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Tony Barbagallo – Le mappe del mondo
Sarà esposta un’antologica Fotografica di Tony Barbagallo. Noto foto reporter siciliano.
Comunicato stampa
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A Vittoria Dal 9 maggio 2009 i locali della ACE Antica Centrale Elettrica
ArteContemporaneaEsposizioni, ospiteranno la prima di una serie di mostre.
Tony Barbagallo | Le mappe del mondo a cura di Luciano D'amico.
Sarà esposta un’antologica Fotografica di Tony Barbagallo. Noto foto reporter siciliano.
L’esposizione rimarrà aperta fino al 24 maggio 2009.
dal testo critico di Giuseppe Angelo Traina:
L’arte ovvero l’uomo-merce disvelato
conosco Tony Barbagallo da oltre mezzo secolo, si può dire da quando ha cominciato la sua attività di fotografo, nella quale ha realizzato una perfetta sintesi — purtroppo non frequente — tra mestiere e passione: il mestiere gli ha dato da vivere, ma gli ha offerto anche l'esperienza e gli strumenti tecnici per dare sfogo alla passione, e questa lo ha sostenuto nello svolgere il mestiere.
Giunto ad un'età in cui si fanno consuntivi e bilanci, Barbagallo ha messo insieme quello che gli è parso il meglio del suo lavoro e lo offre al pubblico in una mostra antologica. Le sue cose hanno già subìto il vaglio di esperti in occasione delle numerose rassegne alle quali ha partecipato ottenendo significativi riconoscimenti. Si può così ricostruire il percorso del suo lavoro ormai semisecolare.
Tra le molte tendenze della fotografia moderna non c'è dubbio che Barbagallo abbia scelto di iscriversi nel filone della fotografia di testimonianza e di documentazione: il suo è pertanto soprattutto un documento, tecnicamente accurato, stilisticamente ineccepibile; ma soprattutto un documento, al centro del quale c'è l'evento o il personaggio, senza inutili sbavature e senza altro intento che cogliere l'evento o il personaggio nella loro realtà, specificità e storicità. Si potrebbe dire che l'intervento dell'autore consista proprio nel non mostrarsi, restando celato, e non sovrapporsi al dato reale.
Fotografando persone, luoghi, situazioni ed eventi della sua città e del territorio, con qualche incursione nei territori vicini, Barbagallo ha dato al complesso della sua opera, forse senza avere piena consapevolezza della portata della cosa, un taglio che non esiterei a definire storiografico, oltre che etno-antropologico. Leggo in una tesi di laurea monografica, che gli è stata dedicata dalla dott.ssa Viviana Mauro presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma1, che il suo archivio comprendeva, già cinque anni fa, più di cinquantamila negativi e trentamila diapositive e penso che, se fosse realistica l'idea — che mi viene suggerita dall'utopia borgesiana di una mappa del mondo così precisa da avere le stesse dimensioni del mondo — di far diventare l'archivio un'opera in ottanta volumi di mille pagine l'uno (che avrebbe perciò una mole superiore all'Enciclopedia Treccani!), ne risulterebbe una interminabile e minuziosa descrizione del territorio, delle sue vicende e dei suoi abitanti lungo l'arco dei cinquant'anni nei quali Barbagallo li ha osservati, testimoniati e storicizzati. È ovvio che questo testo monumentale non sarà mai pubblicato (almeno nella sua interezza), ma resta il fatto che l'archivio c'è e potrà essere, in futuro, una fonte importante di infinite notizie. Sempreché ovviamente, quando — il più tardi possibile — non ci sarà più Barbagallo. a custodirlo, sia affidato ad una istituzione che non lo rèleghi in qualche magazzino umido a marcire. Mi auguro proprio che ciò non avvenga, ma — ben conoscendo la lungimiranza di chi dirige in Italia la politica dei beni culturali —, pur sperando di non essere buon profeta, non posso che
esprimere il più desolato pessimismo.
E in questo immenso corpus fotografico da salvare non comprendo soltanto le fotografie realizzate con intenti per così dire creativi, che mi rendo conto costituiscano per l'autore la parte più artisticamente gratificante, ma anche tutto il resto, giacché il valore documentario riguarda anche i servizi per cerimonie private, quelle per le quali normalmente si incarica un fotografo allo scopo pratico di avere un ricordo di famiglia. E penso, per fare un solo esempio, a quella serie di scatti che Barbagallo eseguì negli Anni Cinquanta e che avevano come soggetto funerali; fotografie che vennero eseguite perché i parenti dei defunti, residenti in America, non potevano presenziare, dato che i mezzi di trasporto non avevano la diffusione, la velocità e i costi di oggi. Ecco un caso da manuale di eterogenesi dei fini: un'operazione compiuta con una finalità pratica e soggettiva ben precisa, che finisce con l'avere una valenza storico-documentaria oggettiva assolutamente non prevista né immaginata da chi l'ha promossa. La lettura critica di una suite fotografica di questa natura ci fornisce, infatti, strumenti di analisi etno-antropologica di straordinario significato. Non a caso, infatti, gli usi funerari sono uno dei settori più importanti dell'antropologia e alla loro documentazione storica, specie tra il Sei e il Settecento, sono state dedicate preziose opere illustrate con incisioni di grande pregio.
È bastato che passasse mezzo secolo perché, a studiare oggi questa documentazione fotografica, ci si prospetti una società profondamente mutata. A me sembra già un dato interessante quest'uso, per così dire, succedaneo della fotografia: poiché l'emigrato non poteva essere presente fisicamente, come avrebbe dovuto e voluto, alle esequie del famigliare defunto, sostituiva all'evento mancato la sua rappresentazione. Io non credo che farsi mandare le fotografie del funerale servisse a soddisfare una curiosità (che sarebbe stata, peraltro, quasi irriverente), ma piuttosto a creare simbolicamente una presenza immaginaria, a risarcire quella che veniva sentita come una sia pur involontaria mancanza di attenzione e di rispetto verso il defunto: l'emigrato poteva così riversare, da lontano, sulla fotografia le lacrime che avrebbe pianto sulla bara, poteva baciarla come avrebbe baciato la bara.
Ma questi sono rilievi che riguardano la natura e la motivazione dell'operazione. C'è poi l'aspetto più intrinsecamente documentario, legato alle immagini, con la loro immediata eloquenza: l'organizzazione del corteo funebre, il percorso seguìto, l'abbigliamento e gli atteggiamenti dei partecipanti. Mi fermo qui, avendo voluto solo suggerire qualche esempio della molteplicità di letture che il dato documentario offre, specie quando — come nel caso della fotografia — non è manipolato dalla soggettività dell'autore. Questo ha del resto, sempre, di specifico qualsiasi documento: di offrirsi al ricercatore come materia prima di cui possono farsi molteplici usi.
Dalla metà del secolo scorso ad oggi Barbagallo ha vissuto — come tutti quelli che abbiamo, più o meno, la sua età — la trasformazione della società, della città e del territorio: ha visto tramontare usi, mestieri, modelli, consumi, vita materiale, modi di produrre. Un po' dappertutto, negli ultimi decenni, persone di una certa età si sono messe a raccontare com'erano i loro tempi, avendo avuto modo di sperimentare, nell'arco della propria esperienza di vita, il salto tra un passato non lontanissimo e il presente così rapidamente e profondamente mutato. Ne è nato un filone memorialistico di opere che spesso sono una semplice raccolta disorganica e ripetitiva di aneddoti, profili umani, modi di dire e proverbi (tutto pur sempre non privo di interesse), solo qualche volta sollevandosi a gradini più elevati (ed uno degli esempi più pregevoli è, ovviamente, il Museo d'ombre di Bufalino); ma nessuna rievocazione del passato, soprattutto se venata di nostalgia, può avere l'efficacia ed il valore del documento fotografico.
