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Ti riciclo in Arte
Il tema affrontato dagli artisti tocca un aspetto di primaria importanza della società contemporanea, quello dei rifiuti solidi urbani e del ciclo di smaltimento e riciclaggio di materie riutilizzabili come plastica, carta, alluminio,
vetro
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Dal 15 marzo al 15 aprile ‘08 , presso la Fonderia delle Arti di Roma, si è tenuta la prima edizione della mostra “Ti riciclo in Arte” – storie di plastica, carta, alluminio e vetro.
La curatrice Antonietta Campilongo ha il piacere di comunicare che la manifestazione proseguirà dal 5 al 14 luglio prossimo nella prestigiosa chiesa romanica di San Francesco nel centro storico di Capranica (VT), ad appena mezz’ora di auto da Roma.
Il Comune del luogo, ritenendo interessante il tema e considerato il grande successo di pubblico e la risonanza mediatica che l’esposizione ha ottenuto presso la Fonderia delle Arti di Roma, (la prima edizione è visibile all’indirizzo web: http://it.youtube.com/user/Campilongo1) ha deciso di offrire il patrocinio e di ospitare l’evento in questa elegante cornice.
L’esposizione proseguirà, nel mese di ottobre, a Londra negli spazi del Candid Arts Trust: due immensi magazzini Vittoriani, trasformati in gallerie d’arte, studi artistici e sale per iniziative culturali. La manifestazione sarà seguita e curata da Antonietta Campilongo e Alessandra Masolini.
Ti riciclo in arte
"Ti riciclo in Arte" è il titolo di questa collettiva d'arte contemporanea, curata da Antonietta Campilongo. In mostra, una selezione di opere di pittura, scultura, fotografia, arte digitale, e performance nei locali della Chiesa di San Francesco.
Il tema proposto affronta un aspetto di primaria importanza della società
contemporanea, quello dei rifiuti solidi urbani e del ciclo di smaltimento
e riciclaggio di materie riutilizzabili come plastica, carta, alluminio,
vetro.
I protagonisti di queste storie sono "attori" in transito, si spostano da
un ruolo all'altro, da un luogo all'altro, cercando di esprimere il meglio
di sé, nella metamorfosi.
Sono in grado di raccogliere, trattenere, evocare, raccontare imprese e
destini, esaudire desideri saziando corpi e cervelli, fino all'oblìo.
Sono "trasversali", senza classi sociali, senza politica, senza religione.
Sono "creature mutanti" e questa è la loro forza.
Hanno in sé qualcosa di immortale, come l'Araba Fenice che " Dopo aver
vissuto 500 anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla
sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci
s'abbandona sopra, morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi.
Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice, destinata a vivere tanto a
lungo quanto il suo predecessore" (Ovidio).
Al frequente interrogativo sulle diverse strade e finalità
dell'espressione artistica, questa mostra risponde con il preciso intento
di sensibilizzare artisti e pubblico al rispetto dell'ambiente, sostenendo
ogni percorso utile ad investire risorse ed energie nei processi di
riutilizzo delle materie prime.
Pier Maurizio greco
L’Arte rende sacro
Di primo acchito, “Ti riciclo in arte” può suonare una sorta di affermazione contraddittoria o paradossale. Quasi in automatico, all’ idea di “prodotto artistico” viene ipso dicto associata quella di novità, originalità ed unicità, senza che peraltro questo passaggio logico sia pacificamente assodato e condiviso. A ben pensarci, è una bella responsabilità affermare scientemente tale associazione, dacché hanno decretato da Duchamp in poi scuole, maestri ed epigoni dell’arte trovata e ritrovata; anzi, quello dell’innovazione è per definizione un valore sfuggente transitorio contingente, a volte arlecchinesco, un po’ una pezza a colore, inadatto quindi alla impassibile perennità dell’Arte. Però tant’è; e perciò accostare “arte” (uguale “novità”) con “riciclo” (uguale “uso più volte la stessa cosa”) va a sembrare un sottile controsenso. Ma invece poi, appunto a ben guardare, le due cose stanno così bene insieme che sono intimamente legate da che mondo è mondo. Credo si possa convenire, il prodotto d’Arte non è null’altro che un esito di metamorfosi, un prendere e fare altro, e poi in aggiunta, un utilizzo ed una sublimazione del superfluo, un “secondo livello di lettura”, un sovrappiù di senso che, per genialità di chi lo immette, e per sensibilità di chi lo riscontra, viene ad incorporarsi all’opera dell’Uomo. Ordunque, a voler fare dell’ironia di bassissima lega, si potrebbe dire che l’epoca attuale è fortunatissima, perché mai come ora l’Uomo ha tanto materiale adatto e pronto per l’espressione della sua creatività. Perché oggi come oggi, proprio lo scarto ed il superfluo, la spazzatura e l’oggetto usato, sono sì il problema sociale, economico, sanitario, ecologico che ben conosciamo, ma sono anche occasione e realtà per l’imporsi di stile e di linguaggio, di comunicazione e di relazioni, più brevemente, sono diventati materiali per l’Arte.
E qui il discorso si complica, o meglio si articola in modo interessante. Sempre a prima vista, l’azione che il sistema artistico sta svolgendo avendo come punto di attenzione i consumi e le relative conseguenze, sembra principalmente essere un’azione di denuncia e di allarme. Non è proprio così. E questa mostra ne costituisce una buona e significativa evidenza. Ogni opera d’Arte rende sacra se stessa, riveste la materia di cui è fatta di quell’aura misteriosa e seducente, di quell’alone metafisico e spirituale che santifica e rende taumaturgico il tocco. Manzoni (Piero) docet.
Dunque stiamo attenti. Da un lato, tutti abbiamo presenti l’assillo ecologico, il problema dei rifiuti e di una civiltà globalizzata soprattutto nella corsa al consumo, le prospettive catastrofiche di un pianeta diviso fra aree, sempre più ristrette, di riserve naturali, ed immensi territori destinati a discarica, occupati da impianti di trasformazione, stoccaggio, termodistruzione dei rifiuti. Dall’altro, questa invadenza sta assumendo il tenore di un’assuefazione, di un Matrix che omologa ed anestetizza, lenisce e trasfigura le nostre schiavitù, ce le restituisce indispensabili, ce le ritorna persino belle. Gli artisti assumono dunque la scoria come moderno materiale di creazione, lo reimpiegano in funzione estetica prima che di messaggio, e così ridanno il senso alla materia, riconducono, proprio con le loro operazioni visionarie inventate astruse, ogni materia alla sua essenza primaria, alla sua corporeità più o meno malleabile, alla constatazione che quanto è ferro, legno, vernice o plastica, sempre ferro o legno o vernice o plastica rimane. La funzione di un oggetto può terminare, il logorio può più o meno farne cessare l’uso o l’apprezzamento, ma non ne può annullare l’essenza. E quindi la persistenza (bramata) dell’Arte sfida e gioca la persistenza (deprecata) della materia (almeno di quella sovrabbondante ed inutile).
