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Stefano Davidson – Sintomi cromatici & non – allusione retrospettiva
Onirico o reale?Colore o “bianco e nero”? Un appassionante viaggio nel mondo dell’artista Stefano Davidson attraverso questa sorta di concentrato retrospettivo, lo spettatore si trova ad affrontare il colore, rigorosamente ad olio, a volte violento, di visi, corpi e cose che, pur rappresentandosi nella loro forma vera ed assolutamente conforme a se stessa, emanano con forza la propria origine, sempre in bilico sul confine tra l’onirico ed il reale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Galleria d'Arte Contemporanea
Associazione d'Arte & Cultura Grafica Campioli
Via Vincenzo Bellini, 46
00015 Monterotondo (RM)
tel: 069064456 - cell: 3498010605 - email: graficacampioli@gmail.com
arista: Stefano Davidson
titolo dell'evento: Sintomi cromatici & non - allusione retrospettiva
Onirico o reale? Colore o “bianco e nero”? Un appassionante viaggio nel mondo
dell'artista Stefano Davidson attraverso questa sorta di concentrato retrospettivo, lo
spettatore si trova ad affrontare il colore, rigorosamente ad olio, a volte violento, di
visi, corpi e cose che, pur rappresentandosi nella loro forma vera ed assolutamente
conforme a se stessa, emanano con forza la propria origine, sempre in bilico sul
confine tra l'onirico ed il reale. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte
cromatiche a dare anima all'opera di Davidson, come spesso invece accade nell'arte
dei suoi colleghi, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che
egli fa anche delle parole d'accompagnamento, nei titoli e negli aforismi a ciascun
opera legati, che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce
indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero appunto,
invece dell'istinto, è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell'iride.
data di inizio: 26 maggio 2012
Data di chiusura 15 Giugno 2012
Orario del vernisage:
Sabato 26 Maggio 2012 dalle 18.00 alle 21.00
Orari di apertura mostra:
dal Martedì al Sabato dalle 15.30 alle 19.30
Biglietto:
Ingresso libero
Catalogo:
Raffaelli Editore di Valter Raffaelli & C. S.a.s.
via Vicolo Gioia 10, 47900 Rimini, RN - ITALIA
Tel: (+39) 0541 21552 . Fax: (+39) 0541 55450
Curatore: Yves Lirriverence
Patrocini:
Comune di Monterotondo
Curatori
Emilio Anselmi Mitia, Yves Lirriverence
Presentazione della Mostra
In questo appassionante viaggio nel mondo dell'artista Stefano Davidson attraverso
questa sorta di concentrato retrospettivo, lo spettatore si trova ad affrontare
il colore, rigorosamente ad olio, a volte violento, di visi, corpi e cose che, pur
rappresentandosi nella loro forma vera ed assolutamente conforme a se stessa,
emanano con forza la propria origine, sempre in bilico sul confine tra l'onirico ed il
reale. Come il Don Chisciotte che invece di andare contro i mulini a vento si ferma
a riflettere, solo, in sella a Ronzinante, in un opera dove manca completamente il
contatto terreno, ma dove il protagonista è avvolto in un cielo di nubi che paiono
essere rappresentazione del suo stesso pensiero. E ancora un altro Don Chisciotte
questa volta a cospetto di un se medesimo, intenti entrambi a scrutare il futuro,
in un improbabile quanto dilacerante aut/aut, sé a sé, il genio e la follia appunto
come recita il titolo dell'opera. E poi sempre “El ingenioso hidalgo” è rappresentato
dapprima di profilo, severo ed austero, quasi impegnato ad essere vera iconografia
di se stesso. Quindi è di nuovo ritratto attraverso un primo piano disarmante, in cui
si legge tutta la necessità di comunicare la propria intima essenza. Attraverso la sua
espressione, al limite della follia, capiamo la difficoltà che prova di rendere a parole il
mare di idee che lo pervadono. Uguale a dire il coraggio della follia, o la ragione delle
idee, per strambe, folli, alogiche possano sembrare.