Mestieri di una volta è un capitolo del lavoro di Barbagallo, che alla curatrice della tesi citata dichiarava significativamente: «Ho
deciso di fotografare i mestieri di una volta perché mi accorgevo che quel mondo del lavoro si andava frantumando di giorno in giorno sotto i colpi del consumismo. L'avevo cominciato come un ben ponderato lavoro di ricerca ma poi ho dovuto portarlo a termine con una grande urgenza perché ogni giorno mi sottraeva elementi essenziali»2.
Io non sono fra quelli che idealizzano la cosiddetta civiltà contadina — che nella sua realtà effettuale era, non dimentichiamolo, miseria, ignoranza, superstizione, scarsità di igiene, angustia di vita, e quindi, più propriamente: in-civiltà contadina —, per cui non guardo ai documenti di questo passato con indebita nostalgia, ma non ignoro che quel mondo aveva anche (accanto a evidenti disvalori) dei valori che, crescendo in gran copia nel tempo quelli materiali, si sono via via smarriti. Barbagallo li testimonia, cogliendoli nel loro rapido e inesorabile tramontare con una fotografia nitida, precisa, non artificiosa né pateticamente nostalgica. È il crepuscolo di un mondo che è durato secoli e che è scomparso in pochi anni, affondato dall'avanzare violento ed irresistibile del prodotto confezionato, seriale, anonimo; del consumo indotto non dalla reale necessità, ma dalla moda e dalla pubblicità al servizio del produttore, che devono incantare il consumatore e farlo sentire in continua competizione con tutti, per costringerlo a cambiare la macchina, il cellulare o il frigorifero, quando quelli che ha già sono ancora pienamente efficienti, e ad indebitarsi per farlo (così da poter poi dire, magari, che non riesce ad arrivare alla fine del mese...).
Cosa leggiamo nelle fotografie su questo tema? Anzitutto la centralità del soggetto-uomo, che reca anche fisicamente i segni di una sedimentazione secolare, il mestiere essendo la risultante di un accumulo di tecniche, esperienze, strumenti (stigghi) antichi, abilità materiali consolidate ed interiorizzate, non di rado arricchite da un'aggiunta di grazia, da un supplemento gratuito di arte, che sottrae il prodotto all'anonimato ed alla serialità e lo personalizza; quindi la perfetta identificazione dell'uomo col suo mestiere, che lo accompagna dalla prima adolescenza, quando ne ha appreso i primi rudimenti dal mastro, all'ultimo soffio di vita, senza pensionamenti anticipati, né scaloni, né finestre (per riprendere le immaginose metafore del gergo sindacal-burocratico). Era civiltà questa o lo è la nostra? Chissà, intanto qui ne abbiamo la testimonianza e l'immagine, a futura memoria.
Barbagallo mostra il volto della città e del territorio quando giganteschi fenomeni globali, come le migrazioni bibliche degli ultimi anni non ne avevano ancora trasformato profondamente il volto, intrecciandosi con le trasformazioni che gli effetti di una tardiva rivoluzione industriale e dell'aggiornarsi dei metodi di produzione agricola hanno impresso anche nel Sud. Penso che abbia fatto in tempo a registrare anche l'oggi, col suo melting pot multirazziale, multietnico e multireligioso, che secondo gli ottimisti è un prezioso arricchimento della cultura di tutte le parti in gioco e secondo i pessimisti è foriero, invece, di un imbarbarimento reciproco e di un doppio sradicamento. Immagino che l'ultimo Barbagallo stia registrando il negozio cinese, l'ambulante algerino, la badante ucraina, i rivenditori polacchi on the road di attrezzistica russo-napoletana, i braccianti magrebini, gli spacciatori rumeni o albanesi (con tutto il rispetto per i loro connazionali che non lo sono), il ramadan dei musulmani.
A questo riguardo è importante un altro filone della ricerca di Barbagallo, quello delle feste religiose. Come si sa, il tema ha attratto anche altri fotografi, ed è memorabile — non solo per il saggio di Leonardo Sciascia che la precede — la serie di fotografie che Ferdinando Scianna ha dedicato nel 1965, quindi ancora in tempi per così dire arcadici, alle Feste religiose in Sicilia3. Come scrive, spietatamente, Sciascia in risposta alla domanda che si fa su cosa sia una festa religiosa in Sicilia: la festa «è tutto, tranne che una festa religiosa. È, innanzi tutto, una esplosione esistenziale... poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di “uomo solo” per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città». L'attenzione del fotografo è perciò rivolta non solo ai riti (che costituiscono quasi soltanto l'occasione per l'esplosione esistenziale di cui parla Sciascia), ma soprattutto
ai partecipanti. E nella festa vi è anche un elemento di rappresentazione, di teatro, di travestimento, che si manifesta nelle divise
dei portatori del simulacro, negl'incappucciati penitenti, nelle vesti particolari dei devoti (a Vittoria, come si sa, il colore di San Giovanni è il rosso), negli abbigliamenti simbolici delle confraternite (di ceto, di mestiere, di specifica devozione). Tutto ciò si chiama comunemente folclore, che è in parte traduzione materiale, popolare e visibile della devozione ed in maggior parte espressione di un sentire sostanzialmente pagano e di fatto ateo, non privo di implicazioni magiche4. Ed infatti la devozione è rivolta sempre al santo, cioè all'uomo, più che all'essere divino in sé, che anzi sembra quasi rimanere in uno sfondo indecifrabile e vago: che il siciliano, ma forse non solo lui, si rivolga nelle sue preghiere al santo, e quasi mai a Dio, è attestato persino dall'espressione metaforica popolare “avere santi in paradiso”, che è usata per alludere furbescamente a protettori altolocati, in grado di influire su chi ha il potere, per cui la famosa raccomandazione dell'amico influente e l'intercessione del santo sono, in fondo, figlie della medesima cultura scettica, di chi o non ritiene sufficiente il merito in sé o — dubitando di averne — preferisce affidarsi ad altri mezzi più concreti e manipolabili.
Nell'intento di stendere, con la fotografia, un'autobiografia del territorio, Barbagallo ha sistematicamente censito e documentato le espressioni dello stile Liberty ancora rinvenibili, nonostante le non poche devastazioni, nel tessuto urbano meno recente (di quello più recente può, forse, aver registrato l'arroganza, l'ostentazione di cattivo gusto, l'improvvida caoticità, l'assenza di razionale regolamentazione, l'asociale egocentrismo...).
Com'è noto, Vittoria visse un primo, contenuto, miracolo economico nei primi decenni del Novecento quando, incuneandosi tra il popolo diseredato e le grandi famiglie degli agrari, crebbe il ruolo di una piccola e media borghesia possidente che, non potendo aspirare al palazzo signorile, cercò tuttavia di fare dell'abitazione non più soltanto un semplice e misero ricovero, ma un oggetto gradevole, amabilmente decorato. Questo bisogno si intrecciò con la diffusione, anche in periferia, per l'influsso della mediazione intelligente di grandi maestri come Basile, dei modelli artistici mitteleuropei. Ne nacque una generazioni di progettisti, di artigiani, di decoratori, che ha lasciato nel volto della città un segno particolare, del quale bisognava salvare almeno la memoria, nella speranza che se ne salvasse anche l'esistenza materiale.
Una delle particolarità del Liberty consiste, come si sa, nel fatto che questo stile non influenza solo l'architettura, ma riguarda anche la decorazione, la grafica, la pittura, la scultura, la produzione di mobili e di oggetti di uso quotidiano, per cui l'investigazione di Barbagallo si è estesa alla pittura murale, alle inferriate, ai vetri, con attenzione ai particolari più minuti. Il risultato di questo lavoro sistematico è il libro di Alfredo Campo sul Liberty a Vittoria5, del quale Barbagallo ha fornito il prezioso e indispensabile supporto illustrativo.