Ecco dove ci porta il lavoro degli artisti, di tutti questi artisti, come al solito, a ragionare sull’entità delle cose, delle azioni, dei tempi. L’Arte, come deve essere, guarda al mondo da un altro punto di vista rispetto al superficiale senso comune, cerca per istinto ed indole propria cos’altro c’è dietro la facciata, il primo sguardo, l’idea non ragionata. Questa raccolta di materie riciclate, ri-digerite, masticate e ruminate, sono opere diverse perché utilizzano un diverso linguaggio per esprimere un diverso sentire. Non è meramente una recidiva alla centralità concettuale della materia, che è stato obiettivo per l’Arte povera; né alla pura oggettivazione dell’oggetto, a cui si applicò il Nuovo Realismo; né, tanto meno, alla luminosa ossessione della merce, dello status symbol e dell’immagine, come ha messo in luce la Pop Art. E qui sarà pure evidente la ricerca “in fieri”, alcune idee e realizzazioni dichiarano una beata acerbità. Ma è un’acerbità appunto ingenua, fresca e vitale ed energica come può esserlo solo la voglia di creare e di urlare e di far vedere al mondo di che pasta è fatto questo tempo. Dalla materia si possono tirar fuori sogni e lucidità, si può, come in questo caso, sublimare problemi ed angosce in una miriade strabiliante di armonie, e proprio attraverso tale sublimazione renderli presenti alla coscienza, evidenti e rinfacciati, denunciati e costantemente ricordati all’attenzione.
(francesco giulio farachi)
Simona Abruzzini esprime una sorta di sentimento panico della natura e del cosmo, personifica in una creatura di grazia e di irrealtà tutta la cura e protezione di cui il mondo ha severissimo bisogno. L’interdipendenza fra le materie eterogenee, e poi gl’innesti sul colore tattile e rugoso, ed ancora la gradazione dei toni e della luce, tratteggiano una consapevolezza che è insieme dolore e speranza, coscienza di quanto difficile e bella sia l’armonia della vita.
Gioco dei movimenti, questo quadro di Roberto Angiolillo. Spinta verticale e diffusione orizzontale, linea curva e segmento, bidimensionalità e rilievo materico, progressione dei toni dal chiaro allo scuro e viceversa, sono tutti accorgimenti visivi per rendere l’idea di crescita e lotta, di sopravvivenza e minaccia. E c’è il rumore assordante del silenzio, forse dell’attesa che segue le domande, la forza dell’esistenza che si fa largo alla luce, all’affermazione di sé.
Rosella Barretta costruisce un dittico di materie ed emozioni. Ed è il dittico come cesura e distacco, come differenza ed incomunicabilità, diversità di campo fra mondi ed esigenze. Ma è anche e soprattutto relazione e legame, compresenza ed armonia fra i costituenti, costruzione di geometrie ardite, guanto di una sfida possibile che riscopre e ricompone la bellezza dagli elementi rifiutati e residuati, vita da vita.
Gian Paolo Bonani reinterpreta mitologie e tecnologie, rappresenta le due facce di tensione fra gli opposti o fra i complementari, riprende la materia vuota e ne fa pittura, rilievo tridimensionale, movimento, specchio e trabocchetto. In una tale pania, restano invischiati gli aspetti ed i concetti, è un rigenerarsi di forma in forma, un riformularsi di dinamiche e punti di vista, un gioco di rimandi che moltiplica i segni e le combinazioni.
Elena Bonuglia fa convergere e condensa energie nello spazio. “Simultaneamente” è un giungere ed un congiungere, è la capacità immaginifica dell’assemblaggio dove forma, materie, colori ed appunto energie sostano come in un paradossale “surplace”, illusorio. Perché poi la coerenza del tutto è un sottile artificio, un equilibrio di fantasia che reinventa in altro da sé i singoli e discordanti aspetti, un nuovo modo, impossibile forse, per dare campo alla bellezza.
La rete metallica di Marco Bonura cattura gli spazi, la luce fin dentro la figura. Così la leggerezza della forma si confonde nel contrasto con la duttilità della materia, cedendo o resistendo alle lusinghe dell’immaginazione. Conflitto e connessione, come in questa messa in scena di natura violata ed insieme di libertà idealizzata. Il gabbiano, come idea di libertà e natura, ma anche come dominatore delle discariche, è il vero simbolo della schizofrenia moderna.
Sensazioni di libertà distante, il sapore di una fuga da una modernità oppressiva, l’inconsistenza di una foschia luminosa, sono ingredienti in questa opera di Nello Bruno. Da questi componenti si sviluppa quindi una riflessione su tutti quegli aspetti dell’agire e sentire che assorbono la vita quotidiana, fra necessità di nuovi ambiti e consapevolezza dei legami ombelicali, fra tentativi di recupero di un’umanità profonda e persistenza di plumbee convenzioni.
Con la sua dissolvenza e scissione dei piani, l’immagine sfiora l’astrazione. Sicuramente a Maria Cecilia Camozzi non interessa una resa documentaria della realtà, l’artista concentra su evanescenti simultaneità il limpido promanarsi di un’emozione. Gli accumuli di materie e di vita, grinze e depositi dei momenti che compongono l’esistenza, sono importanti, e più importanti, per capire cosa facciamo a noi stessi ed a questo nostro mondo. Quale impianto per recuperare l’anima?
La pittura di Antonietta Campilongo sospende idealmente il tempo sulla scena, e in questa dilazione del momento si analizzano i procedimenti intimi con cui ogni condizione viene vissuta. L’osservazione si svolge concentrandosi così sulle minime e consuete situazioni, la vulnerabilità dell’uomo e del mondo viene rappresentata, con un misto di ironia e di smagata consapevolezza, sotto un limpido straniamento di luce ghiaccia.
L’espressività di Adriana Cappelli è una contesa fra tensioni. La pulsione creativa ed immaginifica si innesta sugli schemi razionali delle orditure e degli intrecci con l’intenzionata casualità delle volute di un nastro, lo spazio si ripartisce secondo verticalità di linee, volumi e vuoti che battono il ritmo per la duttilità della materia, accostamenti e colori fluorescenti fanno esplodere la dimensione metaforica dei costituenti plastici ed innaturali.
L’idea del mondo, la sua immagine, sta per Silvia Castaldo nel fascino immaginifico dei materiali, nella disposizione che un’emozione fa assumere a forme e colori, nella capacità di trasformazione ed adattamento da cui può scaturire una nuova idea ed una nuova presenza. Nulla va buttato, ma dai costituenti poveri si costruiscono immagini ed evocazioni, istantanee degli stati della mente e della realtà, visioni dell’esistente.