Lasciato quindi il “Cavaliere dalla Triste Figura” ci si imbatte in quattro ritratti
dalla forza entusiasmante e dai colori intensi. Ciascuno di loro tiene in mano una
carta da gioco, un asso, e ce la mostra tentando di penetrarci il pensiero con
sguardo assolutamente ineludibile. Tra loro una quinta figura che, guardandoci con
espressione tra il folle e il disperato, ci mostra “la matta”, il jolly, urlandoci in faccia
qualcosa. Ma nonostante il suo grido sia muto, ognuno lo percepirà e, sono sicuro, ne
rimarrà scosso.
In un'altra tappa di questo viaggio, incappiamo nell'uso tipico che Davidson fa
del “bianco e nero” e di tutte le sfumature di grigio che lo compongono. In questa
sezione ci troveremo di fronte a una figura che pare appoggiata alla tela e che,
da “dentro” di essa, ci osserva attraverso una sorta di finestra velata, rassegnata
della sua condizione bidimensionale e prigioniera della propria rappresentazione. Un
passo appena più in là e siamo di fronte a un mare quasi nero, sotto un cielo grigio
e, attraverso sbuffi nebbia, individuiamo un vascello navigare all'inseguimento di
un altro. Quest'ultimo però lo intuiamo più che vederlo realmente, rappresentato
com'è in maniera al limite estremo dell'essenzialità. Quello raffigurato su questa tela
è un inseguimento infinito perché, al solito, le due figure sono imprigionate nella
bidimensionalità e nell'immobilità del dipinto, poiché è questa la rappresentazione
che l'artista fa della ricerca dell'Es, un continuo inseguimento di un qualcosa che
proviamo a raggiungere, ma che in fondo resta sempre alla stessa distanza da noi
e dalla nostra capacità oggettiva di capirlo o di carpirlo. Sempre in “bianco e nero”
è la figura immersa in un mare di nebbia: è la “nebbia del pensiero”, quella che
spesso ci impedisce di vedere la realtà delle cose e ci tiene immersi nella nostra
visione soggettiva di ciò che si affronta, quella che non si riesce a dissolvere soltanto
agitando le mani o provando a tentoni ad orientarsi. Tutto questo “bianco e nero”
secondo l'intenzione di Davidson dev'essere però tinto dall'emozione di chi si para
davanti a ciascuna opera, e quest'operazione,
assolutamente istintiva, porterà
l'inconscio di chi osserva a confrontare il proprio intimo con l'Es stesso dell'artista.
In questo viaggio si incontra poi il tema della duplicità dell'interpretazione
rappresentata, a colori, in due opere di sicuro impatto, in cui i protagonisti sono
al cospetto di due tempeste, e sarà compito dello spettatore stabilire se esse
sono passate o, al contrario, stanno per investire la madre con il bimbo in braccio,
rivolta verso un orizzonte ove si scorge una sottile linea di sereno (“la Speranza”),
o
l'uomo seduto sulla panchina, protetto solo da un piccolo ombrello, intento ad
osservare il volo di un aquilone appena intuibile nel suo colore rosso, stagliato contro
il cielo in burrasca (“L'aquilone”).
E poi Penelope, rappresentata sfiancata dall'attesa, appoggiata a un tavolo,
sola. Prospero e Calibano protagonisti de “la Tempesta” di Shakespeare intenti
a mostrarci i loro “mondi” diversi, sono rappresentati in primissimo piano, con
tratti forti e coinvolgenti. Ci sono poi i “nudi”, un accenno alla capacità dell'artista
di rappresentare l'anatomia, soprattutto femminile, con precisione, calore e
raffinatezza, il tutto miscelato con sapienza in un misto di pudore ed erotismo.
E poi ancora: “i bambini” una ciclica, dolcissima e misteriosa poetica che da
sempre caratterizza l'opera di Davidson. Bambini rappresentati quasi sempre di
spalle, o comunque inindividuabili nei lineamenti così da rappresentare l'infanzia
in senso lato, totale, passando dalla tenerezza al mistero di un periodo della vita
così fondamentale, ma spesso troppo lontano da chi ormai è adulto e fatica a ri-
comprenderlo nella sua vera essenza.
