattivanti. Che ruolo hanno le parole?
I miei titoli non sono didascalici, ho troppo rispetto dello spettatore per spiegargli cosa sta vedendo.
Io uso il titolo come una freccia, in modo che possa essere la cassa risonanza concettuale dell’opera. Ti faccio un esempio: nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, ho fotografato un bambino che guarda incuriosito un cartello in tedesco, lo osserva perplesso senza capire l’orrore intrinseco di tutto quello che gli sta intorno, dai muri dove avvenivano le fucilazioni ai forni crematori. Ora, secondo me non avrebbe avuto senso chiamare questa foto “Auschwitz” o “Bambino ad Auschwitz”, queste sono cose che possono vedere tutti e non dicono nulla di più rispetto a quel che propone già l’immagine. Io ho voluto dialogare con lo spettatore, mettermi idealmente alle sue spalle e sussurrargli alle orecchie di tenere a mente quel momento, quella sensazione. E’ per questo che la fotografia si chiama “Portami con te”.
Perchè giochi con i colori?
Per tanti anni le mie fotografie sono state in bianco e nero, un’abitudine che sfiorava i fondamentalismo (ride). Per gioco, come giustamente hai detto tu, ho provato a sperimentare il bianco e nero assieme a delle variazioni cromatiche che mi sembravano interessanti. Ogni tanto permetto a qualche colore di dire la sua ma sempre a patto che l’equilibrio (o il disequilibrio) che sto cercando, venga rispettato.
Sei Dottore in Psicologia. Come unisci la tua formazione professionale ai tuoi scatti?
Questa è una domanda che mi viene fatta spesso e devo ammettere che è stata per me fonte di riflessione. Credo che un legame tra psicologia e arte ci sia, ma non come la maggior parte delle persone lo immagina. Parti dal presupposto che entrambe queste discipline hanno in comune la curiosità, l’apertura verso il mondo e le persone che lo popolano con una particolare predilezione per i tanti elementi suggestivi che vi girano intorno. Però l’immagine dello psicologo onnisciente ed affascinante, che conosce talmente bene se stesso dall’applicare questa consapevolezza al mondo e, forte di questo, coglie gli aspetti più interessanti di ciò che lo circonda, è un soggetto interessante per un film di Hollywood con Richard Gere, non di più. Penso piuttosto che la psicologia sia utile per approfondire questa necessità, perché più che volontà è appunto una necessità, di comunicare ed al tempo stesso di tirar fuori attraverso la tua arte i demoni e le farfalle che hai dentro. Attraverso una maieutica autoreferenziale (troppo spesso confusa con l’egocentrismo) puoi creare qualcosa che prima non c’era e dopo di te ci sarà, magari per tanti anni. Questo è bellissimo, rasenta quello che molti chiamano con estrema indulgenza felicità, ma credo anche che la paghi salatamente in quei momenti di ricerca di cui ti parlavo prima. Questo è il giochino per cui molti signori, sperando di cavalcare la tigre, assumono l’aria degli artisti maledetti sperando di risultare più affascinanti agli occhi del mondo. Spesso, però, la mancanza di talento è talmente evidente che il rischio di diventare la caricatura di quel che vorrebbero essere rasenta la certezza matematica.
Alcune foto hanno poco di reale. Da cosa scaturiscono questi esperimenti astratti?
Sono dell’idea che ogni artista, in ogni fase storica abbia utilizzato tutte le tecniche che la sua epoca gli metteva a disposizione per potersi esprimere al meglio e che, puntualmente, sia stato stigmatizzato dai colleghi anziani come “distruttore dell’arte”. E’ successo nel passaggio dalla pittura ad olio alla pittura acrilica, dalla pittura alla fotografia, dal passaggio di pellicole leggendarie come Kodachrome alla fotografia digitale; solo per fare i primi esempi che mi vengono in mente. Tutte le innovazioni vengono osteggiate finché non diventano la norma, è un processo inevitabile, grazie a Dio, perché ci salva dalla stagnazione artistica. Un giorno i vecchi della mia generazione rimpiangeranno Photoshop e le Reflex che oggi utilizziamo tutti facendo incazzare i nostalgici dell’analogica (sorride). Dico questo perché, pur non essendo un amante del fotoritocco, ne riconosco le potenzialità creative e come potrai vedere in questa mostra ne ho fatto uso quando quel che volevo rappresentare invece che davanti ai miei occhi era dentro di me.
Il tuo messaggio e il filo conduttore della tua Arte
Non credo di avere un messaggio a livello artistico, casomai qualche idea. Una di queste è che fare fotografia non è spendere migliaia di euro in armamentari fotografici, flash, cavalletti ed ogni diavoleria che un catalogo ci propone; casomai è comprare una buona compatta e mettersi in gioco, cercando dentro noi stessi prima che fuori quel che vogliamo dire con le nostre foto. Basta fotografare il Colosseo o il colonnato di S.Pietro e pretendere di essere “artisti” perché dal Giappone o dalla Malesia si complimentano con noi su Flickr, ogni tabaccaio di ogni grande città è piena di cartoline di quel genere, sono soggetti sovraesposti e per questo talmente semplici da fotografare da diventare soggetti impossibili. Un tempo a Roma gli artisti si incontravano al Caffè Greco, al Caffè Rosati di Piazza del Popolo o magari al Pantheon, oggi paradossalmente tutto sembra più dispersivo ed è proprio per questo che su Flickr ho fondato il gruppo AREs (Artisti Romani Emergenti), luogo di scambio per chi si occupa di arte in Italia con un particolare occhio di riguardo per chi lo fa a Roma. L’idea è quella di creare contatti, organizzare o promuovere Personali e Collettive, dar vita a collaborazioni e dibattiti. Magari il messaggio di cui parlavi prima lo troveremo assieme, influenzandoci reciprocamente.
24
agosto 2009
Stefano Borioni – Piangi Roma
Dal 24 al 30 agosto 2009
fotografia
Location
PALAZZO DE TROIA
Lucera, Piazza Nocelli, 6, (Foggia)
Lucera, Piazza Nocelli, 6, (Foggia)
Orario di apertura
orari di visita giornalieri delle 19.00 alle 23.00.
Vernissage
24 Agosto 2009, ore 20
Autore
Curatore