Identica operazione viene compiuta per il Teatro Comunale di Vittoria, al centro della ricerca di Paolo Monello su Vittoria e i suoi teatri 6.
L'attività di Barbagallo, coniugando esigenze di lavoro e vocazione documentaria, si è estesa anche ad altri àmbiti: lo sport, le manifestazioni politiche, le vicende della fiera EMAIA e della Cooperativa Rinascita, espressioni importanti della vita cittadina.
Di alcune fotografie, singolarmente significative, vorrei ancora parlare prima di chiudere questa breve nota, di cui non mi sfugge la superficialità rispetto alla complessità e vastità dell'opera di Barbagallo.
La prima è il ritratto, ormai famoso, di Francesco Giombarresi, il pittore-contadino recentemente scomparso. La foto è stata scattata nel 1970, quando la vicenda dell'eccentrico e visionario fantascienziato, inventore di congegni inutili e instancabile produttore di immagini tenere o ossessive, era quasi agli inizi, tant'è che la foto fu scattata a Comiso, nella casa (se così poteva essere chiamato il tugurio nel quale Giombarresi viveva) di via Manzoni 12, dove tante volte andai a trovarlo insieme al compianto amico Emanuele Mandarà. Delle vicende di quegli anni sono testimone privilegiato, perché fu appunto con Mandarà che andammo inizialmente a Caltanissetta, da Sciascia, per parlargli di Giombarresi e per fargli vedere i quadri che dipingeva. Avendo Sciascia mostrato sùbito interesse ed essendosi mosso autorevolmente presso un'importante galleria di Palermo per un mostra (che fu presentata da Tono Zancanaro ed ebbe immediato successo), per un po' di tempo sulla stampa, non solo isolana, tenne banco il caso del pittore-contadino. Giornalisti e telecronisti facevano capo a noi due e noi li portavamo da Giombarresi nel luogo che Barbagallo ha immortalato nel ritratto.
Ho fatto riferimento a questa fotografia sia perché è, quasi certamente, la più famosa di Barbagallo, la più esposta e la più premiata, fino a suscitare l'interesse di Fellini, che per caso la vide ad una mostra e telefonò all'autore per essere messo in contatto con il soggetto del ritratto; sia perché — avendo ben conosciuto Giombarresi — trovo che raramente un ritratto rivela, come in questo caso, la reale personalità del soggetto. Se se ne osservano attentamente i dettagli si noteranno gli elementi cui alludo. Giombarresi è ritratto nel vuoto dello sportello della porta di casa (avendo il tugurio quell'unica apertura, doveva servire da porta e da finestra). I margini dello sportello inquadrano il personaggio formando quasi una cornice, ma è una cornice che manca di un lato, quello superiore, per cui ha un effetto duplice: vorrebbe essere una cornice, ma lo è solo in modo incompiuto e, si direbbe, parodistico, in perfetta sintonia con un un personaggio che è la parodia di uno scienziato e l'inventore di marchingegni improbabili; il quale, da parte sua, sta in posa al centro della fotografia come se posasse per la foto ufficiale della cerimonia dell'attribuzione del Nobel. Per mettersi in pompa magna ha annodato accuratamente la cravatta, indossato un berretto a colori vivaci (che nel bianco e nero non si vedono, ma si intuiscono) e messo la mano sul bordo dell'apertura in modo da ostentare un anello nel quale ci si aspetterebbe di trovare lo stemma della casata. Il volto è scavato, scuro, e spicca nel contrasto con la camicia, bianchissima, cui fa da contrasto anche la massa compatta dei baffi di carbone che quasi annullano la bocca. Gli occhi sono piccoli e semichiusi, in atteggiamento vigile, come a scrutare, probabilmente persi nella visione di una fantamacchina o di un paesaggio immaginario. Le orecchie a sventola dànno all'immagine il tocco finale.
C'è ancora la fotografia dell'ubriaco steso sui gradini del Teatro Comunale di Vittoria (1967), cui Barbagallo ha dato il titolo ironico di Contestazione globale; titolo apposto negli anni in cui la rivolta universitaria ne aveva fatto uno slogan di lotta e che può essere letto in due modi: il primo è che l'emarginato, il reietto è l'espressione di un rifiuto della socialità, e dunque uno che rinnega i miti e i riti del vivere collettivo, che perciò contesta globalmente; il secondo è che questa è la vera contestazione globale, se la si vive fino in fondo, non quella dei rampolli benestanti che giocano a fare i rivoluzionari avendo alle spalle le famiglie che li mantengono mentre loro sputano nel piatto dove mangiano. Ma forse le due interpretazioni sono in fondo complementari, e non alternative.
Il personaggio è in primo piano, in atteggiamento tra disperato e svagato, mentre contempla la fedele bottiglia, forse già vuota: si sta appisolando? pensa? sogna? Una cosa è certa: i pochi passanti non si occupano di lui, sono lontani e da loro (cioè dal mondo) lo separa il bianco intenso di una piazza assolata, vuota. I cartelloni che si vedono sullo sfondo sono quelli dei manifesti elettorali, e si tratta delle elezioni regionali di quell'anno. Forse l'ubriaco ha ascoltato qualche comizio e sta cercando di ricordare se tra le tante mirabolanti promesse elettorali c'era anche quella di una distribuzione gratuita di vino...
E c'è, infine, Sole a perpendicolo, uno scatto del 1965: un rivenditore di libercoli è seduto sotto un sole implacabile, dal quale si produttore di immagini tenere o ossessive, era quasi agli inizi, tant'è che la foto fu scattata a Comiso, nella casa (se così poteva essere chiamato il tugurio nel quale Giombarresi viveva) di via Manzoni 12, dove tante volte andai a trovarlo insieme al compianto amico Emanuele Mandarà. Delle vicende di quegli anni sono testimone privilegiato, perché fu appunto con Mandarà che andammo inizialmente a Caltanissetta, da Sciascia, per parlargli di Giombarresi e per fargli vedere i quadri che dipingeva. Avendo Sciascia mostrato sùbito interesse ed essendosi mosso autorevolmente presso un'importante galleria di Palermo per un mostra (che fu presentata da Tono Zancanaro ed ebbe immediato successo), per un po' di tempo sulla stampa, non solo isolana, tenne banco il caso del pittore-contadino. Giornalisti e telecronisti facevano capo a noi due e noi li portavamo da Giombarresi nel luogo che Barbagallo ha immortalato nel ritratto.
Ho fatto riferimento a questa fotografia sia perché è, quasi certamente, la più famosa di Barbagallo, la più esposta e la più premiata, fino a suscitare l'interesse di Fellini, che per caso la vide ad una mostra e telefonò all'autore per essere messo in contatto con il soggetto del ritratto; sia perché — avendo ben conosciuto Giombarresi — trovo che raramente un ritratto rivela, come in questo caso, la reale personalità del soggetto. Se se ne osservano attentamente i dettagli si noteranno gli elementi cui alludo. Giombarresi è ritratto nel vuoto dello sportello della porta di casa (avendo il tugurio quell'unica apertura, doveva servire da porta e da finestra). I margini dello sportello inquadrano il personaggio formando quasi una cornice, ma è una cornice che manca di un lato, quello superiore, per cui ha un effetto duplice: vorrebbe essere una cornice, ma lo è solo in modo incompiuto e, si direbbe, parodistico, in perfetta sintonia con un un personaggio che è la parodia di uno scienziato e l'inventore di marchingegni improbabili; il quale, da parte sua, sta in posa al centro della fotografia come se posasse per la foto ufficiale della cerimonia dell'attribuzione del Nobel. Per mettersi in pompa magna ha annodato accuratamente la cravatta, indossato un berretto a colori vivaci (che nel bianco e nero non si vedono, ma si intuiscono) e messo la mano sul bordo dell'apertura in modo da ostentare un anello nel quale ci si aspetterebbe di trovare lo stemma della casata. Il volto è scavato, scuro, e spicca nel contrasto con la camicia, bianchissima, cui fa da contrasto anche la massa compatta dei baffi di carbone che quasi annullano la bocca. Gli occhi sono piccoli e semichiusi, in atteggiamento vigile, come a scrutare, probabilmente persi nella visione di una fantamacchina o di un paesaggio immaginario. Le orecchie a sventola dànno all'immagine il tocco finale.
