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Stefano D’Amadio – Hal 9000
“Da decenni ormai il cerchio rosso che in 2001: Odissea nello Spazio rappresenta l’occhio di HAL 9000 incarna insieme alle superfici bianche dell’interno della Discovery
il nostro immaginario delle imprese aerospaziali, l’essenza del rapporto uomo-macchina così come è stato immaginato con gli ambienti sterili e i rumori sordi del film di
Stanley Kubrick. Per questo, non appena osserviamo dei luoghi reali come i laboratori di scienza e ingegneria aerospaziale della Thales Alenia Space, lo sguardo compensa
la difficoltà nel comprendere il lavoro che si svolge al loro interno tornando con la memoria ai corridoi e agli schermi elettronici di 2001”. Fabio Severo
Comunicato stampa
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Giove e oltre l'infinito. Le forme dell'ingegneria aerospaziale
In 2001: Odissea nello Spazio, il calcolatore HAL 9000 si rivolta contro gli esseri umani che assiste
in una missione spaziale perché viene scoperto in errore, non avendo rilevato un
malfunzionamento all'antenna principale dell'astronave Discovery che li sta portando verso
Giove. La macchina "incapace di commettere errore" cade in un conflitto di priorità tra
proteggere gli astronauti e proteggere la missione, costringendo il comandante David Bowman
a disattivarla per salvare la propria vita.
Da decenni ormai il cerchio rosso che nel film rappresenta l'occhio di HAL incarna insieme alle
superfici bianche dell'interno della Discovery il nostro immaginario delle imprese aerospaziali,
l'essenza del rapporto uomo-macchina così come è stato immaginato con gli ambienti sterili e i
rumori sordi del film di Stanley Kubrick. Per questo, non appena osserviamo dei luoghi reali
come i laboratori di scienza e ingegneria aerospaziale della Thales Alenia Space, lo sguardo
compensa la difficoltà nel comprendere il lavoro che si svolge al loro interno tornando con la
memoria ai corridoi e agli schermi elettronici di 2001.
Si prova una forma di smarrimento nell'esplorare quegli ambienti, provocato dall'aspetto dei
macchinari che vengono assemblati al loro interno, dalle superfici e dai materiali che li rivestono,
dai colori di cui non capiamo la ragione. E soprattutto smarrisce osservare gli uomini e le donne
che si muovono attorno ad essi, mentre toccano delicatamente una leva o una giuntura dei vari
monoliti tecnologici, vestiti con camici bianchi come dei medici. Difficile comprendere perché
siano necessari guanti di lattice e una cuffia per capelli mentre si lavora a un macchinario che
appare fatto di solo metallo e fibra di carbonio, arduo intuire che cosa lo renda così delicato da
richiedere simili precauzioni.
HAL 9000 di Stefano D'Amadio nasce proprio da questa unione di pesantezza e fragilità
espressa dal mondo dei laboratori della Thales, dove squadre di ingegneri, fisici e tecnici
specializzati realizzano infrastrutture orbitanti dividendosi tra turbine grandi decine di metri e
micro-serre dove si sperimenta la crescita in orbita di piccoli germogli di piante. La forma degli
oggetti e dei macchinari che popolano i laboratori Thales disorienta, il loro aspetto appare
determinato esclusivamente dalla loro funzione, difficile rinvenire tracce di un'estetica che sia
stata concepita per essere guardata.
Eppure ci sforziamo di provare a comprenderli, per decifrarne lo scopo e l'immagine, per
provare a legarli al progetto scientifico che li ha resi necessari. Le forme circolari di diverse
strutture sono tra le poche immagini che ci danno un senso di compimento e di naturalezza, tra
mappe infinite di circuiti stampati e tubature che si arrampicano su colossi metallici. Come HAL
9000 si presentava all'uomo nella forma di un'iride rossa, così il cerchio torna a suggerire in
questi laboratori un'armonia di forma e idea, una rassicurazione per noi comuni cittadini che la
tecnologia che permetterà di vivere per anni in una navicella spaziale, in viaggio verso i confini
del sistema solare, sia qualcosa che viene progettato per il bene dell'umanità.
