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The World Is Y-Ours
The World Is Y-OURS è il titolo della collettiva a cura di Mara De Falco che conclude il ciclo estivo outside dagli spazi di piazza Trieste e Trento 48.
C.A.P.80073 si avvale della collaborazione di Mara De Falco, Stefania Russo, Irene Tedesco.
Comunicato stampa
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The World Is Y-OURS
di Mara De Falco
“Quand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d’un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato alla realtà e oggi nasco per la prima volta”. Sono le parole che Hermann Hesse fa pronunciare a Siddharta, quando quest’ultimo, insoddisfatto d’un sapere teorico decide d’immergersi corpo e anima nella vita, alla ricerca di possibili verità. Folgorazione che ha il sapore d’un’iniziazione, innocente come quella d’un bambino che stupito scopre l’universo cominciando a decifrarne l’alfabeto col quale esso si esprime, dialoga, si palesa.
Con il medesimo spirito pionieristico di quell’antico Suchende -colui che cerca-, Kristine Alksne, Enzo Calibè e Yoko Miura si aggirano tra i significanti del mondo, ne prelevano alcuni e su di essi innestano ulteriori segni tramite l’elaborazione artistica. Produttori d’una semiotica che racconta di come la mano dell’uomo interviene, modificandolo, sul tessuto naturale. Ciascuno con un’impronta unica poiché filtrata da un personalissimo, intimo approccio ad esso che tuttavia trova il suo trait d’union nella pacatezza del ritmo poietico. A partire dalle scelte tecniche e compositive, tutte legate ad una fabbrilità che implica un rapporto plurisensoriale oltre che concettuale con l’opera. Collage, scultura e disegno sono i linguaggi che traducono in immagini universalmente comprensibili l’incontro tra gli artisti e la realtà, i campi in cui si concretizzano pensieri, sensazioni, esperienze.
The World Is Y-OURS racchiude già nel titolo l’idea del potenziamento semantico ottenibile attraverso una particolare disposizione grafica. E dimostra di per sé l’importanza del segno come veicolo di particolari significati. ‘Il mondo è tuo, vostro ma anche nostro, vale a dire di tutti’ suggerisce quello y-ours linguisticamente inesistente ma legittimato dalla funzionalità al discorso che la mostra intende imbastire. Una riflessione sull’ipotizzabile armonizzazione tra artificialità e naturalità. Come osserva Gillo Dorfles nell’introduzione al suo saggio Artificio e Natura: “siamo, dunque, oggi, in un periodo di antinaturalità […] dipenderà dal nostro saper riconvertire in natura questi elementi artificiosi se ci sarà concesso di sopravvivere in un mondo che non sia del tutto disumanizzato”. Osservazione nata sullo scadere degli anni sessanta, in un momento storico sufficientemente maturo per tirare le somme d’un cambiamento epocale, quello del prepotente ingresso della tecnologia nella dimensione creativa. Da allora gli schemi progettuali, le produzioni seriali, i beni di consumo hanno acquisito dignità artistica soppiantando l’unicuum dell’opera in favore della sua riproducibilità, l’individualità dell’artista in favore della depersonalizzazione prodotta dalla macchina. L’oggetto d’arte ha assunto caratteristiche equiparabili a quelle dell’oggetto industriale.
Una constatazione che a distanza di decenni si riconferma attuale poiché dalla meccanizzazione, ancora umanamente gestibile, si è giunti alla digitalizzazione smisurata e fuori controllo. Il rischio, neppure troppo celato, insito in questa perdita di aderenza alla realtà sta nel prescindere dalla tutela di ciò che concretamente e autenticamente ci circonda, poiché l’esistenza è proiettata in una dimensione virtuale e fittizia, tanto più allettante quanto più rispondente alle nostre esigenze. Sintomatico è il progressivo disfacimento del pianeta di cui sono non indizi, ma prove schiaccianti, i palpabili scompensi dell’ecosistema. Prendere coscienza dell’illimitato potenziale proprio di questo processo di artificializzazione non significa negarne retrivamente i benèfici risvolti. Vuol dire, al contrario, adoperarne gli strumenti per migliorare la qualità della vita non soltanto nell’immediato ma in un’ottica illuminata e lungimirante.