Gli strati di colore tagliati e sovrapposti non danno conto di alcuna prevalenza. Nei quadri di Antonella Catini o è il caos che sta disfacendo l’equilibrio critico della realtà, oppure al contrario la forza di un ordine sta raggrumando la materia in immagine. O, ancora meglio, è in scena il senso di una lotta e di una coesistenza, la possibilità per l’Uomo di fondare con la medesima destrezza creazione e distruzione, futuro o nessun presente.
La carta è l’emblema stesso del materiale riutilizzabile, ma è molto di più, è natura con tutta la sua fragilità, leggerezza, malleabilità. Per questo Enzo Correnti sceglie la carta come strumento, supporto, sostanza del suo lavoro, ne amplia gli ambiti pratici e significativi, compone strutture e parossismi, scopre impensate agilità metamorfiche ed evocative.
Breve vita delle cose, sommersione di strati su strati di oggetti e sostanze, uno dopo l’altro, uno invece dell’altro. Si consuma il tempo, l’utilizzo, la bellezza e l’adeguatezza degli oggetti, ed Anna Costantini mette colore a giacere su colore, e poi ancora su momenti ed idee ed emozioni. E racconta un’epoca che consuma e che si consuma, che produce per il poco tempo che lascia a disposizione, per una velocità vorace e sanguinaria.
Il flettersi di un arabesco in ogni caso regala cadenza e misura in un mondo sconvolto dal disordine delle concatenazioni instabili e delle improvvise frammentazioni, e così Arianna De Benedetti trasfigura lo stato delle cose ed inventa una seconda natura a forme, rappresentazioni ed idee. L’accostamento eterogeneo e brillante fra cose, colori e immagini diventa cifra espressiva che consente di sondare le relazioni plastiche, di tradurle in emozione.
La fotografia di Paola de Santis è un’indagine che prova a indovinare i recessi fantastici della realtà, quelli che a volte si rivelano come costrutti di segni e di simbologie. Per questo la tecnica si basa sulla reduplicazione di una particolare inquadratura, come se visivamente si pronunciasse un “mantra”, una nenia ottica di ricerca spirituale ed interiore. Invece di venire trasfigurato, il mondo viene dilatato nelle sue mille sfaccettature e combinazioni di bellezza e difficoltà.
Il simbolismo di Alfredo Di Bacco crea un flusso pittorico e narrativo, un corso entro cui si fondono da una parte la tenuta della composizione, la forza soffusa del colore, l’attenuato contrasto di luce ed ombra; e dall’altra lo slancio fabulistico e la visione allegorica, la narrazione ed il suo significato, l’ordine del mondo con il farsi dei momenti e dei concetti. Il mondo è un affare complicato, come un oggetto da maneggiare con cura, da comprenderne i pericoli.
Daniela Foschi ha fatto poesia su un residuo, ne ha reimpostato le stabilità fisiche e visive, ne ha scoperto la temeraria condizione di oggetto d’arte. Annullando così la primitiva oggettualità, a quel medesimo essere oggetto-funzione-scopo ha ridato ala di fantasia, dimensione visionaria e salvifica. Fuori dalla discarica, tolto alla negazione, decontestualizzato e “ri-finito”, l’oggetto è un atto di morbida rivoluzione, ribellione alla distruzione.
Ambrogio Galbiati traccia segni, apre spazi, colori e margini per l’immaginario. Più superfici sovrapposte, quella grafica, quella pittorica, quella materica, costruiscono il mutuo avvicendamento di occultamento e rivelazione, formano l’infinita combinazione delle immagini, abituano a cogliere gli sbalzi di livello e prospettiva.
Oggetti che contengono la vita, che sono ricordo ed esperienza, che si acconciano come un ritratto di chi li possiede. Juan José Molina Gallardo si rappresenta la vita come un viaggio, come la valigia che accompagna gli itinerari e le soste, come l’immagine che incarna un momento ed un’età. Ecco che la rielaborazione diventa mantenimento e memoria, attenzione per tutto ciò che contribuisce ad essere e cura per ciò che si può irrimediabilmente perdere.
Un’Italia pop e mondana immagina Marco Gerbi, con il suo collage di immagini e ritagli, con il sovrapporre e disorientare i punti focali di un’attenzione comunque superficiale, dispersa, condizionata. È l’Italia dei consumi e dei simboli di stato, che inizia a fare i conti con il sopravanzo del benessere, con la frammentazione caotica degli stimoli e quindi anche delle consapevolezze, che si ritrova coperta e nascosta dai prodotti banali del suo quotidiano.
La capacità immaginativa di Pier Maurizio Greco trasforma i contenitori della raccolta differenziata in strani oggetti, forse totemici, o fantascientifici, o chissà, destinati ad una prossima archeologia. Comunque sono degni di monumentalizzazione, sono il segno e l’essenza dell’epoca, rappresentazione evocativa della situazione e della paura che ingenera, delle negligenze operate e di quelle ancora perpetrate, di un’assenza di tempo che è insieme monito e rassegnazione.
Il meccanismo che Laura Leo attiva nell’immaginario di chi guarda la sua opera è quello di un miscuglio inventivo e concreto dove entrano allusioni, ironie, verità nude e crude, messinscene e innocenti prese in giro. Il tutto tenuto insieme da un linguaggio fumettistico e pirotecnico, che tiene il colore vivace in tensione fra il segno e la materia, e che proprio per la sua allegria visiva ed effervescenza con maggior forza aderisce al reale ed ai suoi problemi.
Una composizione di metafore e di immediatezze rappresentative viene messa in opera da Loris Manasia, che usa una sintassi lineare e pseudo-infantile per collegare visivamente e concettualmente simboli e figurazioni. La semplicità apparente è così un richiamo all’evidenza ed all’essenzialità della situazione, quella di un uomo e di una società sempre più condizionata da bisogni artatamente indotti, da speculazioni, sprechi energetici, inquinamenti.
Simboli di morte e distruzione, partizioni rigide, superfici artificiali e contaminate costituiscono l’insieme con cui Gabriella Marchi rappresenta lo stato delle cose in questo nostro mondo. Tutto il peggio che la follia umana è riuscita a mettere insieme nel suo presente, ogni rischio per l’esistenza stessa del mondo, viene qui riecheggiato e simboleggiato, in certo senso, celebrato. La vanità, la vera violenza, di tutto questo scempio sta sugli scudi del tempo presente.
Esili profili d’ombra si stagliano contro una luce da riflettore scenografico, contro lo sfondo di un mondo minimo e minore, e compongono una danza lieve o un’ode alla luna da irretire. La visione di Gianluca Marziali è un’interpretazione poetica della realtà, capace di trovare e mettere in evidenza piccole e segrete doti della materia, intenta a studiare le conformazioni e sistemazioni che può assumere un istante nel rapimento e distacco dalla piatta ordinarietà.