produttore di immagini tenere o ossessive, era quasi agli inizi, tant'è che la foto fu scattata a Comiso, nella casa (se così poteva essere chiamato il tugurio nel quale Giombarresi viveva) di via Manzoni 12, dove tante volte andai a trovarlo insieme al compianto amico Emanuele Mandarà. Delle vicende di quegli anni sono testimone privilegiato, perché fu appunto con Mandarà che andammo inizialmente a Caltanissetta, da Sciascia, per parlargli di Giombarresi e per fargli vedere i quadri che dipingeva. Avendo Sciascia mostrato sùbito interesse ed essendosi mosso autorevolmente presso un'importante galleria di Palermo per un mostra (che fu presentata da Tono Zancanaro ed ebbe immediato successo), per un po' di tempo sulla stampa, non solo isolana, tenne banco il caso del pittore-contadino. Giornalisti e telecronisti facevano capo a noi due e noi li portavamo da Giombarresi nel luogo che Barbagallo ha immortalato nel ritratto.
Ho fatto riferimento a questa fotografia sia perché è, quasi certamente, la più famosa di Barbagallo, la più esposta e la più premiata, fino a suscitare l'interesse di Fellini, che per caso la vide ad una mostra e telefonò all'autore per essere messo in contatto con il soggetto del ritratto; sia perché — avendo ben conosciuto Giombarresi — trovo che raramente un ritratto rivela, come in questo caso, la reale personalità del soggetto. Se se ne osservano attentamente i dettagli si noteranno gli elementi cui alludo. Giombarresi è ritratto nel vuoto dello sportello della porta di casa (avendo il tugurio quell'unica apertura, doveva servire da porta e da finestra). I margini dello sportello inquadrano il personaggio formando quasi una cornice, ma è una cornice che manca di un lato, quello superiore, per cui ha un effetto duplice: vorrebbe essere una cornice, ma lo è solo in modo incompiuto e, si direbbe, parodistico, in perfetta sintonia con un un personaggio che è la parodia di uno scienziato e l'inventore di marchingegni improbabili; il quale, da parte sua, sta in posa al centro della fotografia come se posasse per la foto ufficiale della cerimonia dell'attribuzione del Nobel. Per mettersi in pompa magna ha annodato accuratamente la cravatta, indossato un berretto a colori vivaci (che nel bianco e nero non si vedono, ma si intuiscono) e messo la mano sul bordo dell'apertura in modo da ostentare un anello nel quale ci si aspetterebbe di trovare lo stemma della casata. Il volto è scavato, scuro, e spicca nel contrasto con la camicia, bianchissima, cui fa da contrasto anche la massa compatta dei baffi di carbone che quasi annullano la bocca. Gli occhi sono piccoli e semichiusi, in atteggiamento vigile, come a scrutare, probabilmente persi nella visione di una fantamacchina o di un paesaggio immaginario. Le orecchie a sventola dànno all'immagine il tocco finale.
C'è ancora la fotografia dell'ubriaco steso sui gradini del Teatro Comunale di Vittoria (1967), cui Barbagallo ha dato il titolo ironico di Contestazione globale; titolo apposto negli anni in cui la rivolta universitaria ne aveva fatto uno slogan di lotta e che può essere letto in due modi: il primo è che l'emarginato, il reietto è l'espressione di un rifiuto della socialità, e dunque uno che rinnega i miti e i riti del vivere collettivo, che perciò contesta globalmente; il secondo è che questa è la vera contestazione globale, se la si vive fino in fondo, non quella dei rampolli benestanti che giocano a fare i rivoluzionari avendo alle spalle le famiglie che li mantengono mentre loro sputano nel piatto dove mangiano. Ma forse le due interpretazioni sono in fondo complementari, e non alternative.
Il personaggio è in primo piano, in atteggiamento tra disperato e svagato, mentre contempla la fedele bottiglia, forse già vuota: si sta appisolando? pensa? sogna? Una cosa è certa: i pochi passanti non si occupano di lui, sono lontani e da loro (cioè dal mondo) lo separa il bianco intenso di una piazza assolata, vuota. I cartelloni che si vedono sullo sfondo sono quelli dei manifesti elettorali, e si tratta delle elezioni regionali di quell'anno. Forse l'ubriaco ha ascoltato qualche comizio e sta cercando di ricordare se tra le tante mirabolanti promesse elettorali c'era anche quella di una distribuzione gratuita di vino...
E c'è, infine, Sole a perpendicolo, uno scatto del 1965: un rivenditore di libercoli è seduto sotto un sole implacabile, dal quale si ripara con un foglio di carta da imballaggio (quello stesso, probabilmente, col quale avvolge i libri quando li ritira dall'esposizione). La piazza è deserta, salvo un uomo poco distante, fermo accanto alla sua bicicletta, del tutto indifferente ed incurante della improvvisata bancarella del “libraio”, che l'ha realizzata appoggiando degli assi su due sedie. Se il sole è a perpendicolo è perché, certamente, siamo in estate e sono le ore centrali della giornata, come risulta a anche dal fatto che in giro non si vede nessuno. L'uomo, accaldato e rassegnato, aspetta che gli abitanti finiscano di pranzare o di riposare; nel frattempo legge, forse uno dei suoi libri. E poiché tra quelli esposti l'unico del quale si possa decifrare il titolo è I miserabili, quella che ha in mano potrebbe essere proprio un'altra copia del romanzo di Hugo: in tal caso è probabile che il povero “libraio” sia tentato di trasformarne il titolo, tra sé e sé, in un silenzioso, disperato vituperio indirizzato ai lettori latitanti...
La composizione della fotografia è perfetta: il taglio, la posizione del soggetto, le ombre, la piazza deserta, il personaggio con bicicletta, estraneo al racconto, ma importante nella scenografia dell'insieme e nella scansione degli spazi. E questi libri senza lettori che, ahimé, rischiano di rimanere come l'emblema negativo della città.
Giuseppe Angelo Trania
Tony Barbagallo
è nato a Bologna nel 1936, dal dopo guerra, nel 1948, si trasferisce in Sicilia a Vittoria; dove vive e lavora tutt’ora. Coetaneo e amico di Giuseppe Leone ha iniziato a fotografare nel 1955.
All’inizio degli anni Settanta gli è stato conferito il titolo di A.F.I.A.P. (Artista della Federazione Internazionale Associazione Photographique).
È stato invitato, in Italia e all’estero, a partecipare a molte mostre e ha conseguito numerosi premi di fotografia.
Collabora come fotoreporter al quotidiano La Sicilia. Sue fotografie sono state pubblicate su: Il Giornale di Sicilia, Il Tempo, Amica, La Domenica del Corriere, Stop, La Gazzetta della Fotografia, Fotopratica, Photographi Italiana, Tutti Fotografi, Epoca, L’Ora, Paris Match, La Cucina Italiana, Fotografare, I Mediterranei, Etna Territorio e sul mensile de La Provincia di Ragusa.
ArteContemporaneaEsposizioni, ospiteranno la prima di una serie di mostre.
Tony Barbagallo | Le mappe del mondo a cura di Luciano D'amico.