In conclusione di questo percorso scopriremo una grande passione dell'artista:
la musica. Essa ci viene illustrata letteralmente attraverso una serie di ritratti di
jazzisti, assolutamente iconografici nella loro raffigurazione, realizzati da Davidson
utilizzando questa volta l'acquerello. In questo caso, il suo uso di questa tecnica
non è tradizionale o accademico, bensì interpretato in una maniera assolutamente
personale e assai poco ortodossa, che priva l'acquerello della delicatezza che
abitualmente lo contraddistingue ma che, nel contempo, lo impregna di forza
rappresentativa.
Concluso questo breve viaggio in questa piccola parte del mondo artistico di Stefano
Davidson mi permetto di proseguire questo testo, ispirandomi anche alle parole che
Giuseppe Fedeli espresse nel suo breve saggio critico sulla mostra Autoanalisi, per
affermare che a mio parere la normalità apparente di questo artista è invece estrema
stravaganza e, quest'ultima, nell'Arte, è intelligenza suprema, superiore,
è “ulteriorità” delle cose, del mondo, è uno sguardo “immemoriale” sui brandelli di
un vissuto che in tutta la sua opera lascia tracce di un deja vù destinato a cementarsi
nel nostro peregrinare nel mondo dell'Arte ancora in cerca della meta, dell'Eden, e ci
regala una ragione che dà spazio all'immaginare, al sognare, al daseyn. Che altro
dire se non che l'arte di Stefano Davidson altro non è che una foresta di simboli e
simbologie di baudelairiana memoria, che echeggia di riminiscenze, di allegorie. Non
ci si illuda allora di camminare in uno spazio familiare, perché ci troviamo nel
cerebrale che sposa l'onirico, dove il razionale strizza l'occhio a deità hillmaniane,
dove l'inconscio è conscio e la nevrosi è dietro l'angolo, dove la follia reclama un suo
statuto, stanca di rimirare il suo sparring partner, quel nomos da cui quella
normalità, della quale personalmente ne ho piene le tasche, che ci trascina nei vortici
limacciosi che sfociano nella palude stagnante dell'omologazione, dell'iper-reale fine
a se stesso, destituito dal senso, della coazione a ruminare bovinamente copioni
spesso astratti ma altrettanto frequentemente senz'anima, freddi, laschi, asettici. La
pittura di Davidson invece, a mio avviso, nella sua normale raffigurazione di corpi e
cose con i tratti di cui questi corpi e cose necessitano per essere realmente se stessi,
rappresenta comunque il mondo del pensiero attraverso il filtro di una combinazione
di scenografia e mistero. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte
cromatiche a dare anima alla sua opera, come spesso invece accade nell'arte dei suoi
colleghi, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che egli fa
anche delle parole d'accompagnamento, nei titoli e negli aforismi a ciascun opera
legati, che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce
indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero appunto,
invece dell'istinto, è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell'iride.
L'opera di Davidson, siffatta di parole e cromie, insegna quindi a partorire un
pensiero pensante, logico, significante e performante. Tutto ciò all'esito di una,
secondo me, spietata quanto redentiva indispensabile, sacramentale autoanalisi e di
una auscultazione del sé dell'Es, del sé dell'altro, e del sé della cosa, quella res che è
provvista comunque e sempre di anima, che vibra, implosa nell'atto incoativo e
tracimante del suo farsi arte, in ombra o in luce, a colori o in bianco e nero,
sensatamente rappresentata o penetrata dal non sense non fa alcuna differenza, e
questa, secondo me, è l'arte di Stefano Davidson. Se però non dovesse bastare
questa miscela di parole e colori, di fonemi e toni di grigio che egli combina con
tanta cura, proviamo allora solo ad osservare attentamente gli sguardi dei soggetti
che di volta in volta ci scrutano dalle sue tele. Attraverso quegli occhi, con un piccolo
sforzo è possibile catapultarsi all'interno dell'anima creante dell'artista, quella che lo
spinge a dipingere, e così a vivere. Da lì dentro con buona probabilità capiremo il
tutto.
