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The Bright Side of Dreams
Con questa mostra la 11DREAMS Art Gallery, luogo che della capacità e possibilità che in alcuni momenti dobbiamo avere di sognare ha fatto la sua bandiera, compie un anno.
Comunicato stampa
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Già con il Simbolismo, soprattutto di Redon, e prima ancora con il protoromanticismo visionario e manieristicamente dinoccolato di Fuseli, la dimensione del non visibile, che non è solo trascendenza e misticismo, prende forma nell’arte sulla base di una visione romantica, a volte sublime, della natura – anche quella umana – e apre le porte a un’incontro ravvicinato con il mondo onirico. Da allora in poi questo contatto che non sarà più possibile rimuovere, anzi in continuo rafforzamento e divenire, viene dapprima toccato di striscio da alcuni artisti (ad esempio Rousseau il Doganiere), sviluppato da altri (come il solitario Alfred Kubin) e poi, preso a piene mani da De Chirico e Savinio, si consolida, negli anni venti del secolo scorso, con il Manifesto del Surrealismo, stilato da Breton anche sulla base delle teorie freudiane.
Questa mostra ha un tema: il sogno. E ha per titolo The bright side of dreams che riprende quello di un album dei Pink Floyd The dark side of the moon del 1973, tra gli artisti pop, quelli la cui opera evoca maggiormente atmosfere oniriche, muove le leve dei nostri impalpabili e agrodolci desideri e dei nostri sogni. L’opera d’arte è il lato luminoso del sogno, nel senso che è un sogno che si può vedere con la luce, con gli occhi aperti; il lato diurno, quindi. Sogni tangibili che oltre a essere immaginati ex novo possono essere ispirati dagli altri, solitamente notturni, intangibili, a volte assai persistenti, altre, di per sé labili e immediatamente effimeri, diventano irraggiungibili fino a sparire del tutto dalla nostra memoria nel giro di poco tempo.
Con questa mostra la 11DREAMS Art Gallery, luogo che della capacità e possibilità che in alcuni momenti dobbiamo avere di sognare ha fatto la sua bandiera, compie un anno. Non c’era miglior modo di festeggiare questo primo anniversario che ospitare nove artisti che amano sognare e il loro mondo fantastico in una sede che dei sogni ha nome e natura.
Sono costruzioni compatte e simmetriche quelle dei dipinti di Alberto Andreis, regolate da un progetto e da una geometria rigorosamente calcolati per poter stare in piedi senza problemi. Ma invece, pur essendo fatte di mattoni, malta e cemento, ruotano prive di peso come satelliti nel vuoto o stazioni spaziali orbitanti. I colori di queste architetture che a causa di qualche misteriosa forza si sono staccate dal resto, che si suppone sia rimasto ancorato a terra, sono tutti nelle tonalità dei bruni, dei grigi e delle ocre (colori piuttosto velati nelle campiture esterne delle strutture, come se la rotazione continua avesse asportato una parte del colore originario). C’è, in questi dipinti, una persistente sensazione di vertigine, e per associazione viene in mente il cinema di Hitchcock che con la pittura, specialmente surrealista, ha un particolare feeling. Ad esempio La donna che visse due volte, e non soltanto per il disagio di Scottie (soffre, appunto, di vertigini) ma anche per l’atmosfera carica di prospettive e situazioni ambigue che pervadono il film. L’impianto neoclassico del disegno a carboncino si arricchisce di una patina di bruma che si posa sulle architetture rendendole, anche in presenza di questo plumbeo gigantismo, leggere architetture dell’intimità, come una piranesiana gabbia toracica che nel suo lento movimento respira un pensiero metafisico dopo l’altro.