Sarà esposta un’antologica Fotografica di Tony Barbagallo. Noto foto reporter siciliano.
L’esposizione rimarrà aperta fino al 24 maggio 2009.
dal testo critico di Giuseppe Angelo Traina:
L’arte ovvero l’uomo-merce disvelato
conosco Tony Barbagallo da oltre mezzo secolo, si può dire da quando ha cominciato la sua attività di fotografo, nella quale ha realizzato una perfetta sintesi — purtroppo non frequente — tra mestiere e passione: il mestiere gli ha dato da vivere, ma gli ha offerto anche l'esperienza e gli strumenti tecnici per dare sfogo alla passione, e questa lo ha sostenuto nello svolgere il mestiere.
Giunto ad un'età in cui si fanno consuntivi e bilanci, Barbagallo ha messo insieme quello che gli è parso il meglio del suo lavoro e lo offre al pubblico in una mostra antologica. Le sue cose hanno già subìto il vaglio di esperti in occasione delle numerose rassegne alle quali ha partecipato ottenendo significativi riconoscimenti. Si può così ricostruire il percorso del suo lavoro ormai semisecolare.
Tra le molte tendenze della fotografia moderna non c'è dubbio che Barbagallo abbia scelto di iscriversi nel filone della fotografia di testimonianza e di documentazione: il suo è pertanto soprattutto un documento, tecnicamente accurato, stilisticamente ineccepibile; ma soprattutto un documento, al centro del quale c'è l'evento o il personaggio, senza inutili sbavature e senza altro intento che cogliere l'evento o il personaggio nella loro realtà, specificità e storicità. Si potrebbe dire che l'intervento dell'autore consista proprio nel non mostrarsi, restando celato, e non sovrapporsi al dato reale.
Fotografando persone, luoghi, situazioni ed eventi della sua città e del territorio, con qualche incursione nei territori vicini, Barbagallo ha dato al complesso della sua opera, forse senza avere piena consapevolezza della portata della cosa, un taglio che non esiterei a definire storiografico, oltre che etno-antropologico. Leggo in una tesi di laurea monografica, che gli è stata dedicata dalla dott.ssa Viviana Mauro presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma1, che il suo archivio comprendeva, già cinque anni fa, più di cinquantamila negativi e trentamila diapositive e penso che, se fosse realistica l'idea — che mi viene suggerita dall'utopia borgesiana di una mappa del mondo così precisa da avere le stesse dimensioni del mondo — di far diventare l'archivio un'opera in ottanta volumi di mille pagine l'uno (che avrebbe perciò una mole superiore all'Enciclopedia Treccani!), ne risulterebbe una interminabile e minuziosa descrizione del territorio, delle sue vicende e dei suoi abitanti lungo l'arco dei cinquant'anni nei quali Barbagallo li ha osservati, testimoniati e storicizzati. È ovvio che questo testo monumentale non sarà mai pubblicato (almeno nella sua interezza), ma resta il fatto che l'archivio c'è e potrà essere, in futuro, una fonte importante di infinite notizie. Sempreché ovviamente, quando — il più tardi possibile — non ci sarà più Barbagallo. a custodirlo, sia affidato ad una istituzione che non lo rèleghi in qualche magazzino umido a marcire. Mi auguro proprio che ciò non avvenga, ma — ben conoscendo la lungimiranza di chi dirige in Italia la politica dei beni culturali —, pur sperando di non essere buon profeta, non posso che
esprimere il più desolato pessimismo.
E in questo immenso corpus fotografico da salvare non comprendo soltanto le fotografie realizzate con intenti per così dire creativi, che mi rendo conto costituiscano per l'autore la parte più artisticamente gratificante, ma anche tutto il resto, giacché il valore documentario riguarda anche i servizi per cerimonie private, quelle per le quali normalmente si incarica un fotografo allo scopo pratico di avere un ricordo di famiglia. E penso, per fare un solo esempio, a quella serie di scatti che Barbagallo eseguì negli Anni Cinquanta e che avevano come soggetto funerali; fotografie che vennero eseguite perché i parenti dei defunti, residenti in America, non potevano presenziare, dato che i mezzi di trasporto non avevano la diffusione, la velocità e i costi di oggi. Ecco un caso da manuale di eterogenesi dei fini: un'operazione compiuta con una finalità pratica e soggettiva ben precisa, che finisce con l'avere una valenza storico-documentaria oggettiva assolutamente non prevista né immaginata da chi l'ha promossa. La lettura critica di una suite fotografica di questa natura ci fornisce, infatti, strumenti di analisi etno-antropologica di straordinario significato. Non a caso, infatti, gli usi funerari sono uno dei settori più importanti dell'antropologia e alla loro documentazione storica, specie tra il Sei e il Settecento, sono state dedicate preziose opere illustrate con incisioni di grande pregio.
È bastato che passasse mezzo secolo perché, a studiare oggi questa documentazione fotografica, ci si prospetti una società profondamente mutata. A me sembra già un dato interessante quest'uso, per così dire, succedaneo della fotografia: poiché l'emigrato non poteva essere presente fisicamente, come avrebbe dovuto e voluto, alle esequie del famigliare defunto, sostituiva all'evento mancato la sua rappresentazione. Io non credo che farsi mandare le fotografie del funerale servisse a soddisfare una curiosità (che sarebbe stata, peraltro, quasi irriverente), ma piuttosto a creare simbolicamente una presenza immaginaria, a risarcire quella che veniva sentita come una sia pur involontaria mancanza di attenzione e di rispetto verso il defunto: l'emigrato poteva così riversare, da lontano, sulla fotografia le lacrime che avrebbe pianto sulla bara, poteva baciarla come avrebbe baciato la bara.
Ma questi sono rilievi che riguardano la natura e la motivazione dell'operazione. C'è poi l'aspetto più intrinsecamente documentario, legato alle immagini, con la loro immediata eloquenza: l'organizzazione del corteo funebre, il percorso seguìto, l'abbigliamento e gli atteggiamenti dei partecipanti. Mi fermo qui, avendo voluto solo suggerire qualche esempio della molteplicità di letture che il dato documentario offre, specie quando — come nel caso della fotografia — non è manipolato dalla soggettività dell'autore. Questo ha del resto, sempre, di specifico qualsiasi documento: di offrirsi al ricercatore come materia prima di cui possono farsi molteplici usi.
Dalla metà del secolo scorso ad oggi Barbagallo ha vissuto — come tutti quelli che abbiamo, più o meno, la sua età — la trasformazione della società, della città e del territorio: ha visto tramontare usi, mestieri, modelli, consumi, vita materiale, modi di produrre. Un po' dappertutto, negli ultimi decenni, persone di una certa età si sono messe a raccontare com'erano i loro tempi, avendo avuto modo di sperimentare, nell'arco della propria esperienza di vita, il salto tra un passato non lontanissimo e il presente così rapidamente e profondamente mutato. Ne è nato un filone memorialistico di opere che spesso sono una semplice raccolta disorganica e ripetitiva di aneddoti, profili umani, modi di dire e proverbi (tutto pur sempre non privo di interesse), solo qualche volta sollevandosi a gradini più elevati (ed uno degli esempi più pregevoli è, ovviamente, il Museo d'ombre di Bufalino); ma nessuna rievocazione del passato, soprattutto se venata di nostalgia, può avere l'efficacia ed il valore del documento fotografico.
Mestieri di una volta è un capitolo del lavoro di Barbagallo, che alla curatrice della tesi citata dichiarava significativamente: «Ho
deciso di fotografare i mestieri di una volta perché mi accorgevo che quel mondo del lavoro si andava frantumando di giorno in giorno sotto i colpi del consumismo. L'avevo cominciato come un ben ponderato lavoro di ricerca ma poi ho dovuto portarlo a termine con una grande urgenza perché ogni giorno mi sottraeva elementi essenziali»2.