La pittura di Mariella Miceli usa immettere ed acuire l’attrito fra l’immagine ed il suo significato. In questo modo, nella sospensione creata dal dissidio fra morbidezza (pittorica) e perentorietà (contenutistica) sosta ed ha facilità di assestarsi tutta l’attenzione di chi guarda. Il contrasto diventa così metafora delle contraddizioni del mondo moderno, idillicamente desideroso di natura e purezza, insensatamente attaccato ad un consumistico benessere.
Sante Muro possiede ancora il gusto di dipingere secondo canoni puri ed equilibrati, ma con un segno attuale ed agile che riflette uno spiccato sentimento della vita e del quotidiano. Così non c’è bisogno di forzare allegorie e metafore, l’immagine reca il proprio messaggio con la medesima naturalezza e limpidità con cui è costruita la composizione pittorica. La genuina e semplice armonia, è il vero valore da cercare e da preservare nell’arte, come soprattutto nella vita.
Come una immagine da satellite, la Sardegna di Giovanni Novi emerge nell’azzurro, campita d’oro e di lieve profilo. Qui i materiali di riciclo funzionano ancora in chiave simbolica ed evocativa, anche per quel certo alterare la geografia, ma soprattutto e maggiormente creano uno sfasamento percettivo, fra la non convenzionalità del loro utilizzo a fini rappresentativi ed artistici, e l’estrema consuetudine con cui appartengono alla nostra esperienza. Idea di una straordinaria assuefazione.
Provocatoria, dissacrante, tragicomica, spregiudicata, l’opera musiva di Albino Palamara è un trionfo di ironia sardonica, è la celebrazione beffarda di compulsioni e dipendenze, la singolare rappresentazione di come l’intera realtà fisica e spirituale possa trasfigurarsi e poi ridursi a quell’unico e solo costituente in grado di essere giustificazione e dannazione, simbolo ed esecrazione per il mondo e per la vita.
La metamorfosi operata dall’arte di Aldo Palma si rende fisica attraverso il distendersi e vulnerarsi di un derma plastico, una pellicola concettualmente e chimicamente enigmatica, un non-si-sa-bene-cosa che ricopre e nasconde il sottostante, ma invece anche lo fa trasparire e lo rivela, confonde esaltando e tramutando accentua. È poi una tensione di fili, un’astrarsi di suture e legami arbitrari, un’invenzione di linee che fora i volumi ed apre nuove ulteriori tattili superfici.
Simonetta Pizzarotti declina il concetto del reimpiego su piani multipli, come un prisma orientabile su cui convergono inventiva, fantasia, senso pratico ed estetico, idea e comunicazione, intento specifico e visione del mondo. L’oggetto d’arte è dunque un “ri-assemblage” non solo e non tanto nei suoi costituenti fisici, ma perché frutto di un atteggiamento e di una ricerca, è un voler spingere l’atto creativo oltre ogni chiusa definizione.
L’immediatezza compositiva nell’opera di Elettra Porfiri è essa stessa un appello contro l’invasività dei comportamenti apparentemente minimi, un richiamo di attenzione all’uso responsabile dei materiali che la contemporaneità mette a disposizione. Immaginazione ed ironia invitano a razionalizzare gli atteggiamenti, a riportare i modi di essere e di condursi anche nel quotidiano entro un consapevole equilibrio. Anche per una questione di gusto.
La partizione orizzontale nell’opera di Loredana Raciti scinde i livelli della percezione, laddove in basso si agita una bidimensionalità di marea, un turbine bituminoso e denso, pure visivamente e idealmente profondo, sconfinato, mutevole; mentre nel bianco inerte della metà superiore vige la stabile superficie di una linea di demarcazione, il movimento dello spazio intorno alla materia immota, l’alterco di luce ed oscurità.
Una velata provocazione intellettuale, quella di Fiorella Saura, verso tutti noi che, schiavi dell’utilizzazione, soggiogati alla funzionalità concreta degli oggetti e delle azioni, dimentichiamo la preziosità dell’immateriale, di quei beni che non hanno dimensioni e peso e misure, ma sono patrimonio di salvezza e riscatto per l’Uomo. Ed allora ecco un “porta-poesie”, uno pseudo-oggetto recuperato che serve a recuperare idee, e momenti, ed emozioni.
Nitida e idealizzante, la fotografia di Gianluca Tamorri rende assoluto davanti agli occhi il soggetto, lo aliena da ogni contesto e concetto, lo investe di quello straniamento che è proprio del contrasto e del paradosso. L’analisi delle questioni allora vien posta proprio come davanti la luce frontale e ferma, dove risalta ancor di più l’essenza propria degli oggetti, risaltano ancor di più, nel loro accostamento solo esteriormente astruso, le relazioni, gli antefatti e le conseguenze.
L’opera di Antonio Taschini possiede il fascino ipnotico di antichi oggetti rituali, di erme ed idoli, di totem e feticci. La materia esausta viene sublimata a questa verticalità avvolgente e scabrosa, a questa stasi di bipede improbabilità, a questa sanguigna e viscerale apparenza, e così diventa apparizione ancestrale, forma primigenia di un’evoluzione irrealizzata, idea del possibile inattuale.
Un percorso della memoria, punteggiato di oggetti e sensazioni, si definisce nell’opera di Daniela Viglioglia, si imprime nella realtà, si necessita fino all’incongruenza di questa fissità e sclerosi. Perché le forme bloccate sulle loro posizioni, i segni ed i colori ed i tratti d’unione ormai induriti, sono la permanenza rivendicata di tutto ciò ha realmente composto l’esistenza ed il suo movimento, fatti e momenti da sottrarre alla macina del tempo e delle convenzioni.
L’opera di Giuseppe Viglione sembra tracciare una topografia, una proiezione cartografica dell’immaginario dell’artista. Al tempo stesso, l’impiego di materiali fortemente logorati da molteplici e vari usi, la tecnica di lavorazione che si misura con concomitanti assemblaggi e sottrazioni, la soppesata inopinabilità degli effetti di sovrapposizione e compresenza, compone una formulazione fascinosa, fra la compiuta essenzialità dei componenti e la ricchezza fenomenica dei risultati.
Il color bianco è anch’esso materia, in quest’opera di Zago, ed ora assorbe ora esalta il ritmo di posa delle forme, questo accumulo di consistenze neglette, residui, scorie, trascuratezze ed oblii. Il colore, dunque, senza stesura né campitura, guscio incongruo e discontinuo che assimila gli umori del circostante, tocca di molteplici prospettive le superfici e scopre all’evidenza i desideri metamorfici delle cose.
C’è il gusto intellettuale ed intelligente dell’invenzione nel lavoro di Zoro, l’intenzione specifica di sondare la materia, i suoi significati, la sua semantica e sintassi. E di liberare quindi la multiformità degli approcci possibili, la complessità delle sinapsi. Ma soprattutto, c’è l’interesse a restituire la forma e lo spazio che essa abita, c’è l’abilità di giostrare la materia e la luce, la sensibilità nell’intersecare l’ordine delle sostanze con quello delle cromie.