In una delle due fotografie che Marco Battini presenta, che hanno per soggetto la città di Amsterdam, lo skyline della capitale olandese è segnato con decisi tratti bianchi sui muri grigio di Payne, come fossili di facciate incise sull’ardesia. Sopra e alle spalle di questo armonico saliscendi di tetti c’e la natura, spettacolare sempre, anche quando, nel suo quotidiano manifestarsi, è circoscritta in uno spazio ridotto. Il cielo, nella parte bassa, è un’affollata carambola di striature cromatiche in continuo movimento e in ogni direzione – come girini nell’acqua di uno stagno scomposto dal vento – in una gamma di colori che va dal ranciato al blu scuro, da fine del giorno nel baluginio di certe ambientazioni del cinema burtoniano. C’è in Battini una naturale predisposizione all’eleganza formale e una precisa distribuzione delle zone cromatiche, perfettamente dosate, mai eccessive. Un’altra visione, in una piccola parte di Amsterdam, ci mostra, in un’atmosfera surreale, alcune papere filosofiche che potrebbero benissimo prendere il posto delle statue del mito di De Chirico e delle diafane donne negli echi lunari di Delvaux. Sul pontile metafisico le papere s’interrogano, immerse in un forte contrasto tra luci e ombre, sui grandi misteri della vita: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?
Antonio Caramia erige isole che diventano luoghi dell’idillio, del mistero, del notturno fantastico e delle diurne apparizioni, dove tutto può accadere in un “sovrumano silenzio”: dalle cose più normali e che fanno parte del vissuto quotidiano alle più grandi scoperte che, senza rumore e senza colpo ferire, sono in grado di cambiare la storia dell’uomo. E’ un’isola sospesa quella del dipinto Farò del cielo il posto più bello del mare; una gemma di rocce e dirupi annodati come ricercati drappeggi, caverne nell’ombra e increspature a vite che ne fanno leonardesca elica di pietra adatta e pronta per il volo. Qua e là, fra le rocce, facce di bianche case incastonate. E’ una cascata di bruni punteggiati di giallo, con riflessi violacei e con differenze luministiche che accentuano il rilievo plastico, questo tronco di cono rovesciato che si restringe verso un cerchio frastagliato e con la punta che manca guarda il mare. La base tocca il cielo, è sotto il sole, è piena di verdi foglie e muri abbaglianti, di scale e scalette, archi e passaggi, scivoli e torri; di vie, di fiori, d’erba. Il caldo è quello giusto e non fa mai troppo freddo. Ovunque ci si volti, dalle finestre lo sguardo si ferma sempre sulle onde del mare. E’ l’isola aerea e felice nella quale si arriva volando, si abita volentieri, dalla quale non si va via perché lì la vita è sogno.
Nell’opera di Dolimery tutto è molto pacato e la dolcezza e la grazia non vengono mai a mancare. Gli elementi che compongono questa pittura dalla raffinata morbidezza sono vari: strumenti musicali, manichini d’artista a volte in groppa a fantasiosi animali, corpi celesti, colonne e vestigia classiche, fiori, cartigli, pergamene, maschere. La luna è quasi sempre presente, raramente è piena, spesso è un pallido spicchio accuratamente disegnato, perno indispensabile alla composizione, femminile movenza e preziosa dispensatrice dei suggestivi equilibri del quadro; dondolo e culla di sogni e concetti color di pastello. In certi dipinti si ha la piacevole sensazione che, sotto lo sguardo attento, pazientissimo e comprensivo di una luna poeticamente antropomorfa, l’artista abbia ricostruito l’insieme attraverso la visione onirica, per frammenti rielaborati dalla memoria, di sue opere passate.
Il sogno di Dolimery è sempre mediato e custodito dalla favola, oppure dai bellissimi occhi verdi di un gatto; ed è svolto totalmente al femminile con sovrapposizioni di figure e cose e delicate trasparenze. Quella da lei usata è una cromia assai varia – ma che sta tutta nell’ambito dei toni lievi, a volte sussurrati – che richiama alla mente il surrealismo lineare e stereoscopico di Picabia e il realismo magico di Severini degli anni venti.