Quale può essere dunque il contributo degli artisti allo sviluppo di tale consapevolizzazione? Di certo la sollecitazione dell’individuo ad una positiva attitudine culturale e non meramente fisica verso l’ambiente. Un apporto che travalica i limiti dello spazio espositivo e diviene paradigma dell’esigenza di ritrovare un sinergico godimento corporeo e mentale nel confronto con la natura. Quest’ultima è protagonista indiscussa del patchwork che anima le pareti della galleria.
Uno spirito ramingo e vagabondo afferra per mano lo spettatore e lo guida in un percorso di suggestioni a metà strada tra est e ovest, tra nord e sud. In un solo istante e senza muovere un passo si diventa protagonisti d’un viaggio simultaneo e multidirezionale. Così lo sguardo nordico della lettone Kristine Alksne (Riga, 1980) si scioglie al sole del mediterraneo tra golfi e isole, immortalati in piccoli scatti. Da essi i lembi di terra vengono ritagliati e trasposti su supporti d’identiche dimensioni, a formare dei dittici. Semplice operazione di svuotamento e di riempimento che dimostra come lo slittamento d’un segno sia capace di modificare radicalmente la percezione d’un luogo. Lo stesso avviene quando minimi interventi gestuali - come suddividere in due porzioni le immagini d’una veduta aerea, d’un marciapiedi, d’una distesa di ghiaccio per distanziarle facendo emergere una scia di bianco – vanno a comporre un nuovo paesaggio fluviale. Mentre una zoomata su ridottissimi accumuli sulfurei svela finezze cromatiche e formali solitamente impercettibili ad un’osservazione distratta. Una ricerca che sottolinea il metamorfico divenire della natura, innato o provocato dall’azione antropica. Di trasformazioni parla anche la serie Interrelations del partenopeo Enzo Calibè (San Giorgio a Cremano, 1980). Un’installazione ambientale di dodici piccolissimi disegni disposti disordinatamente a parete ma messi in relazione da un’intricata rete di segmenti. Attraverso l’utilizzo dell’esile tratto della penna grafica l’artista sviluppa un codice calligrafico di minute geometrie. Punti e linee, variamente composti, s’inerpicano, si rincorrono fino ad assumere sembianze organiche. Un’osmotica conciliazione tra elementi opposti - artificiali e naturali – possibile nel territorio prodigioso della creazione artistica, auspicabile, tuttavia, in quello reale, affinché l’irresponsabilità umana non sia causa di catastrofiche conseguenze di dimensioni planetarie. Un afflato zen che emana anche dagli iperrealistici pesci della giapponese Yoko Miura (Tokyo, 1975). Plasmate col das, queste sculture incredibilmente verosimili sono eseguite avvalendosi dell’antichissimo metodo d’osservazione dal vero. La corsa contro il tempo, contro l’inarrestabile decomposizione dei singolari modelli ittici rende ancora più straordinaria la perizia tecnica dell’artista nipponica, la cui aderenza al dato reale rivela un’emotività partecipativa alla dimensione naturale di esplicita matrice orientale. Colpiti da fasci luminosi i pesci si animano e restituiscono sul muro un’ombra sinuosa, l’ideogramma da cui la forma plastica si origina, proiezione grafica del guizzo vitale racchiuso in ogni essere vivente. Esortazione ad una pacifica coesistenza tra gl’inquilini di questo brulicante condominio chiamato MONDO.