La curatrice Antonietta Campilongo ha il piacere di comunicare che la manifestazione proseguirà dal 5 al 14 luglio prossimo nella prestigiosa chiesa romanica di San Francesco nel centro storico di Capranica (VT), ad appena mezz’ora di auto da Roma.
Il Comune del luogo, ritenendo interessante il tema e considerato il grande successo di pubblico e la risonanza mediatica che l’esposizione ha ottenuto presso la Fonderia delle Arti di Roma, (la prima edizione è visibile all’indirizzo web: http://it.youtube.com/user/Campilongo1) ha deciso di offrire il patrocinio e di ospitare l’evento in questa elegante cornice.
L’esposizione proseguirà, nel mese di ottobre, a Londra negli spazi del Candid Arts Trust: due immensi magazzini Vittoriani, trasformati in gallerie d’arte, studi artistici e sale per iniziative culturali. La manifestazione sarà seguita e curata da Antonietta Campilongo e Alessandra Masolini.
Ti riciclo in arte
"Ti riciclo in Arte" è il titolo di questa collettiva d'arte contemporanea, curata da Antonietta Campilongo. In mostra, una selezione di opere di pittura, scultura, fotografia, arte digitale, e performance nei locali della Chiesa di San Francesco.
Il tema proposto affronta un aspetto di primaria importanza della società
contemporanea, quello dei rifiuti solidi urbani e del ciclo di smaltimento
e riciclaggio di materie riutilizzabili come plastica, carta, alluminio,
vetro.
I protagonisti di queste storie sono "attori" in transito, si spostano da
un ruolo all'altro, da un luogo all'altro, cercando di esprimere il meglio
di sé, nella metamorfosi.
Sono in grado di raccogliere, trattenere, evocare, raccontare imprese e
destini, esaudire desideri saziando corpi e cervelli, fino all'oblìo.
Sono "trasversali", senza classi sociali, senza politica, senza religione.
Sono "creature mutanti" e questa è la loro forza.
Hanno in sé qualcosa di immortale, come l'Araba Fenice che " Dopo aver
vissuto 500 anni, con le fronde di una quercia si costruisce un nido sulla
sommità di una palma, ci ammonticchia cannella, spigonardo e mirra, e ci
s'abbandona sopra, morendo, esalando il suo ultimo respiro fra gli aromi.
Dal corpo del genitore esce una giovane Fenice, destinata a vivere tanto a
lungo quanto il suo predecessore" (Ovidio).
Al frequente interrogativo sulle diverse strade e finalità
dell'espressione artistica, questa mostra risponde con il preciso intento
di sensibilizzare artisti e pubblico al rispetto dell'ambiente, sostenendo
ogni percorso utile ad investire risorse ed energie nei processi di
riutilizzo delle materie prime.
Pier Maurizio greco
L’Arte rende sacro
Di primo acchito, “Ti riciclo in arte” può suonare una sorta di affermazione contraddittoria o paradossale. Quasi in automatico, all’ idea di “prodotto artistico” viene ipso dicto associata quella di novità, originalità ed unicità, senza che peraltro questo passaggio logico sia pacificamente assodato e condiviso. A ben pensarci, è una bella responsabilità affermare scientemente tale associazione, dacché hanno decretato da Duchamp in poi scuole, maestri ed epigoni dell’arte trovata e ritrovata; anzi, quello dell’innovazione è per definizione un valore sfuggente transitorio contingente, a volte arlecchinesco, un po’ una pezza a colore, inadatto quindi alla impassibile perennità dell’Arte. Però tant’è; e perciò accostare “arte” (uguale “novità”) con “riciclo” (uguale “uso più volte la stessa cosa”) va a sembrare un sottile controsenso. Ma invece poi, appunto a ben guardare, le due cose stanno così bene insieme che sono intimamente legate da che mondo è mondo. Credo si possa convenire, il prodotto d’Arte non è null’altro che un esito di metamorfosi, un prendere e fare altro, e poi in aggiunta, un utilizzo ed una sublimazione del superfluo, un “secondo livello di lettura”, un sovrappiù di senso che, per genialità di chi lo immette, e per sensibilità di chi lo riscontra, viene ad incorporarsi all’opera dell’Uomo. Ordunque, a voler fare dell’ironia di bassissima lega, si potrebbe dire che l’epoca attuale è fortunatissima, perché mai come ora l’Uomo ha tanto materiale adatto e pronto per l’espressione della sua creatività. Perché oggi come oggi, proprio lo scarto ed il superfluo, la spazzatura e l’oggetto usato, sono sì il problema sociale, economico, sanitario, ecologico che ben conosciamo, ma sono anche occasione e realtà per l’imporsi di stile e di linguaggio, di comunicazione e di relazioni, più brevemente, sono diventati materiali per l’Arte.
E qui il discorso si complica, o meglio si articola in modo interessante. Sempre a prima vista, l’azione che il sistema artistico sta svolgendo avendo come punto di attenzione i consumi e le relative conseguenze, sembra principalmente essere un’azione di denuncia e di allarme. Non è proprio così. E questa mostra ne costituisce una buona e significativa evidenza. Ogni opera d’Arte rende sacra se stessa, riveste la materia di cui è fatta di quell’aura misteriosa e seducente, di quell’alone metafisico e spirituale che santifica e rende taumaturgico il tocco. Manzoni (Piero) docet.
Dunque stiamo attenti. Da un lato, tutti abbiamo presenti l’assillo ecologico, il problema dei rifiuti e di una civiltà globalizzata soprattutto nella corsa al consumo, le prospettive catastrofiche di un pianeta diviso fra aree, sempre più ristrette, di riserve naturali, ed immensi territori destinati a discarica, occupati da impianti di trasformazione, stoccaggio, termodistruzione dei rifiuti. Dall’altro, questa invadenza sta assumendo il tenore di un’assuefazione, di un Matrix che omologa ed anestetizza, lenisce e trasfigura le nostre schiavitù, ce le restituisce indispensabili, ce le ritorna persino belle. Gli artisti assumono dunque la scoria come moderno materiale di creazione, lo reimpiegano in funzione estetica prima che di messaggio, e così ridanno il senso alla materia, riconducono, proprio con le loro operazioni visionarie inventate astruse, ogni materia alla sua essenza primaria, alla sua corporeità più o meno malleabile, alla constatazione che quanto è ferro, legno, vernice o plastica, sempre ferro o legno o vernice o plastica rimane. La funzione di un oggetto può terminare, il logorio può più o meno farne cessare l’uso o l’apprezzamento, ma non ne può annullare l’essenza. E quindi la persistenza (bramata) dell’Arte sfida e gioca la persistenza (deprecata) della materia (almeno di quella sovrabbondante ed inutile).