Yves Lirriverence
Associazione d'Arte & Cultura Grafica Campioli
Via Vincenzo Bellini, 46
00015 Monterotondo (RM)
tel: 069064456 - cell: 3498010605 - email: graficacampioli@gmail.com
arista: Stefano Davidson
titolo dell'evento: Sintomi cromatici & non - allusione retrospettiva
Onirico o reale? Colore o “bianco e nero”? Un appassionante viaggio nel mondo
dell'artista Stefano Davidson attraverso questa sorta di concentrato retrospettivo, lo
spettatore si trova ad affrontare il colore, rigorosamente ad olio, a volte violento, di
visi, corpi e cose che, pur rappresentandosi nella loro forma vera ed assolutamente
conforme a se stessa, emanano con forza la propria origine, sempre in bilico sul
confine tra l'onirico ed il reale. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte
cromatiche a dare anima all'opera di Davidson, come spesso invece accade nell'arte
dei suoi colleghi, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che
egli fa anche delle parole d'accompagnamento, nei titoli e negli aforismi a ciascun
opera legati, che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce
indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero appunto,
invece dell'istinto, è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell'iride.
data di inizio: 26 maggio 2012
Data di chiusura 15 Giugno 2012
Orario del vernisage:
Sabato 26 Maggio 2012 dalle 18.00 alle 21.00
Orari di apertura mostra:
dal Martedì al Sabato dalle 15.30 alle 19.30
Biglietto:
Ingresso libero
Catalogo:
Raffaelli Editore di Valter Raffaelli & C. S.a.s.
via Vicolo Gioia 10, 47900 Rimini, RN - ITALIA
Tel: (+39) 0541 21552 . Fax: (+39) 0541 55450
Curatore: Yves Lirriverence
Patrocini:
Comune di Monterotondo
Curatori
Emilio Anselmi Mitia, Yves Lirriverence
Presentazione della Mostra
In questo appassionante viaggio nel mondo dell'artista Stefano Davidson attraverso
questa sorta di concentrato retrospettivo, lo spettatore si trova ad affrontare
il colore, rigorosamente ad olio, a volte violento, di visi, corpi e cose che, pur
rappresentandosi nella loro forma vera ed assolutamente conforme a se stessa,
emanano con forza la propria origine, sempre in bilico sul confine tra l'onirico ed il
reale. Come il Don Chisciotte che invece di andare contro i mulini a vento si ferma
a riflettere, solo, in sella a Ronzinante, in un opera dove manca completamente il
contatto terreno, ma dove il protagonista è avvolto in un cielo di nubi che paiono
essere rappresentazione del suo stesso pensiero. E ancora un altro Don Chisciotte
questa volta a cospetto di un se medesimo, intenti entrambi a scrutare il futuro,
in un improbabile quanto dilacerante aut/aut, sé a sé, il genio e la follia appunto
come recita il titolo dell'opera. E poi sempre “El ingenioso hidalgo” è rappresentato
dapprima di profilo, severo ed austero, quasi impegnato ad essere vera iconografia
di se stesso. Quindi è di nuovo ritratto attraverso un primo piano disarmante, in cui
si legge tutta la necessità di comunicare la propria intima essenza. Attraverso la sua
espressione, al limite della follia, capiamo la difficoltà che prova di rendere a parole il
mare di idee che lo pervadono. Uguale a dire il coraggio della follia, o la ragione delle
idee, per strambe, folli, alogiche possano sembrare.
Lasciato quindi il “Cavaliere dalla Triste Figura” ci si imbatte in quattro ritratti
dalla forza entusiasmante e dai colori intensi. Ciascuno di loro tiene in mano una
carta da gioco, un asso, e ce la mostra tentando di penetrarci il pensiero con
sguardo assolutamente ineludibile. Tra loro una quinta figura che, guardandoci con
espressione tra il folle e il disperato, ci mostra “la matta”, il jolly, urlandoci in faccia
qualcosa. Ma nonostante il suo grido sia muto, ognuno lo percepirà e, sono sicuro, ne
rimarrà scosso.