di Mara De Falco
“Quand’uno legge uno scritto di cui vuol conoscere il senso, non ne disprezza i segni e le lettere, né li chiama illusione, accidente e corteccia senza valore, bensì li decifra, li studia e li ama, lettera per lettera. Io invece, io che volevo leggere il libro del mondo e il libro del mio proprio Io, ho disprezzato i segni e le lettere, a favore d’un significato congetturato in precedenza, ho chiamato illusione il mondo delle apparenze, ho chiamato il mio occhio e la mia lingua fenomeni accidentali e senza valore. No, tutto questo è finito, ora son desto, mi sono risvegliato alla realtà e oggi nasco per la prima volta”. Sono le parole che Hermann Hesse fa pronunciare a Siddharta, quando quest’ultimo, insoddisfatto d’un sapere teorico decide d’immergersi corpo e anima nella vita, alla ricerca di possibili verità. Folgorazione che ha il sapore d’un’iniziazione, innocente come quella d’un bambino che stupito scopre l’universo cominciando a decifrarne l’alfabeto col quale esso si esprime, dialoga, si palesa.
Con il medesimo spirito pionieristico di quell’antico Suchende -colui che cerca-, Kristine Alksne, Enzo Calibè e Yoko Miura si aggirano tra i significanti del mondo, ne prelevano alcuni e su di essi innestano ulteriori segni tramite l’elaborazione artistica. Produttori d’una semiotica che racconta di come la mano dell’uomo interviene, modificandolo, sul tessuto naturale. Ciascuno con un’impronta unica poiché filtrata da un personalissimo, intimo approccio ad esso che tuttavia trova il suo trait d’union nella pacatezza del ritmo poietico. A partire dalle scelte tecniche e compositive, tutte legate ad una fabbrilità che implica un rapporto plurisensoriale oltre che concettuale con l’opera. Collage, scultura e disegno sono i linguaggi che traducono in immagini universalmente comprensibili l’incontro tra gli artisti e la realtà, i campi in cui si concretizzano pensieri, sensazioni, esperienze.
The World Is Y-OURS racchiude già nel titolo l’idea del potenziamento semantico ottenibile attraverso una particolare disposizione grafica. E dimostra di per sé l’importanza del segno come veicolo di particolari significati. ‘Il mondo è tuo, vostro ma anche nostro, vale a dire di tutti’ suggerisce quello y-ours linguisticamente inesistente ma legittimato dalla funzionalità al discorso che la mostra intende imbastire. Una riflessione sull’ipotizzabile armonizzazione tra artificialità e naturalità. Come osserva Gillo Dorfles nell’introduzione al suo saggio Artificio e Natura: “siamo, dunque, oggi, in un periodo di antinaturalità […] dipenderà dal nostro saper riconvertire in natura questi elementi artificiosi se ci sarà concesso di sopravvivere in un mondo che non sia del tutto disumanizzato”. Osservazione nata sullo scadere degli anni sessanta, in un momento storico sufficientemente maturo per tirare le somme d’un cambiamento epocale, quello del prepotente ingresso della tecnologia nella dimensione creativa. Da allora gli schemi progettuali, le produzioni seriali, i beni di consumo hanno acquisito dignità artistica soppiantando l’unicuum dell’opera in favore della sua riproducibilità, l’individualità dell’artista in favore della depersonalizzazione prodotta dalla macchina. L’oggetto d’arte ha assunto caratteristiche equiparabili a quelle dell’oggetto industriale.
Una constatazione che a distanza di decenni si riconferma attuale poiché dalla meccanizzazione, ancora umanamente gestibile, si è giunti alla digitalizzazione smisurata e fuori controllo. Il rischio, neppure troppo celato, insito in questa perdita di aderenza alla realtà sta nel prescindere dalla tutela di ciò che concretamente e autenticamente ci circonda, poiché l’esistenza è proiettata in una dimensione virtuale e fittizia, tanto più allettante quanto più rispondente alle nostre esigenze. Sintomatico è il progressivo disfacimento del pianeta di cui sono non indizi, ma prove schiaccianti, i palpabili scompensi dell’ecosistema. Prendere coscienza dell’illimitato potenziale proprio di questo processo di artificializzazione non significa negarne retrivamente i benèfici risvolti. Vuol dire, al contrario, adoperarne gli strumenti per migliorare la qualità della vita non soltanto nell’immediato ma in un’ottica illuminata e lungimirante.