Io non sono fra quelli che idealizzano la cosiddetta civiltà contadina — che nella sua realtà effettuale era, non dimentichiamolo, miseria, ignoranza, superstizione, scarsità di igiene, angustia di vita, e quindi, più propriamente: in-civiltà contadina —, per cui non guardo ai documenti di questo passato con indebita nostalgia, ma non ignoro che quel mondo aveva anche (accanto a evidenti disvalori) dei valori che, crescendo in gran copia nel tempo quelli materiali, si sono via via smarriti. Barbagallo li testimonia, cogliendoli nel loro rapido e inesorabile tramontare con una fotografia nitida, precisa, non artificiosa né pateticamente nostalgica. È il crepuscolo di un mondo che è durato secoli e che è scomparso in pochi anni, affondato dall'avanzare violento ed irresistibile del prodotto confezionato, seriale, anonimo; del consumo indotto non dalla reale necessità, ma dalla moda e dalla pubblicità al servizio del produttore, che devono incantare il consumatore e farlo sentire in continua competizione con tutti, per costringerlo a cambiare la macchina, il cellulare o il frigorifero, quando quelli che ha già sono ancora pienamente efficienti, e ad indebitarsi per farlo (così da poter poi dire, magari, che non riesce ad arrivare alla fine del mese...).
Cosa leggiamo nelle fotografie su questo tema? Anzitutto la centralità del soggetto-uomo, che reca anche fisicamente i segni di una sedimentazione secolare, il mestiere essendo la risultante di un accumulo di tecniche, esperienze, strumenti (stigghi) antichi, abilità materiali consolidate ed interiorizzate, non di rado arricchite da un'aggiunta di grazia, da un supplemento gratuito di arte, che sottrae il prodotto all'anonimato ed alla serialità e lo personalizza; quindi la perfetta identificazione dell'uomo col suo mestiere, che lo accompagna dalla prima adolescenza, quando ne ha appreso i primi rudimenti dal mastro, all'ultimo soffio di vita, senza pensionamenti anticipati, né scaloni, né finestre (per riprendere le immaginose metafore del gergo sindacal-burocratico). Era civiltà questa o lo è la nostra? Chissà, intanto qui ne abbiamo la testimonianza e l'immagine, a futura memoria.
Barbagallo mostra il volto della città e del territorio quando giganteschi fenomeni globali, come le migrazioni bibliche degli ultimi anni non ne avevano ancora trasformato profondamente il volto, intrecciandosi con le trasformazioni che gli effetti di una tardiva rivoluzione industriale e dell'aggiornarsi dei metodi di produzione agricola hanno impresso anche nel Sud. Penso che abbia fatto in tempo a registrare anche l'oggi, col suo melting pot multirazziale, multietnico e multireligioso, che secondo gli ottimisti è un prezioso arricchimento della cultura di tutte le parti in gioco e secondo i pessimisti è foriero, invece, di un imbarbarimento reciproco e di un doppio sradicamento. Immagino che l'ultimo Barbagallo stia registrando il negozio cinese, l'ambulante algerino, la badante ucraina, i rivenditori polacchi on the road di attrezzistica russo-napoletana, i braccianti magrebini, gli spacciatori rumeni o albanesi (con tutto il rispetto per i loro connazionali che non lo sono), il ramadan dei musulmani.
A questo riguardo è importante un altro filone della ricerca di Barbagallo, quello delle feste religiose. Come si sa, il tema ha attratto anche altri fotografi, ed è memorabile — non solo per il saggio di Leonardo Sciascia che la precede — la serie di fotografie che Ferdinando Scianna ha dedicato nel 1965, quindi ancora in tempi per così dire arcadici, alle Feste religiose in Sicilia3. Come scrive, spietatamente, Sciascia in risposta alla domanda che si fa su cosa sia una festa religiosa in Sicilia: la festa «è tutto, tranne che una festa religiosa. È, innanzi tutto, una esplosione esistenziale... poiché è soltanto nella festa che il siciliano esce dalla sua condizione di “uomo solo” per ritrovarsi parte di un ceto, di una classe, di una città». L'attenzione del fotografo è perciò rivolta non solo ai riti (che costituiscono quasi soltanto l'occasione per l'esplosione esistenziale di cui parla Sciascia), ma soprattutto
ai partecipanti. E nella festa vi è anche un elemento di rappresentazione, di teatro, di travestimento, che si manifesta nelle divise
dei portatori del simulacro, negl'incappucciati penitenti, nelle vesti particolari dei devoti (a Vittoria, come si sa, il colore di San Giovanni è il rosso), negli abbigliamenti simbolici delle confraternite (di ceto, di mestiere, di specifica devozione). Tutto ciò si chiama comunemente folclore, che è in parte traduzione materiale, popolare e visibile della devozione ed in maggior parte espressione di un sentire sostanzialmente pagano e di fatto ateo, non privo di implicazioni magiche4. Ed infatti la devozione è rivolta sempre al santo, cioè all'uomo, più che all'essere divino in sé, che anzi sembra quasi rimanere in uno sfondo indecifrabile e vago: che il siciliano, ma forse non solo lui, si rivolga nelle sue preghiere al santo, e quasi mai a Dio, è attestato persino dall'espressione metaforica popolare “avere santi in paradiso”, che è usata per alludere furbescamente a protettori altolocati, in grado di influire su chi ha il potere, per cui la famosa raccomandazione dell'amico influente e l'intercessione del santo sono, in fondo, figlie della medesima cultura scettica, di chi o non ritiene sufficiente il merito in sé o — dubitando di averne — preferisce affidarsi ad altri mezzi più concreti e manipolabili.
Nell'intento di stendere, con la fotografia, un'autobiografia del territorio, Barbagallo ha sistematicamente censito e documentato le espressioni dello stile Liberty ancora rinvenibili, nonostante le non poche devastazioni, nel tessuto urbano meno recente (di quello più recente può, forse, aver registrato l'arroganza, l'ostentazione di cattivo gusto, l'improvvida caoticità, l'assenza di razionale regolamentazione, l'asociale egocentrismo...).
Com'è noto, Vittoria visse un primo, contenuto, miracolo economico nei primi decenni del Novecento quando, incuneandosi tra il popolo diseredato e le grandi famiglie degli agrari, crebbe il ruolo di una piccola e media borghesia possidente che, non potendo aspirare al palazzo signorile, cercò tuttavia di fare dell'abitazione non più soltanto un semplice e misero ricovero, ma un oggetto gradevole, amabilmente decorato. Questo bisogno si intrecciò con la diffusione, anche in periferia, per l'influsso della mediazione intelligente di grandi maestri come Basile, dei modelli artistici mitteleuropei. Ne nacque una generazioni di progettisti, di artigiani, di decoratori, che ha lasciato nel volto della città un segno particolare, del quale bisognava salvare almeno la memoria, nella speranza che se ne salvasse anche l'esistenza materiale.
Una delle particolarità del Liberty consiste, come si sa, nel fatto che questo stile non influenza solo l'architettura, ma riguarda anche la decorazione, la grafica, la pittura, la scultura, la produzione di mobili e di oggetti di uso quotidiano, per cui l'investigazione di Barbagallo si è estesa alla pittura murale, alle inferriate, ai vetri, con attenzione ai particolari più minuti. Il risultato di questo lavoro sistematico è il libro di Alfredo Campo sul Liberty a Vittoria5, del quale Barbagallo ha fornito il prezioso e indispensabile supporto illustrativo.
Identica operazione viene compiuta per il Teatro Comunale di Vittoria, al centro della ricerca di Paolo Monello su Vittoria e i suoi teatri 6.