Moda e mito: l’horror vacui, che qui ha il sapore delle Camere delle meraviglie rinascimentali, diventa compagnia necessaria e rafforza il concetto di giovinezza come accumulo di esperienze multiformi nelle opere di Himitsuhana. Ricami, monili, tatuaggi sulla pelle, esuberanza di pizzi, velluti e damaschi; serici capelli che cambiano colore e forma al mutare della direzione del vento fanno parte dell’alfabeto delle sue fotografie. Gli abiti sontuosi, come le pezze di stoffe pregiate srotolate, incorniciano corpi di giovani donne che vivono come fate riflesse da un sole pallido in una luce di borotalco, avvolgente e diffusa, di conturbante delicatezza. In Himitsuhana non c’è violenza, neanche nelle fotografie dove il dramma sembra farsi evidente; la palese crudeltà va vista più che altro come un gioco adolescenziale. C’è un senso di placido abbandono e una ricerca di armonia nelle sequenze di luci tonali in divenire che cingono e rassettano tutto ciò che popola questi luoghi di fiaba. Sono immagini femminili nelle cui acconciature e nei costumi ricercati la storia è senza tempo perché epoche diverse coabitano indisturbate; la cronologia, ripiegata come un origami, si sovrappone e viene continuamente rimescolata per suscitare in noi quella sensazione di straniamento e di perdita dell’ordine del tempo in un rallentato e sensuale oblio.
Vito Lolli, nella sua pittura, rivolge le maggiori attenzioni alla trascendenza e al misticismo con una tavolozza molto chiara e luminosa. Il bambino seduto su una gigantesca piuma bianca, nel quadro Gioco Divino, osserva due dadi che fluttuano nell’aria, uno bianco e uno nero; tre è il numero che dà un dado e tre anche l’altro. Un angolo della piuma su cui si trova il bambino poggia sopra un luminoso vortice che allargandosi si sbriciola in grumi opalini e materia gassosa, mentre da dietro le sue spalle si diparte una scia luminosissima che termina in un giallo nucleo di cometa. L’insieme esclude qualsiasi forma d’ombra, tutto è impostato su tonalità molto alte, solo l’angolo in basso a sinistra si differenzia nettamente da tutto il resto che possiede un’aura di divinità. Da quest’angolo, di colore viola scuro, emerge un caotico accatastamento di forme taglienti e acuminate. Nel dipinto La condizione umana due universi stellati, che si trovano al di là di due oblò, si fronteggiano separati da uno spazio intermedio illuminato e attraversato da una fune che continua nel buio degli oblò. Sopra questa fune danzano con molta sicurezza e grazia un uomo e una donna nudi. E’ la danza della vita che, da Adamo ed Eva in poi, si ripete nel miracolo di questo precario equilibrio, come un gioco acrobatico sul filo della storia e nell’immensità dell’universo.
La meditativa lentezza della tartaruga ci permette la lettura accurata degli elementi che compongono una delle opere di Riccardo Scavo prima che questo flemmatico gigante passi da un lato all’altro del dipinto e quindi scompaia rifugiandosi dietro la tela, in un’altra dimensione nelle pieghe del tempo; di contro l’idea del quadro ha certamente avuto spunto nella sintetica e fulminea velocità di un abbagliante sogno ispiratore. Ossimoro visivo e stravolgimento delle proporzioni. La tartaruga è uno dei simboli di Ermes ed è sulla sua lentezza che fa leva il paradosso di Achille. Nel dipinto di Scavo cetacei in miniatura girano come remore accanto alla colossale testuggine, questa porta sul carapace il peso di un paese arroccato e abitato che, visto attraverso la mitologia cinese, assurge a simbolo del mondo intero. Nel sogno, come nella pittura, tutto è fattibile, l’artista è un mago e coi colori può dare vita ai sogni, svilupparli, cambiarli, stravolgerli. L’impianto compositivo di questa pittura che in altre tele può apparire pre-umana è calcolato e millimetrico, fatto di teorie d’insetti e di cerchi magici blu, con quella misura armonica delle cose, archetipica come un policromo Mandala. Tutto è perfettamente naturale, senza forzature, anche il tempo che dalle tele viene trattenuto nell’atto del fare pittura ha l’ondulazione ciclica di ere geologiche.