Quale può essere dunque il contributo degli artisti allo sviluppo di tale consapevolizzazione? Di certo la sollecitazione dell’individuo ad una positiva attitudine culturale e non meramente fisica verso l’ambiente. Un apporto che travalica i limiti dello spazio espositivo e diviene paradigma dell’esigenza di ritrovare un sinergico godimento corporeo e mentale nel confronto con la natura. Quest’ultima è protagonista indiscussa del patchwork che anima le pareti della galleria.
Uno spirito ramingo e vagabondo afferra per mano lo spettatore e lo guida in un percorso di suggestioni a metà strada tra est e ovest, tra nord e sud. In un solo istante e senza muovere un passo si diventa protagonisti d’un viaggio simultaneo e multidirezionale. Così lo sguardo nordico della lettone Kristine Alksne (Riga, 1980) si scioglie al sole del mediterraneo tra golfi e isole, immortalati in piccoli scatti. Da essi i lembi di terra vengono ritagliati e trasposti su supporti d’identiche dimensioni, a formare dei dittici. Semplice operazione di svuotamento e di riempimento che dimostra come lo slittamento d’un segno sia capace di modificare radicalmente la percezione d’un luogo. Lo stesso avviene quando minimi interventi gestuali - come suddividere in due porzioni le immagini d’una veduta aerea, d’un marciapiedi, d’una distesa di ghiaccio per distanziarle facendo emergere una scia di bianco – vanno a comporre un nuovo paesaggio fluviale. Mentre una zoomata su ridottissimi accumuli sulfurei svela finezze cromatiche e formali solitamente impercettibili ad un’osservazione distratta. Una ricerca che sottolinea il metamorfico divenire della natura, innato o provocato dall’azione antropica. Di trasformazioni parla anche la serie Interrelations del partenopeo Enzo Calibè (San Giorgio a Cremano, 1980). Un’installazione ambientale di dodici piccolissimi disegni disposti disordinatamente a parete ma messi in relazione da un’intricata rete di segmenti. Attraverso l’utilizzo dell’esile tratto della penna grafica l’artista sviluppa un codice calligrafico di minute geometrie. Punti e linee, variamente composti, s’inerpicano, si rincorrono fino ad assumere sembianze organiche. Un’osmotica conciliazione tra elementi opposti - artificiali e naturali – possibile nel territorio prodigioso della creazione artistica, auspicabile, tuttavia, in quello reale, affinché l’irresponsabilità umana non sia causa di catastrofiche conseguenze di dimensioni planetarie. Un afflato zen che emana anche dagli iperrealistici pesci della giapponese Yoko Miura (Tokyo, 1975). Plasmate col das, queste sculture incredibilmente verosimili sono eseguite avvalendosi dell’antichissimo metodo d’osservazione dal vero. La corsa contro il tempo, contro l’inarrestabile decomposizione dei singolari modelli ittici rende ancora più straordinaria la perizia tecnica dell’artista nipponica, la cui aderenza al dato reale rivela un’emotività partecipativa alla dimensione naturale di esplicita matrice orientale. Colpiti da fasci luminosi i pesci si animano e restituiscono sul muro un’ombra sinuosa, l’ideogramma da cui la forma plastica si origina, proiezione grafica del guizzo vitale racchiuso in ogni essere vivente. Esortazione ad una pacifica coesistenza tra gl’inquilini di questo brulicante condominio chiamato MONDO.
20
settembre 2008
The World Is Y-Ours
Dal 20 settembre al 16 ottobre 2008
arte contemporanea
Location
C.A.P.80073_CAPRI ART PROJECT
Capri, Via L'abate, 5/a, (Napoli)
Capri, Via L'abate, 5/a, (Napoli)
Orario di apertura
lun-dom dalle 19 alle 21 su appuntamento
Vernissage
20 Settembre 2008, ore 19.00
Autore
Curatore