L'attività di Barbagallo, coniugando esigenze di lavoro e vocazione documentaria, si è estesa anche ad altri àmbiti: lo sport, le manifestazioni politiche, le vicende della fiera EMAIA e della Cooperativa Rinascita, espressioni importanti della vita cittadina.
Di alcune fotografie, singolarmente significative, vorrei ancora parlare prima di chiudere questa breve nota, di cui non mi sfugge la superficialità rispetto alla complessità e vastità dell'opera di Barbagallo.
La prima è il ritratto, ormai famoso, di Francesco Giombarresi, il pittore-contadino recentemente scomparso. La foto è stata scattata nel 1970, quando la vicenda dell'eccentrico e visionario fantascienziato, inventore di congegni inutili e instancabile produttore di immagini tenere o ossessive, era quasi agli inizi, tant'è che la foto fu scattata a Comiso, nella casa (se così poteva essere chiamato il tugurio nel quale Giombarresi viveva) di via Manzoni 12, dove tante volte andai a trovarlo insieme al compianto amico Emanuele Mandarà. Delle vicende di quegli anni sono testimone privilegiato, perché fu appunto con Mandarà che andammo inizialmente a Caltanissetta, da Sciascia, per parlargli di Giombarresi e per fargli vedere i quadri che dipingeva. Avendo Sciascia mostrato sùbito interesse ed essendosi mosso autorevolmente presso un'importante galleria di Palermo per un mostra (che fu presentata da Tono Zancanaro ed ebbe immediato successo), per un po' di tempo sulla stampa, non solo isolana, tenne banco il caso del pittore-contadino. Giornalisti e telecronisti facevano capo a noi due e noi li portavamo da Giombarresi nel luogo che Barbagallo ha immortalato nel ritratto.
Ho fatto riferimento a questa fotografia sia perché è, quasi certamente, la più famosa di Barbagallo, la più esposta e la più premiata, fino a suscitare l'interesse di Fellini, che per caso la vide ad una mostra e telefonò all'autore per essere messo in contatto con il soggetto del ritratto; sia perché — avendo ben conosciuto Giombarresi — trovo che raramente un ritratto rivela, come in questo caso, la reale personalità del soggetto. Se se ne osservano attentamente i dettagli si noteranno gli elementi cui alludo. Giombarresi è ritratto nel vuoto dello sportello della porta di casa (avendo il tugurio quell'unica apertura, doveva servire da porta e da finestra). I margini dello sportello inquadrano il personaggio formando quasi una cornice, ma è una cornice che manca di un lato, quello superiore, per cui ha un effetto duplice: vorrebbe essere una cornice, ma lo è solo in modo incompiuto e, si direbbe, parodistico, in perfetta sintonia con un un personaggio che è la parodia di uno scienziato e l'inventore di marchingegni improbabili; il quale, da parte sua, sta in posa al centro della fotografia come se posasse per la foto ufficiale della cerimonia dell'attribuzione del Nobel. Per mettersi in pompa magna ha annodato accuratamente la cravatta, indossato un berretto a colori vivaci (che nel bianco e nero non si vedono, ma si intuiscono) e messo la mano sul bordo dell'apertura in modo da ostentare un anello nel quale ci si aspetterebbe di trovare lo stemma della casata. Il volto è scavato, scuro, e spicca nel contrasto con la camicia, bianchissima, cui fa da contrasto anche la massa compatta dei baffi di carbone che quasi annullano la bocca. Gli occhi sono piccoli e semichiusi, in atteggiamento vigile, come a scrutare, probabilmente persi nella visione di una fantamacchina o di un paesaggio immaginario. Le orecchie a sventola dànno all'immagine il tocco finale.
C'è ancora la fotografia dell'ubriaco steso sui gradini del Teatro Comunale di Vittoria (1967), cui Barbagallo ha dato il titolo ironico di Contestazione globale; titolo apposto negli anni in cui la rivolta universitaria ne aveva fatto uno slogan di lotta e che può essere letto in due modi: il primo è che l'emarginato, il reietto è l'espressione di un rifiuto della socialità, e dunque uno che rinnega i miti e i riti del vivere collettivo, che perciò contesta globalmente; il secondo è che questa è la vera contestazione globale, se la si vive fino in fondo, non quella dei rampolli benestanti che giocano a fare i rivoluzionari avendo alle spalle le famiglie che li mantengono mentre loro sputano nel piatto dove mangiano. Ma forse le due interpretazioni sono in fondo complementari, e non alternative.
Il personaggio è in primo piano, in atteggiamento tra disperato e svagato, mentre contempla la fedele bottiglia, forse già vuota: si sta appisolando? pensa? sogna? Una cosa è certa: i pochi passanti non si occupano di lui, sono lontani e da loro (cioè dal mondo) lo separa il bianco intenso di una piazza assolata, vuota. I cartelloni che si vedono sullo sfondo sono quelli dei manifesti elettorali, e si tratta delle elezioni regionali di quell'anno. Forse l'ubriaco ha ascoltato qualche comizio e sta cercando di ricordare se tra le tante mirabolanti promesse elettorali c'era anche quella di una distribuzione gratuita di vino...
E c'è, infine, Sole a perpendicolo, uno scatto del 1965: un rivenditore di libercoli è seduto sotto un sole implacabile, dal quale si produttore di immagini tenere o ossessive, era quasi agli inizi, tant'è che la foto fu scattata a Comiso, nella casa (se così poteva essere chiamato il tugurio nel quale Giombarresi viveva) di via Manzoni 12, dove tante volte andai a trovarlo insieme al compianto amico Emanuele Mandarà. Delle vicende di quegli anni sono testimone privilegiato, perché fu appunto con Mandarà che andammo inizialmente a Caltanissetta, da Sciascia, per parlargli di Giombarresi e per fargli vedere i quadri che dipingeva. Avendo Sciascia mostrato sùbito interesse ed essendosi mosso autorevolmente presso un'importante galleria di Palermo per un mostra (che fu presentata da Tono Zancanaro ed ebbe immediato successo), per un po' di tempo sulla stampa, non solo isolana, tenne banco il caso del pittore-contadino. Giornalisti e telecronisti facevano capo a noi due e noi li portavamo da Giombarresi nel luogo che Barbagallo ha immortalato nel ritratto.
Ho fatto riferimento a questa fotografia sia perché è, quasi certamente, la più famosa di Barbagallo, la più esposta e la più premiata, fino a suscitare l'interesse di Fellini, che per caso la vide ad una mostra e telefonò all'autore per essere messo in contatto con il soggetto del ritratto; sia perché — avendo ben conosciuto Giombarresi — trovo che raramente un ritratto rivela, come in questo caso, la reale personalità del soggetto. Se se ne osservano attentamente i dettagli si noteranno gli elementi cui alludo. Giombarresi è ritratto nel vuoto dello sportello della porta di casa (avendo il tugurio quell'unica apertura, doveva servire da porta e da finestra). I margini dello sportello inquadrano il personaggio formando quasi una cornice, ma è una cornice che manca di un lato, quello superiore, per cui ha un effetto duplice: vorrebbe essere una cornice, ma lo è solo in modo incompiuto e, si direbbe, parodistico, in perfetta sintonia con un un personaggio che è la parodia di uno scienziato e l'inventore di marchingegni improbabili; il quale, da parte sua, sta in posa al centro della fotografia come se posasse per la foto ufficiale della cerimonia dell'attribuzione del Nobel. Per mettersi in pompa magna ha annodato accuratamente la cravatta, indossato un berretto a colori vivaci (che nel bianco e nero non si vedono, ma si intuiscono) e messo la mano sul bordo dell'apertura in modo da ostentare un anello nel quale ci si aspetterebbe di trovare lo stemma della casata. Il volto è scavato, scuro, e spicca nel contrasto con la camicia, bianchissima, cui fa da contrasto anche la massa compatta dei baffi di carbone che quasi annullano la bocca. Gli occhi sono piccoli e semichiusi, in atteggiamento vigile, come a scrutare, probabilmente persi nella visione di una fantamacchina o di un paesaggio immaginario. Le orecchie a sventola dànno all'immagine il tocco finale.