In un'altra tappa di questo viaggio, incappiamo nell'uso tipico che Davidson fa
del “bianco e nero” e di tutte le sfumature di grigio che lo compongono. In questa
sezione ci troveremo di fronte a una figura che pare appoggiata alla tela e che,
da “dentro” di essa, ci osserva attraverso una sorta di finestra velata, rassegnata
della sua condizione bidimensionale e prigioniera della propria rappresentazione. Un
passo appena più in là e siamo di fronte a un mare quasi nero, sotto un cielo grigio
e, attraverso sbuffi nebbia, individuiamo un vascello navigare all'inseguimento di
un altro. Quest'ultimo però lo intuiamo più che vederlo realmente, rappresentato
com'è in maniera al limite estremo dell'essenzialità. Quello raffigurato su questa tela
è un inseguimento infinito perché, al solito, le due figure sono imprigionate nella
bidimensionalità e nell'immobilità del dipinto, poiché è questa la rappresentazione
che l'artista fa della ricerca dell'Es, un continuo inseguimento di un qualcosa che
proviamo a raggiungere, ma che in fondo resta sempre alla stessa distanza da noi
e dalla nostra capacità oggettiva di capirlo o di carpirlo. Sempre in “bianco e nero”
è la figura immersa in un mare di nebbia: è la “nebbia del pensiero”, quella che
spesso ci impedisce di vedere la realtà delle cose e ci tiene immersi nella nostra
visione soggettiva di ciò che si affronta, quella che non si riesce a dissolvere soltanto
agitando le mani o provando a tentoni ad orientarsi. Tutto questo “bianco e nero”
secondo l'intenzione di Davidson dev'essere però tinto dall'emozione di chi si para
davanti a ciascuna opera, e quest'operazione,
assolutamente istintiva, porterà
l'inconscio di chi osserva a confrontare il proprio intimo con l'Es stesso dell'artista.
In questo viaggio si incontra poi il tema della duplicità dell'interpretazione
rappresentata, a colori, in due opere di sicuro impatto, in cui i protagonisti sono
al cospetto di due tempeste, e sarà compito dello spettatore stabilire se esse
sono passate o, al contrario, stanno per investire la madre con il bimbo in braccio,
rivolta verso un orizzonte ove si scorge una sottile linea di sereno (“la Speranza”),
o
l'uomo seduto sulla panchina, protetto solo da un piccolo ombrello, intento ad
osservare il volo di un aquilone appena intuibile nel suo colore rosso, stagliato contro
il cielo in burrasca (“L'aquilone”).
E poi Penelope, rappresentata sfiancata dall'attesa, appoggiata a un tavolo,
sola. Prospero e Calibano protagonisti de “la Tempesta” di Shakespeare intenti
a mostrarci i loro “mondi” diversi, sono rappresentati in primissimo piano, con
tratti forti e coinvolgenti. Ci sono poi i “nudi”, un accenno alla capacità dell'artista
di rappresentare l'anatomia, soprattutto femminile, con precisione, calore e
raffinatezza, il tutto miscelato con sapienza in un misto di pudore ed erotismo.
E poi ancora: “i bambini” una ciclica, dolcissima e misteriosa poetica che da
sempre caratterizza l'opera di Davidson. Bambini rappresentati quasi sempre di
spalle, o comunque inindividuabili nei lineamenti così da rappresentare l'infanzia
in senso lato, totale, passando dalla tenerezza al mistero di un periodo della vita
così fondamentale, ma spesso troppo lontano da chi ormai è adulto e fatica a ri-
comprenderlo nella sua vera essenza.
In conclusione di questo percorso scopriremo una grande passione dell'artista:
la musica. Essa ci viene illustrata letteralmente attraverso una serie di ritratti di
jazzisti, assolutamente iconografici nella loro raffigurazione, realizzati da Davidson
utilizzando questa volta l'acquerello. In questo caso, il suo uso di questa tecnica
non è tradizionale o accademico, bensì interpretato in una maniera assolutamente
personale e assai poco ortodossa, che priva l'acquerello della delicatezza che
abitualmente lo contraddistingue ma che, nel contempo, lo impregna di forza
rappresentativa.