Ecco dove ci porta il lavoro degli artisti, di tutti questi artisti, come al solito, a ragionare sull’entità delle cose, delle azioni, dei tempi. L’Arte, come deve essere, guarda al mondo da un altro punto di vista rispetto al superficiale senso comune, cerca per istinto ed indole propria cos’altro c’è dietro la facciata, il primo sguardo, l’idea non ragionata. Questa raccolta di materie riciclate, ri-digerite, masticate e ruminate, sono opere diverse perché utilizzano un diverso linguaggio per esprimere un diverso sentire. Non è meramente una recidiva alla centralità concettuale della materia, che è stato obiettivo per l’Arte povera; né alla pura oggettivazione dell’oggetto, a cui si applicò il Nuovo Realismo; né, tanto meno, alla luminosa ossessione della merce, dello status symbol e dell’immagine, come ha messo in luce la Pop Art. E qui sarà pure evidente la ricerca “in fieri”, alcune idee e realizzazioni dichiarano una beata acerbità. Ma è un’acerbità appunto ingenua, fresca e vitale ed energica come può esserlo solo la voglia di creare e di urlare e di far vedere al mondo di che pasta è fatto questo tempo. Dalla materia si possono tirar fuori sogni e lucidità, si può, come in questo caso, sublimare problemi ed angosce in una miriade strabiliante di armonie, e proprio attraverso tale sublimazione renderli presenti alla coscienza, evidenti e rinfacciati, denunciati e costantemente ricordati all’attenzione.
(francesco giulio farachi)
Simona Abruzzini esprime una sorta di sentimento panico della natura e del cosmo, personifica in una creatura di grazia e di irrealtà tutta la cura e protezione di cui il mondo ha severissimo bisogno. L’interdipendenza fra le materie eterogenee, e poi gl’innesti sul colore tattile e rugoso, ed ancora la gradazione dei toni e della luce, tratteggiano una consapevolezza che è insieme dolore e speranza, coscienza di quanto difficile e bella sia l’armonia della vita.
Gioco dei movimenti, questo quadro di Roberto Angiolillo. Spinta verticale e diffusione orizzontale, linea curva e segmento, bidimensionalità e rilievo materico, progressione dei toni dal chiaro allo scuro e viceversa, sono tutti accorgimenti visivi per rendere l’idea di crescita e lotta, di sopravvivenza e minaccia. E c’è il rumore assordante del silenzio, forse dell’attesa che segue le domande, la forza dell’esistenza che si fa largo alla luce, all’affermazione di sé.
Rosella Barretta costruisce un dittico di materie ed emozioni. Ed è il dittico come cesura e distacco, come differenza ed incomunicabilità, diversità di campo fra mondi ed esigenze. Ma è anche e soprattutto relazione e legame, compresenza ed armonia fra i costituenti, costruzione di geometrie ardite, guanto di una sfida possibile che riscopre e ricompone la bellezza dagli elementi rifiutati e residuati, vita da vita.
Gian Paolo Bonani reinterpreta mitologie e tecnologie, rappresenta le due facce di tensione fra gli opposti o fra i complementari, riprende la materia vuota e ne fa pittura, rilievo tridimensionale, movimento, specchio e trabocchetto. In una tale pania, restano invischiati gli aspetti ed i concetti, è un rigenerarsi di forma in forma, un riformularsi di dinamiche e punti di vista, un gioco di rimandi che moltiplica i segni e le combinazioni.
Elena Bonuglia fa convergere e condensa energie nello spazio. “Simultaneamente” è un giungere ed un congiungere, è la capacità immaginifica dell’assemblaggio dove forma, materie, colori ed appunto energie sostano come in un paradossale “surplace”, illusorio. Perché poi la coerenza del tutto è un sottile artificio, un equilibrio di fantasia che reinventa in altro da sé i singoli e discordanti aspetti, un nuovo modo, impossibile forse, per dare campo alla bellezza.
La rete metallica di Marco Bonura cattura gli spazi, la luce fin dentro la figura. Così la leggerezza della forma si confonde nel contrasto con la duttilità della materia, cedendo o resistendo alle lusinghe dell’immaginazione. Conflitto e connessione, come in questa messa in scena di natura violata ed insieme di libertà idealizzata. Il gabbiano, come idea di libertà e natura, ma anche come dominatore delle discariche, è il vero simbolo della schizofrenia moderna.
Sensazioni di libertà distante, il sapore di una fuga da una modernità oppressiva, l’inconsistenza di una foschia luminosa, sono ingredienti in questa opera di Nello Bruno. Da questi componenti si sviluppa quindi una riflessione su tutti quegli aspetti dell’agire e sentire che assorbono la vita quotidiana, fra necessità di nuovi ambiti e consapevolezza dei legami ombelicali, fra tentativi di recupero di un’umanità profonda e persistenza di plumbee convenzioni.
Con la sua dissolvenza e scissione dei piani, l’immagine sfiora l’astrazione. Sicuramente a Maria Cecilia Camozzi non interessa una resa documentaria della realtà, l’artista concentra su evanescenti simultaneità il limpido promanarsi di un’emozione. Gli accumuli di materie e di vita, grinze e depositi dei momenti che compongono l’esistenza, sono importanti, e più importanti, per capire cosa facciamo a noi stessi ed a questo nostro mondo. Quale impianto per recuperare l’anima?
La pittura di Antonietta Campilongo sospende idealmente il tempo sulla scena, e in questa dilazione del momento si analizzano i procedimenti intimi con cui ogni condizione viene vissuta. L’osservazione si svolge concentrandosi così sulle minime e consuete situazioni, la vulnerabilità dell’uomo e del mondo viene rappresentata, con un misto di ironia e di smagata consapevolezza, sotto un limpido straniamento di luce ghiaccia.
L’espressività di Adriana Cappelli è una contesa fra tensioni. La pulsione creativa ed immaginifica si innesta sugli schemi razionali delle orditure e degli intrecci con l’intenzionata casualità delle volute di un nastro, lo spazio si ripartisce secondo verticalità di linee, volumi e vuoti che battono il ritmo per la duttilità della materia, accostamenti e colori fluorescenti fanno esplodere la dimensione metaforica dei costituenti plastici ed innaturali.
L’idea del mondo, la sua immagine, sta per Silvia Castaldo nel fascino immaginifico dei materiali, nella disposizione che un’emozione fa assumere a forme e colori, nella capacità di trasformazione ed adattamento da cui può scaturire una nuova idea ed una nuova presenza. Nulla va buttato, ma dai costituenti poveri si costruiscono immagini ed evocazioni, istantanee degli stati della mente e della realtà, visioni dell’esistente.
Gli strati di colore tagliati e sovrapposti non danno conto di alcuna prevalenza. Nei quadri di Antonella Catini o è il caos che sta disfacendo l’equilibrio critico della realtà, oppure al contrario la forza di un ordine sta raggrumando la materia in immagine. O, ancora meglio, è in scena il senso di una lotta e di una coesistenza, la possibilità per l’Uomo di fondare con la medesima destrezza creazione e distruzione, futuro o nessun presente.