Galleggiando e avanzando lentamente nel mare piatto e tranquillo un’Isola – così Gaspare Sicula chiama le barche coperte dalla loro vela e con l’albero che la teneva di nuovo vivo e frondoso – traina, posta su una zattera, la Vittoria di Samotracia verso una meta incognita, forse, addirittura, senza alcun luogo da raggiungere, il viaggio per il viaggio, in un giro continuo e ininterrotto intorno al mondo solamente per il gusto di viaggiare pur non avendo uno scopo per farlo. Ma, in questo permanente tragitto senza meta, la Nike, che legata all’isola la segue, non è quella vera che si trova al Louvre ma una statua realizzata dalle maestranze di Cinecittà per un immaginario film: La Vittoria di Fellini. Il cinema costruisce sogni che stanno a metà strada tra il sogno vero e la pittura; come quest’ultima l’immagine filmica necessita di luce ma ha anche bisogno della magia del buio per essere vista. Nell’altro dipinto c’è Dracula che bacia Mina. Lei, in uno stato di dormiveglia è – nel desiderio – rapita dal Conte che la tiene stretta con una mano e con l’altra chiama a raccolta, aprendo il suo mantello, tutte le voci del buio; la luce della sera disegna l’alta finestra ogivale del castello e i contorni di alcune brocchiglie mentre, dalla mano sinistra di Dracula, si sprigionano, e innalzandosi si disperdono, vapori rossi contornati di giallo.
Il colore guizza, si attorce e danza nei plexiglass di Lorenzo Villa e dopo aver circumnavigato tutte le possibilità di incontro e di scontro o di audace dialogo col supporto plastico si autorimescola come un frullato di tracce, segni, incisioni e gocciolature, dinamiche pennellate, larghe stesure; quindi si acquieta in una tempra lucida e stabile dell’immagine come se questa fosse scalfita su lastre di ghiaccio millenario. E’ un’era glaciale del segno che ci viene restituita da un sogno lontanissimo eppur presente, ancor più vivace giacché a rimescolare questo maremoto di pennellate partecipano, dentro l’opera già realizzata, mani di ardimentosi e creativi fanciulli. Se si escludono alcune mirate accensioni rosse, riservate dall’artista a ciò che vuole mettere più in evidenza, e qualche tocco di giallo ocra, è un luogo monocromo che va dal bianco al nero passando per un’infinita gamma di grigi intermedi, come il vago ricordo di certi sogni, questa pittura popolata di farfalle, cuccioli di cane che corrono e cani grandi quanto piazze (che appaiono come per incanto se si osservano da un punto di vista rialzato), giullari e acrobati graffiti, frasi assolute alle quali la giovane età (ma non solo) ha sempre affidato la speranza di cambiare il mondo: I have a dream, No war, Ti amo, Stop.
11DREAMS
Questa mostra ha un tema: il sogno. E ha per titolo The bright side of dreams che riprende quello di un album dei Pink Floyd The dark side of the moon del 1973, tra gli artisti pop, quelli la cui opera evoca maggiormente atmosfere oniriche, muove le leve dei nostri impalpabili e agrodolci desideri e dei nostri sogni. L’opera d’arte è il lato luminoso del sogno, nel senso che è un sogno che si può vedere con la luce, con gli occhi aperti; il lato diurno, quindi. Sogni tangibili che oltre a essere immaginati ex novo possono essere ispirati dagli altri, solitamente notturni, intangibili, a volte assai persistenti, altre, di per sé labili e immediatamente effimeri, diventano irraggiungibili fino a sparire del tutto dalla nostra memoria nel giro di poco tempo.
Con questa mostra la 11DREAMS Art Gallery, luogo che della capacità e possibilità che in alcuni momenti dobbiamo avere di sognare ha fatto la sua bandiera, compie un anno. Non c’era miglior modo di festeggiare questo primo anniversario che ospitare nove artisti che amano sognare e il loro mondo fantastico in una sede che dei sogni ha nome e natura.