Fabio Severo
In 2001: Odissea nello Spazio, il calcolatore HAL 9000 si rivolta contro gli esseri umani che assiste
in una missione spaziale perché viene scoperto in errore, non avendo rilevato un
malfunzionamento all'antenna principale dell'astronave Discovery che li sta portando verso
Giove. La macchina "incapace di commettere errore" cade in un conflitto di priorità tra
proteggere gli astronauti e proteggere la missione, costringendo il comandante David Bowman
a disattivarla per salvare la propria vita.
Da decenni ormai il cerchio rosso che nel film rappresenta l'occhio di HAL incarna insieme alle
superfici bianche dell'interno della Discovery il nostro immaginario delle imprese aerospaziali,
l'essenza del rapporto uomo-macchina così come è stato immaginato con gli ambienti sterili e i
rumori sordi del film di Stanley Kubrick. Per questo, non appena osserviamo dei luoghi reali
come i laboratori di scienza e ingegneria aerospaziale della Thales Alenia Space, lo sguardo
compensa la difficoltà nel comprendere il lavoro che si svolge al loro interno tornando con la
memoria ai corridoi e agli schermi elettronici di 2001.
Si prova una forma di smarrimento nell'esplorare quegli ambienti, provocato dall'aspetto dei
macchinari che vengono assemblati al loro interno, dalle superfici e dai materiali che li rivestono,
dai colori di cui non capiamo la ragione. E soprattutto smarrisce osservare gli uomini e le donne
che si muovono attorno ad essi, mentre toccano delicatamente una leva o una giuntura dei vari
monoliti tecnologici, vestiti con camici bianchi come dei medici. Difficile comprendere perché
siano necessari guanti di lattice e una cuffia per capelli mentre si lavora a un macchinario che
appare fatto di solo metallo e fibra di carbonio, arduo intuire che cosa lo renda così delicato da
richiedere simili precauzioni.
HAL 9000 di Stefano D'Amadio nasce proprio da questa unione di pesantezza e fragilità
espressa dal mondo dei laboratori della Thales, dove squadre di ingegneri, fisici e tecnici
specializzati realizzano infrastrutture orbitanti dividendosi tra turbine grandi decine di metri e
micro-serre dove si sperimenta la crescita in orbita di piccoli germogli di piante. La forma degli
oggetti e dei macchinari che popolano i laboratori Thales disorienta, il loro aspetto appare
determinato esclusivamente dalla loro funzione, difficile rinvenire tracce di un'estetica che sia
stata concepita per essere guardata.
Eppure ci sforziamo di provare a comprenderli, per decifrarne lo scopo e l'immagine, per
provare a legarli al progetto scientifico che li ha resi necessari. Le forme circolari di diverse
strutture sono tra le poche immagini che ci danno un senso di compimento e di naturalezza, tra
mappe infinite di circuiti stampati e tubature che si arrampicano su colossi metallici. Come HAL
9000 si presentava all'uomo nella forma di un'iride rossa, così il cerchio torna a suggerire in
questi laboratori un'armonia di forma e idea, una rassicurazione per noi comuni cittadini che la
tecnologia che permetterà di vivere per anni in una navicella spaziale, in viaggio verso i confini
del sistema solare, sia qualcosa che viene progettato per il bene dell'umanità.
Fabio Severo
28
settembre 2012
Stefano D’Amadio – Hal 9000
Dal 28 settembre al 14 ottobre 2012
fotografia
Location
B>GALLERY
Roma, Piazza Di Santa Cecilia, 16, (Roma)
Roma, Piazza Di Santa Cecilia, 16, (Roma)
Vernissage
28 Settembre 2012, ore 19:00
Autore
Curatore