La carta è l’emblema stesso del materiale riutilizzabile, ma è molto di più, è natura con tutta la sua fragilità, leggerezza, malleabilità. Per questo Enzo Correnti sceglie la carta come strumento, supporto, sostanza del suo lavoro, ne amplia gli ambiti pratici e significativi, compone strutture e parossismi, scopre impensate agilità metamorfiche ed evocative.
Breve vita delle cose, sommersione di strati su strati di oggetti e sostanze, uno dopo l’altro, uno invece dell’altro. Si consuma il tempo, l’utilizzo, la bellezza e l’adeguatezza degli oggetti, ed Anna Costantini mette colore a giacere su colore, e poi ancora su momenti ed idee ed emozioni. E racconta un’epoca che consuma e che si consuma, che produce per il poco tempo che lascia a disposizione, per una velocità vorace e sanguinaria.
Il flettersi di un arabesco in ogni caso regala cadenza e misura in un mondo sconvolto dal disordine delle concatenazioni instabili e delle improvvise frammentazioni, e così Arianna De Benedetti trasfigura lo stato delle cose ed inventa una seconda natura a forme, rappresentazioni ed idee. L’accostamento eterogeneo e brillante fra cose, colori e immagini diventa cifra espressiva che consente di sondare le relazioni plastiche, di tradurle in emozione.
La fotografia di Paola de Santis è un’indagine che prova a indovinare i recessi fantastici della realtà, quelli che a volte si rivelano come costrutti di segni e di simbologie. Per questo la tecnica si basa sulla reduplicazione di una particolare inquadratura, come se visivamente si pronunciasse un “mantra”, una nenia ottica di ricerca spirituale ed interiore. Invece di venire trasfigurato, il mondo viene dilatato nelle sue mille sfaccettature e combinazioni di bellezza e difficoltà.
Il simbolismo di Alfredo Di Bacco crea un flusso pittorico e narrativo, un corso entro cui si fondono da una parte la tenuta della composizione, la forza soffusa del colore, l’attenuato contrasto di luce ed ombra; e dall’altra lo slancio fabulistico e la visione allegorica, la narrazione ed il suo significato, l’ordine del mondo con il farsi dei momenti e dei concetti. Il mondo è un affare complicato, come un oggetto da maneggiare con cura, da comprenderne i pericoli.
Daniela Foschi ha fatto poesia su un residuo, ne ha reimpostato le stabilità fisiche e visive, ne ha scoperto la temeraria condizione di oggetto d’arte. Annullando così la primitiva oggettualità, a quel medesimo essere oggetto-funzione-scopo ha ridato ala di fantasia, dimensione visionaria e salvifica. Fuori dalla discarica, tolto alla negazione, decontestualizzato e “ri-finito”, l’oggetto è un atto di morbida rivoluzione, ribellione alla distruzione.
Ambrogio Galbiati traccia segni, apre spazi, colori e margini per l’immaginario. Più superfici sovrapposte, quella grafica, quella pittorica, quella materica, costruiscono il mutuo avvicendamento di occultamento e rivelazione, formano l’infinita combinazione delle immagini, abituano a cogliere gli sbalzi di livello e prospettiva.
Oggetti che contengono la vita, che sono ricordo ed esperienza, che si acconciano come un ritratto di chi li possiede. Juan José Molina Gallardo si rappresenta la vita come un viaggio, come la valigia che accompagna gli itinerari e le soste, come l’immagine che incarna un momento ed un’età. Ecco che la rielaborazione diventa mantenimento e memoria, attenzione per tutto ciò che contribuisce ad essere e cura per ciò che si può irrimediabilmente perdere.
Un’Italia pop e mondana immagina Marco Gerbi, con il suo collage di immagini e ritagli, con il sovrapporre e disorientare i punti focali di un’attenzione comunque superficiale, dispersa, condizionata. È l’Italia dei consumi e dei simboli di stato, che inizia a fare i conti con il sopravanzo del benessere, con la frammentazione caotica degli stimoli e quindi anche delle consapevolezze, che si ritrova coperta e nascosta dai prodotti banali del suo quotidiano.
La capacità immaginativa di Pier Maurizio Greco trasforma i contenitori della raccolta differenziata in strani oggetti, forse totemici, o fantascientifici, o chissà, destinati ad una prossima archeologia. Comunque sono degni di monumentalizzazione, sono il segno e l’essenza dell’epoca, rappresentazione evocativa della situazione e della paura che ingenera, delle negligenze operate e di quelle ancora perpetrate, di un’assenza di tempo che è insieme monito e rassegnazione.
Il meccanismo che Laura Leo attiva nell’immaginario di chi guarda la sua opera è quello di un miscuglio inventivo e concreto dove entrano allusioni, ironie, verità nude e crude, messinscene e innocenti prese in giro. Il tutto tenuto insieme da un linguaggio fumettistico e pirotecnico, che tiene il colore vivace in tensione fra il segno e la materia, e che proprio per la sua allegria visiva ed effervescenza con maggior forza aderisce al reale ed ai suoi problemi.
Una composizione di metafore e di immediatezze rappresentative viene messa in opera da Loris Manasia, che usa una sintassi lineare e pseudo-infantile per collegare visivamente e concettualmente simboli e figurazioni. La semplicità apparente è così un richiamo all’evidenza ed all’essenzialità della situazione, quella di un uomo e di una società sempre più condizionata da bisogni artatamente indotti, da speculazioni, sprechi energetici, inquinamenti.
Simboli di morte e distruzione, partizioni rigide, superfici artificiali e contaminate costituiscono l’insieme con cui Gabriella Marchi rappresenta lo stato delle cose in questo nostro mondo. Tutto il peggio che la follia umana è riuscita a mettere insieme nel suo presente, ogni rischio per l’esistenza stessa del mondo, viene qui riecheggiato e simboleggiato, in certo senso, celebrato. La vanità, la vera violenza, di tutto questo scempio sta sugli scudi del tempo presente.
Esili profili d’ombra si stagliano contro una luce da riflettore scenografico, contro lo sfondo di un mondo minimo e minore, e compongono una danza lieve o un’ode alla luna da irretire. La visione di Gianluca Marziali è un’interpretazione poetica della realtà, capace di trovare e mettere in evidenza piccole e segrete doti della materia, intenta a studiare le conformazioni e sistemazioni che può assumere un istante nel rapimento e distacco dalla piatta ordinarietà.
La pittura di Mariella Miceli usa immettere ed acuire l’attrito fra l’immagine ed il suo significato. In questo modo, nella sospensione creata dal dissidio fra morbidezza (pittorica) e perentorietà (contenutistica) sosta ed ha facilità di assestarsi tutta l’attenzione di chi guarda. Il contrasto diventa così metafora delle contraddizioni del mondo moderno, idillicamente desideroso di natura e purezza, insensatamente attaccato ad un consumistico benessere.