Sono costruzioni compatte e simmetriche quelle dei dipinti di Alberto Andreis, regolate da un progetto e da una geometria rigorosamente calcolati per poter stare in piedi senza problemi. Ma invece, pur essendo fatte di mattoni, malta e cemento, ruotano prive di peso come satelliti nel vuoto o stazioni spaziali orbitanti. I colori di queste architetture che a causa di qualche misteriosa forza si sono staccate dal resto, che si suppone sia rimasto ancorato a terra, sono tutti nelle tonalità dei bruni, dei grigi e delle ocre (colori piuttosto velati nelle campiture esterne delle strutture, come se la rotazione continua avesse asportato una parte del colore originario). C’è, in questi dipinti, una persistente sensazione di vertigine, e per associazione viene in mente il cinema di Hitchcock che con la pittura, specialmente surrealista, ha un particolare feeling. Ad esempio La donna che visse due volte, e non soltanto per il disagio di Scottie (soffre, appunto, di vertigini) ma anche per l’atmosfera carica di prospettive e situazioni ambigue che pervadono il film. L’impianto neoclassico del disegno a carboncino si arricchisce di una patina di bruma che si posa sulle architetture rendendole, anche in presenza di questo plumbeo gigantismo, leggere architetture dell’intimità, come una piranesiana gabbia toracica che nel suo lento movimento respira un pensiero metafisico dopo l’altro.
In una delle due fotografie che Marco Battini presenta, che hanno per soggetto la città di Amsterdam, lo skyline della capitale olandese è segnato con decisi tratti bianchi sui muri grigio di Payne, come fossili di facciate incise sull’ardesia. Sopra e alle spalle di questo armonico saliscendi di tetti c’e la natura, spettacolare sempre, anche quando, nel suo quotidiano manifestarsi, è circoscritta in uno spazio ridotto. Il cielo, nella parte bassa, è un’affollata carambola di striature cromatiche in continuo movimento e in ogni direzione – come girini nell’acqua di uno stagno scomposto dal vento – in una gamma di colori che va dal ranciato al blu scuro, da fine del giorno nel baluginio di certe ambientazioni del cinema burtoniano. C’è in Battini una naturale predisposizione all’eleganza formale e una precisa distribuzione delle zone cromatiche, perfettamente dosate, mai eccessive. Un’altra visione, in una piccola parte di Amsterdam, ci mostra, in un’atmosfera surreale, alcune papere filosofiche che potrebbero benissimo prendere il posto delle statue del mito di De Chirico e delle diafane donne negli echi lunari di Delvaux. Sul pontile metafisico le papere s’interrogano, immerse in un forte contrasto tra luci e ombre, sui grandi misteri della vita: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?
Antonio Caramia erige isole che diventano luoghi dell’idillio, del mistero, del notturno fantastico e delle diurne apparizioni, dove tutto può accadere in un “sovrumano silenzio”: dalle cose più normali e che fanno parte del vissuto quotidiano alle più grandi scoperte che, senza rumore e senza colpo ferire, sono in grado di cambiare la storia dell’uomo. E’ un’isola sospesa quella del dipinto Farò del cielo il posto più bello del mare; una gemma di rocce e dirupi annodati come ricercati drappeggi, caverne nell’ombra e increspature a vite che ne fanno leonardesca elica di pietra adatta e pronta per il volo. Qua e là, fra le rocce, facce di bianche case incastonate. E’ una cascata di bruni punteggiati di giallo, con riflessi violacei e con differenze luministiche che accentuano il rilievo plastico, questo tronco di cono rovesciato che si restringe verso un cerchio frastagliato e con la punta che manca guarda il mare. La base tocca il cielo, è sotto il sole, è piena di verdi foglie e muri abbaglianti, di scale e scalette, archi e passaggi, scivoli e torri; di vie, di fiori, d’erba. Il caldo è quello giusto e non fa mai troppo freddo. Ovunque ci si volti, dalle finestre lo sguardo si ferma sempre sulle onde del mare. E’ l’isola aerea e felice nella quale si arriva volando, si abita volentieri, dalla quale non si va via perché lì la vita è sogno.
Nell’opera di Dolimery tutto è molto pacato e la dolcezza e la grazia non vengono mai a mancare. Gli elementi che compongono questa pittura dalla raffinata morbidezza sono vari: strumenti musicali, manichini d’artista a volte in groppa a fantasiosi animali, corpi celesti, colonne e vestigia classiche, fiori, cartigli, pergamene, maschere. La luna è quasi sempre presente, raramente è piena, spesso è un pallido spicchio accuratamente disegnato, perno indispensabile alla composizione, femminile movenza e preziosa dispensatrice dei suggestivi equilibri del quadro; dondolo e culla di sogni e concetti color di pastello. In certi dipinti si ha la piacevole sensazione che, sotto lo sguardo attento, pazientissimo e comprensivo di una luna poeticamente antropomorfa, l’artista abbia ricostruito l’insieme attraverso la visione onirica, per frammenti rielaborati dalla memoria, di sue opere passate.