produttore di immagini tenere o ossessive, era quasi agli inizi, tant'è che la foto fu scattata a Comiso, nella casa (se così poteva essere chiamato il tugurio nel quale Giombarresi viveva) di via Manzoni 12, dove tante volte andai a trovarlo insieme al compianto amico Emanuele Mandarà. Delle vicende di quegli anni sono testimone privilegiato, perché fu appunto con Mandarà che andammo inizialmente a Caltanissetta, da Sciascia, per parlargli di Giombarresi e per fargli vedere i quadri che dipingeva. Avendo Sciascia mostrato sùbito interesse ed essendosi mosso autorevolmente presso un'importante galleria di Palermo per un mostra (che fu presentata da Tono Zancanaro ed ebbe immediato successo), per un po' di tempo sulla stampa, non solo isolana, tenne banco il caso del pittore-contadino. Giornalisti e telecronisti facevano capo a noi due e noi li portavamo da Giombarresi nel luogo che Barbagallo ha immortalato nel ritratto.
Ho fatto riferimento a questa fotografia sia perché è, quasi certamente, la più famosa di Barbagallo, la più esposta e la più premiata, fino a suscitare l'interesse di Fellini, che per caso la vide ad una mostra e telefonò all'autore per essere messo in contatto con il soggetto del ritratto; sia perché — avendo ben conosciuto Giombarresi — trovo che raramente un ritratto rivela, come in questo caso, la reale personalità del soggetto. Se se ne osservano attentamente i dettagli si noteranno gli elementi cui alludo. Giombarresi è ritratto nel vuoto dello sportello della porta di casa (avendo il tugurio quell'unica apertura, doveva servire da porta e da finestra). I margini dello sportello inquadrano il personaggio formando quasi una cornice, ma è una cornice che manca di un lato, quello superiore, per cui ha un effetto duplice: vorrebbe essere una cornice, ma lo è solo in modo incompiuto e, si direbbe, parodistico, in perfetta sintonia con un un personaggio che è la parodia di uno scienziato e l'inventore di marchingegni improbabili; il quale, da parte sua, sta in posa al centro della fotografia come se posasse per la foto ufficiale della cerimonia dell'attribuzione del Nobel. Per mettersi in pompa magna ha annodato accuratamente la cravatta, indossato un berretto a colori vivaci (che nel bianco e nero non si vedono, ma si intuiscono) e messo la mano sul bordo dell'apertura in modo da ostentare un anello nel quale ci si aspetterebbe di trovare lo stemma della casata. Il volto è scavato, scuro, e spicca nel contrasto con la camicia, bianchissima, cui fa da contrasto anche la massa compatta dei baffi di carbone che quasi annullano la bocca. Gli occhi sono piccoli e semichiusi, in atteggiamento vigile, come a scrutare, probabilmente persi nella visione di una fantamacchina o di un paesaggio immaginario. Le orecchie a sventola dànno all'immagine il tocco finale.
C'è ancora la fotografia dell'ubriaco steso sui gradini del Teatro Comunale di Vittoria (1967), cui Barbagallo ha dato il titolo ironico di Contestazione globale; titolo apposto negli anni in cui la rivolta universitaria ne aveva fatto uno slogan di lotta e che può essere letto in due modi: il primo è che l'emarginato, il reietto è l'espressione di un rifiuto della socialità, e dunque uno che rinnega i miti e i riti del vivere collettivo, che perciò contesta globalmente; il secondo è che questa è la vera contestazione globale, se la si vive fino in fondo, non quella dei rampolli benestanti che giocano a fare i rivoluzionari avendo alle spalle le famiglie che li mantengono mentre loro sputano nel piatto dove mangiano. Ma forse le due interpretazioni sono in fondo complementari, e non alternative.
Il personaggio è in primo piano, in atteggiamento tra disperato e svagato, mentre contempla la fedele bottiglia, forse già vuota: si sta appisolando? pensa? sogna? Una cosa è certa: i pochi passanti non si occupano di lui, sono lontani e da loro (cioè dal mondo) lo separa il bianco intenso di una piazza assolata, vuota. I cartelloni che si vedono sullo sfondo sono quelli dei manifesti elettorali, e si tratta delle elezioni regionali di quell'anno. Forse l'ubriaco ha ascoltato qualche comizio e sta cercando di ricordare se tra le tante mirabolanti promesse elettorali c'era anche quella di una distribuzione gratuita di vino...
E c'è, infine, Sole a perpendicolo, uno scatto del 1965: un rivenditore di libercoli è seduto sotto un sole implacabile, dal quale si ripara con un foglio di carta da imballaggio (quello stesso, probabilmente, col quale avvolge i libri quando li ritira dall'esposizione). La piazza è deserta, salvo un uomo poco distante, fermo accanto alla sua bicicletta, del tutto indifferente ed incurante della improvvisata bancarella del “libraio”, che l'ha realizzata appoggiando degli assi su due sedie. Se il sole è a perpendicolo è perché, certamente, siamo in estate e sono le ore centrali della giornata, come risulta a anche dal fatto che in giro non si vede nessuno. L'uomo, accaldato e rassegnato, aspetta che gli abitanti finiscano di pranzare o di riposare; nel frattempo legge, forse uno dei suoi libri. E poiché tra quelli esposti l'unico del quale si possa decifrare il titolo è I miserabili, quella che ha in mano potrebbe essere proprio un'altra copia del romanzo di Hugo: in tal caso è probabile che il povero “libraio” sia tentato di trasformarne il titolo, tra sé e sé, in un silenzioso, disperato vituperio indirizzato ai lettori latitanti...
La composizione della fotografia è perfetta: il taglio, la posizione del soggetto, le ombre, la piazza deserta, il personaggio con bicicletta, estraneo al racconto, ma importante nella scenografia dell'insieme e nella scansione degli spazi. E questi libri senza lettori che, ahimé, rischiano di rimanere come l'emblema negativo della città.
Giuseppe Angelo Trania
Tony Barbagallo
è nato a Bologna nel 1936, dal dopo guerra, nel 1948, si trasferisce in Sicilia a Vittoria; dove vive e lavora tutt’ora. Coetaneo e amico di Giuseppe Leone ha iniziato a fotografare nel 1955.
All’inizio degli anni Settanta gli è stato conferito il titolo di A.F.I.A.P. (Artista della Federazione Internazionale Associazione Photographique).
È stato invitato, in Italia e all’estero, a partecipare a molte mostre e ha conseguito numerosi premi di fotografia.
Collabora come fotoreporter al quotidiano La Sicilia. Sue fotografie sono state pubblicate su: Il Giornale di Sicilia, Il Tempo, Amica, La Domenica del Corriere, Stop, La Gazzetta della Fotografia, Fotopratica, Photographi Italiana, Tutti Fotografi, Epoca, L’Ora, Paris Match, La Cucina Italiana, Fotografare, I Mediterranei, Etna Territorio e sul mensile de La Provincia di Ragusa.
09
maggio 2009
Tony Barbagallo – Le mappe del mondo
Dal 09 al 24 maggio 2009
fotografia
Location
ACE – ANTICA CENTRALE ELETTRICA – ARTE CONTEMPORANEA ESPOSIZIONI
Vittoria, P.zza Enriquez, (Ragusa)
Vittoria, P.zza Enriquez, (Ragusa)
Orario di apertura
da martedì a domenica dalle 10 alle 13 – dalle 17 alle 20
Vernissage
9 Maggio 2009, ore 18
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