Sante Muro possiede ancora il gusto di dipingere secondo canoni puri ed equilibrati, ma con un segno attuale ed agile che riflette uno spiccato sentimento della vita e del quotidiano. Così non c’è bisogno di forzare allegorie e metafore, l’immagine reca il proprio messaggio con la medesima naturalezza e limpidità con cui è costruita la composizione pittorica. La genuina e semplice armonia, è il vero valore da cercare e da preservare nell’arte, come soprattutto nella vita.
Come una immagine da satellite, la Sardegna di Giovanni Novi emerge nell’azzurro, campita d’oro e di lieve profilo. Qui i materiali di riciclo funzionano ancora in chiave simbolica ed evocativa, anche per quel certo alterare la geografia, ma soprattutto e maggiormente creano uno sfasamento percettivo, fra la non convenzionalità del loro utilizzo a fini rappresentativi ed artistici, e l’estrema consuetudine con cui appartengono alla nostra esperienza. Idea di una straordinaria assuefazione.
Provocatoria, dissacrante, tragicomica, spregiudicata, l’opera musiva di Albino Palamara è un trionfo di ironia sardonica, è la celebrazione beffarda di compulsioni e dipendenze, la singolare rappresentazione di come l’intera realtà fisica e spirituale possa trasfigurarsi e poi ridursi a quell’unico e solo costituente in grado di essere giustificazione e dannazione, simbolo ed esecrazione per il mondo e per la vita.
La metamorfosi operata dall’arte di Aldo Palma si rende fisica attraverso il distendersi e vulnerarsi di un derma plastico, una pellicola concettualmente e chimicamente enigmatica, un non-si-sa-bene-cosa che ricopre e nasconde il sottostante, ma invece anche lo fa trasparire e lo rivela, confonde esaltando e tramutando accentua. È poi una tensione di fili, un’astrarsi di suture e legami arbitrari, un’invenzione di linee che fora i volumi ed apre nuove ulteriori tattili superfici.
Simonetta Pizzarotti declina il concetto del reimpiego su piani multipli, come un prisma orientabile su cui convergono inventiva, fantasia, senso pratico ed estetico, idea e comunicazione, intento specifico e visione del mondo. L’oggetto d’arte è dunque un “ri-assemblage” non solo e non tanto nei suoi costituenti fisici, ma perché frutto di un atteggiamento e di una ricerca, è un voler spingere l’atto creativo oltre ogni chiusa definizione.
L’immediatezza compositiva nell’opera di Elettra Porfiri è essa stessa un appello contro l’invasività dei comportamenti apparentemente minimi, un richiamo di attenzione all’uso responsabile dei materiali che la contemporaneità mette a disposizione. Immaginazione ed ironia invitano a razionalizzare gli atteggiamenti, a riportare i modi di essere e di condursi anche nel quotidiano entro un consapevole equilibrio. Anche per una questione di gusto.
La partizione orizzontale nell’opera di Loredana Raciti scinde i livelli della percezione, laddove in basso si agita una bidimensionalità di marea, un turbine bituminoso e denso, pure visivamente e idealmente profondo, sconfinato, mutevole; mentre nel bianco inerte della metà superiore vige la stabile superficie di una linea di demarcazione, il movimento dello spazio intorno alla materia immota, l’alterco di luce ed oscurità.
Una velata provocazione intellettuale, quella di Fiorella Saura, verso tutti noi che, schiavi dell’utilizzazione, soggiogati alla funzionalità concreta degli oggetti e delle azioni, dimentichiamo la preziosità dell’immateriale, di quei beni che non hanno dimensioni e peso e misure, ma sono patrimonio di salvezza e riscatto per l’Uomo. Ed allora ecco un “porta-poesie”, uno pseudo-oggetto recuperato che serve a recuperare idee, e momenti, ed emozioni.
Nitida e idealizzante, la fotografia di Gianluca Tamorri rende assoluto davanti agli occhi il soggetto, lo aliena da ogni contesto e concetto, lo investe di quello straniamento che è proprio del contrasto e del paradosso. L’analisi delle questioni allora vien posta proprio come davanti la luce frontale e ferma, dove risalta ancor di più l’essenza propria degli oggetti, risaltano ancor di più, nel loro accostamento solo esteriormente astruso, le relazioni, gli antefatti e le conseguenze.
L’opera di Antonio Taschini possiede il fascino ipnotico di antichi oggetti rituali, di erme ed idoli, di totem e feticci. La materia esausta viene sublimata a questa verticalità avvolgente e scabrosa, a questa stasi di bipede improbabilità, a questa sanguigna e viscerale apparenza, e così diventa apparizione ancestrale, forma primigenia di un’evoluzione irrealizzata, idea del possibile inattuale.
Un percorso della memoria, punteggiato di oggetti e sensazioni, si definisce nell’opera di Daniela Viglioglia, si imprime nella realtà, si necessita fino all’incongruenza di questa fissità e sclerosi. Perché le forme bloccate sulle loro posizioni, i segni ed i colori ed i tratti d’unione ormai induriti, sono la permanenza rivendicata di tutto ciò ha realmente composto l’esistenza ed il suo movimento, fatti e momenti da sottrarre alla macina del tempo e delle convenzioni.
L’opera di Giuseppe Viglione sembra tracciare una topografia, una proiezione cartografica dell’immaginario dell’artista. Al tempo stesso, l’impiego di materiali fortemente logorati da molteplici e vari usi, la tecnica di lavorazione che si misura con concomitanti assemblaggi e sottrazioni, la soppesata inopinabilità degli effetti di sovrapposizione e compresenza, compone una formulazione fascinosa, fra la compiuta essenzialità dei componenti e la ricchezza fenomenica dei risultati.
Il color bianco è anch’esso materia, in quest’opera di Zago, ed ora assorbe ora esalta il ritmo di posa delle forme, questo accumulo di consistenze neglette, residui, scorie, trascuratezze ed oblii. Il colore, dunque, senza stesura né campitura, guscio incongruo e discontinuo che assimila gli umori del circostante, tocca di molteplici prospettive le superfici e scopre all’evidenza i desideri metamorfici delle cose.
C’è il gusto intellettuale ed intelligente dell’invenzione nel lavoro di Zoro, l’intenzione specifica di sondare la materia, i suoi significati, la sua semantica e sintassi. E di liberare quindi la multiformità degli approcci possibili, la complessità delle sinapsi. Ma soprattutto, c’è l’interesse a restituire la forma e lo spazio che essa abita, c’è l’abilità di giostrare la materia e la luce, la sensibilità nell’intersecare l’ordine delle sostanze con quello delle cromie.
05
luglio 2008
Ti riciclo in Arte
Dal 05 al 14 luglio 2008
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
CHIESA DI SAN FRANCESCO
Capranica, Piazza del comune, (Viterbo)
Capranica, Piazza del comune, (Viterbo)
Orario di apertura
martedì/domenica: 16-20 - lunedì chiuso
Vernissage
5 Luglio 2008, ore 18
Sito web
www.campilongo.it
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