Il sogno di Dolimery è sempre mediato e custodito dalla favola, oppure dai bellissimi occhi verdi di un gatto; ed è svolto totalmente al femminile con sovrapposizioni di figure e cose e delicate trasparenze. Quella da lei usata è una cromia assai varia – ma che sta tutta nell’ambito dei toni lievi, a volte sussurrati – che richiama alla mente il surrealismo lineare e stereoscopico di Picabia e il realismo magico di Severini degli anni venti.
Moda e mito: l’horror vacui, che qui ha il sapore delle Camere delle meraviglie rinascimentali, diventa compagnia necessaria e rafforza il concetto di giovinezza come accumulo di esperienze multiformi nelle opere di Himitsuhana. Ricami, monili, tatuaggi sulla pelle, esuberanza di pizzi, velluti e damaschi; serici capelli che cambiano colore e forma al mutare della direzione del vento fanno parte dell’alfabeto delle sue fotografie. Gli abiti sontuosi, come le pezze di stoffe pregiate srotolate, incorniciano corpi di giovani donne che vivono come fate riflesse da un sole pallido in una luce di borotalco, avvolgente e diffusa, di conturbante delicatezza. In Himitsuhana non c’è violenza, neanche nelle fotografie dove il dramma sembra farsi evidente; la palese crudeltà va vista più che altro come un gioco adolescenziale. C’è un senso di placido abbandono e una ricerca di armonia nelle sequenze di luci tonali in divenire che cingono e rassettano tutto ciò che popola questi luoghi di fiaba. Sono immagini femminili nelle cui acconciature e nei costumi ricercati la storia è senza tempo perché epoche diverse coabitano indisturbate; la cronologia, ripiegata come un origami, si sovrappone e viene continuamente rimescolata per suscitare in noi quella sensazione di straniamento e di perdita dell’ordine del tempo in un rallentato e sensuale oblio.
Vito Lolli, nella sua pittura, rivolge le maggiori attenzioni alla trascendenza e al misticismo con una tavolozza molto chiara e luminosa. Il bambino seduto su una gigantesca piuma bianca, nel quadro Gioco Divino, osserva due dadi che fluttuano nell’aria, uno bianco e uno nero; tre è il numero che dà un dado e tre anche l’altro. Un angolo della piuma su cui si trova il bambino poggia sopra un luminoso vortice che allargandosi si sbriciola in grumi opalini e materia gassosa, mentre da dietro le sue spalle si diparte una scia luminosissima che termina in un giallo nucleo di cometa. L’insieme esclude qualsiasi forma d’ombra, tutto è impostato su tonalità molto alte, solo l’angolo in basso a sinistra si differenzia nettamente da tutto il resto che possiede un’aura di divinità. Da quest’angolo, di colore viola scuro, emerge un caotico accatastamento di forme taglienti e acuminate. Nel dipinto La condizione umana due universi stellati, che si trovano al di là di due oblò, si fronteggiano separati da uno spazio intermedio illuminato e attraversato da una fune che continua nel buio degli oblò. Sopra questa fune danzano con molta sicurezza e grazia un uomo e una donna nudi. E’ la danza della vita che, da Adamo ed Eva in poi, si ripete nel miracolo di questo precario equilibrio, come un gioco acrobatico sul filo della storia e nell’immensità dell’universo.