Concluso questo breve viaggio in questa piccola parte del mondo artistico di Stefano
Davidson mi permetto di proseguire questo testo, ispirandomi anche alle parole che
Giuseppe Fedeli espresse nel suo breve saggio critico sulla mostra Autoanalisi, per
affermare che a mio parere la normalità apparente di questo artista è invece estrema
stravaganza e, quest'ultima, nell'Arte, è intelligenza suprema, superiore,
è “ulteriorità” delle cose, del mondo, è uno sguardo “immemoriale” sui brandelli di
un vissuto che in tutta la sua opera lascia tracce di un deja vù destinato a cementarsi
nel nostro peregrinare nel mondo dell'Arte ancora in cerca della meta, dell'Eden, e ci
regala una ragione che dà spazio all'immaginare, al sognare, al daseyn. Che altro
dire se non che l'arte di Stefano Davidson altro non è che una foresta di simboli e
simbologie di baudelairiana memoria, che echeggia di riminiscenze, di allegorie. Non
ci si illuda allora di camminare in uno spazio familiare, perché ci troviamo nel
cerebrale che sposa l'onirico, dove il razionale strizza l'occhio a deità hillmaniane,
dove l'inconscio è conscio e la nevrosi è dietro l'angolo, dove la follia reclama un suo
statuto, stanca di rimirare il suo sparring partner, quel nomos da cui quella
normalità, della quale personalmente ne ho piene le tasche, che ci trascina nei vortici
limacciosi che sfociano nella palude stagnante dell'omologazione, dell'iper-reale fine
a se stesso, destituito dal senso, della coazione a ruminare bovinamente copioni
spesso astratti ma altrettanto frequentemente senz'anima, freddi, laschi, asettici. La
pittura di Davidson invece, a mio avviso, nella sua normale raffigurazione di corpi e
cose con i tratti di cui questi corpi e cose necessitano per essere realmente se stessi,
rappresenta comunque il mondo del pensiero attraverso il filtro di una combinazione
di scenografia e mistero. Non è l'incomprensibilità dell'immagine o delle scelte
cromatiche a dare anima alla sua opera, come spesso invece accade nell'arte dei suoi
colleghi, bensì la personalissima logica che muove il suo pensiero e l'uso che egli fa
anche delle parole d'accompagnamento, nei titoli e negli aforismi a ciascun opera
legati, che porta l'osservatore in un mondo dove la parola è spesso luce
indispensabile ad illuminare il significato dell'immagine e dove il pensiero appunto,
invece dell'istinto, è un colore fondamentale quanto quelli tradizionali dell'iride.
L'opera di Davidson, siffatta di parole e cromie, insegna quindi a partorire un
pensiero pensante, logico, significante e performante. Tutto ciò all'esito di una,
secondo me, spietata quanto redentiva indispensabile, sacramentale autoanalisi e di
una auscultazione del sé dell'Es, del sé dell'altro, e del sé della cosa, quella res che è
provvista comunque e sempre di anima, che vibra, implosa nell'atto incoativo e
tracimante del suo farsi arte, in ombra o in luce, a colori o in bianco e nero,
sensatamente rappresentata o penetrata dal non sense non fa alcuna differenza, e
questa, secondo me, è l'arte di Stefano Davidson. Se però non dovesse bastare
questa miscela di parole e colori, di fonemi e toni di grigio che egli combina con
tanta cura, proviamo allora solo ad osservare attentamente gli sguardi dei soggetti
che di volta in volta ci scrutano dalle sue tele. Attraverso quegli occhi, con un piccolo
sforzo è possibile catapultarsi all'interno dell'anima creante dell'artista, quella che lo
spinge a dipingere, e così a vivere. Da lì dentro con buona probabilità capiremo il
tutto.
Yves Lirriverence
26
maggio 2012
Stefano Davidson – Sintomi cromatici & non – allusione retrospettiva
Dal 26 maggio al 15 giugno 2012
arte contemporanea
Location
GRAFICA CAMPIOLI
Monterotondo, Via Vincenzo Bellini, 46, (Roma)
Monterotondo, Via Vincenzo Bellini, 46, (Roma)
Orario di apertura
dal Martedì al Sabato dalle 15.30 alle 19.30
Vernissage
26 Maggio 2012, ore 18
Autore
Curatore