La meditativa lentezza della tartaruga ci permette la lettura accurata degli elementi che compongono una delle opere di Riccardo Scavo prima che questo flemmatico gigante passi da un lato all’altro del dipinto e quindi scompaia rifugiandosi dietro la tela, in un’altra dimensione nelle pieghe del tempo; di contro l’idea del quadro ha certamente avuto spunto nella sintetica e fulminea velocità di un abbagliante sogno ispiratore. Ossimoro visivo e stravolgimento delle proporzioni. La tartaruga è uno dei simboli di Ermes ed è sulla sua lentezza che fa leva il paradosso di Achille. Nel dipinto di Scavo cetacei in miniatura girano come remore accanto alla colossale testuggine, questa porta sul carapace il peso di un paese arroccato e abitato che, visto attraverso la mitologia cinese, assurge a simbolo del mondo intero. Nel sogno, come nella pittura, tutto è fattibile, l’artista è un mago e coi colori può dare vita ai sogni, svilupparli, cambiarli, stravolgerli. L’impianto compositivo di questa pittura che in altre tele può apparire pre-umana è calcolato e millimetrico, fatto di teorie d’insetti e di cerchi magici blu, con quella misura armonica delle cose, archetipica come un policromo Mandala. Tutto è perfettamente naturale, senza forzature, anche il tempo che dalle tele viene trattenuto nell’atto del fare pittura ha l’ondulazione ciclica di ere geologiche.
Galleggiando e avanzando lentamente nel mare piatto e tranquillo un’Isola – così Gaspare Sicula chiama le barche coperte dalla loro vela e con l’albero che la teneva di nuovo vivo e frondoso – traina, posta su una zattera, la Vittoria di Samotracia verso una meta incognita, forse, addirittura, senza alcun luogo da raggiungere, il viaggio per il viaggio, in un giro continuo e ininterrotto intorno al mondo solamente per il gusto di viaggiare pur non avendo uno scopo per farlo. Ma, in questo permanente tragitto senza meta, la Nike, che legata all’isola la segue, non è quella vera che si trova al Louvre ma una statua realizzata dalle maestranze di Cinecittà per un immaginario film: La Vittoria di Fellini. Il cinema costruisce sogni che stanno a metà strada tra il sogno vero e la pittura; come quest’ultima l’immagine filmica necessita di luce ma ha anche bisogno della magia del buio per essere vista. Nell’altro dipinto c’è Dracula che bacia Mina. Lei, in uno stato di dormiveglia è – nel desiderio – rapita dal Conte che la tiene stretta con una mano e con l’altra chiama a raccolta, aprendo il suo mantello, tutte le voci del buio; la luce della sera disegna l’alta finestra ogivale del castello e i contorni di alcune brocchiglie mentre, dalla mano sinistra di Dracula, si sprigionano, e innalzandosi si disperdono, vapori rossi contornati di giallo.
Il colore guizza, si attorce e danza nei plexiglass di Lorenzo Villa e dopo aver circumnavigato tutte le possibilità di incontro e di scontro o di audace dialogo col supporto plastico si autorimescola come un frullato di tracce, segni, incisioni e gocciolature, dinamiche pennellate, larghe stesure; quindi si acquieta in una tempra lucida e stabile dell’immagine come se questa fosse scalfita su lastre di ghiaccio millenario. E’ un’era glaciale del segno che ci viene restituita da un sogno lontanissimo eppur presente, ancor più vivace giacché a rimescolare questo maremoto di pennellate partecipano, dentro l’opera già realizzata, mani di ardimentosi e creativi fanciulli. Se si escludono alcune mirate accensioni rosse, riservate dall’artista a ciò che vuole mettere più in evidenza, e qualche tocco di giallo ocra, è un luogo monocromo che va dal bianco al nero passando per un’infinita gamma di grigi intermedi, come il vago ricordo di certi sogni, questa pittura popolata di farfalle, cuccioli di cane che corrono e cani grandi quanto piazze (che appaiono come per incanto se si osservano da un punto di vista rialzato), giullari e acrobati graffiti, frasi assolute alle quali la giovane età (ma non solo) ha sempre affidato la speranza di cambiare il mondo: I have a dream, No war, Ti amo, Stop.
11DREAMS
20
novembre 2011
The Bright Side of Dreams
Dal 20 novembre al 09 dicembre 2011
arte contemporanea
Location
11DREAMS ART GALLERY
Tortona, Via Rinarolo, 11/c, (Alessandria)
Tortona, Via Rinarolo, 11/c, (Alessandria)
Orario di apertura
da martedì a venerdì ore 16-19.30
sabato ore 10-12.30 e 16-19.30
domenica e festivi ore 16-19.30
Vernissage
20 Novembre 2011, ore 17.30
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