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Tony Prayer
Già sensibile interprete delle periferie urbane e del loro vissuto antropologico, nell’ultimo decennio Prayer si avvicina progressivamente al genere del paesaggio, ma lo fa a modo suo…Discorso dominante è l’ulivo
Comunicato stampa
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}Già sensibile interprete delle periferie urbane e del loro vissuto antropologico, nell’ultimo decennio Prayer si avvicina progressivamente al genere del paesaggio, ma lo fa a modo suo. (…)
Discorso dominante è l’ulivo.
Nel Novecento l’immagine dell’ulivo connota – a preferenza della vite e dell’uva - l’identità stessa della regione. Nel ’22 Cangiullo – a Bari per una serata futurista – evoca “l’oceano verderame degli ulivi / in cui navigano i treni delle Puglie.” E dieci anni dopo Duilio Cambellotti inserisce, nelle decorazioni del Palazzo dell’Acquedotto Pugliese, il brano ‘danzante’ delle contadine che sciorinano i panni nell’uliveto. Nel secondo dopoguerra l’equazione è passata al vaglio ora ironico ora impegnato degli artisti, pugliesi e non: dagli Oli su tela di Mimmo Conenna e poi di Bruno Munari, alle installazioni di Lino Sivilli; fino alla provocatoria esposizione di un ulivo–scultura vivente fatta da Antonio Paradiso all’Expoarte negli anni Ottanta, quando ormai gli ulivi cominciavano a diventare preda di un brutale collezionismo.
Anche per Prayer è questa l’emergenza, il patrimonio oggi a rischio. Gli ulivi sono diventati la sua magnifica ossessione: ne studia moti e forme, identità e struttura. Ma poichè la denuncia non basta, e nemmeno la contemplazione, l’indagine dell’artista – un artista-contadino che si occupa della sua campagna e segue corsi di potatura - abbraccia anche il contesto antropologico della pianta e tutto ciò che contribuisce a prolungare l’”incanto” (“anche se produce poco”) di un ulivo secolare. Prayer analizza, isola e ricuce - sequenza dopo sequenza - quel tessuto di gesti e di cure che, lungo tutto il corso dell’anno, mantengono in vita la pianta: scavare, togliere le malattie dal tronco, potare, raccogliere... E sono i suoi nuovi compagni di strada - anziane raccoglitrici in bilico sulle scalette ed esperti potatori dalla coppola tisa – sono loro, con gli ulivi stessi, i soggetti di questa silenziosa epopea.~ [Dal testo in catalogo di Luciana Zingarelli].
Qualcosa su Tony Prayer. (Note da una conversazione).
di Luciana Zingarelli.
“Non ho mai dipinto,
ho sempre studiato.”
(Tony Prayer)
Una premessa.
Si puo’ raddrizzare la Storia? Evidentemente no. E’ possibile, tutt’al più, sollevare il velo d’ipocrisia che la cultura ufficiale stende sui suoi ‘errori’, restituendo visibilità ai vinti.
In un paese normale, in una regione normale, le opere di Tony Prayer farebbero bella mostra di sé nelle collezioni pubbliche baresi – a cominciare dal Museo Storico – per documentare una stagione inquieta e complessa come gli anni Sessanta; e le élites, della cultura o del potere, farebbero la fila per un suo ritratto - singolo, doppio o di gruppo -.
Invece, emarginato dalla critica d’arte ufficiale – quella ai suoi tempi monopolistica della “Gazzetta del Mezzogiorno”-; ignorato dalle istituzioni artistiche morotee (pur così prodighe di riconoscimenti) degli anni Settanta; ed anche dalle commissioni-acquisti degli Enti, finalizzate o meno che fossero all’arredo di uffici o a raccolte museali a futura memoria, Prayer rischia di essere oscurato anche dalla storiografia corrente e incasellato – nella storia senza dialettica che si vorrebbe consegnare ai posteri - come un reduce senza medaglie, e senza vere conquiste.
Invece, a più di settant’anni, il suo carniere è insospettabilmente ricco e vitale. Nel suo autoironico understatement, Prayer ci consegna un patrimonio di ricerche di lunga durata e di stringente attualità (come il rapporto identità/tradizione); ed insieme una vicenda emblematica, per ricostruire con minore parzialità una storia sociale dell’arte e degli artisti nel mezzogiorno d’Italia.
I cicli dei Ritratti, o la dignità dei Vinti.
La critica recente, nel tentativo di valorizzarlo, ha faticato non poco a trovare pezze d’appoggio ai suoi titoli ‘accademici’: esaltando, ad esempio, l’esperienza abbastanza marginale della scuola del nudo di Saetti all’Accademia di Venezia, cui Prayer si iscrive nel ’57, durante la sua permanenza in Marina.
In realtà, come figlio d’arte, la sua formazione ha radici antiche. Affondano nella prima infanzia i ricordi dell’atelier di Mario e Guido quale luogo di tentazioni e di stimoli e del suo primo, segreto armeggiare con i materiali – gessetti, colori - che di lì riusciva a rubacchiare. In seguito, come garzone di bottega, il giovane Tony avrebbe sperimentato anche la disciplina e le gerarchie del cantiere: e alle dipendenze non del padre, ma del capo-decoratore, da cui riceveva la paga.
Negli anni Cinquanta, parallelamente agli studi all’Istituto Nautico (diventerà capitano di lungo corso), Tony collabora a Potenza e Gioia del Colle con lo zio Mario (che ha tra i suoi aiuti anche i figli Sandro, Nico e Roberto); ed in molte committenze baresi con il padre Guido.
Il crisma di questa straordinaria tradizione familiare – i Prayer, veneziani d’origine, furono dagli anni Venti esponenti di primo piano della scena artistica pugliese – sono, in estrema sintesi: un’assoluta padronanza tecnico-artistica; il culto della storia; la disciplina del progetto. A differenza infatti dei pittori da cavalletto (voluti dalla Riforma Gentile ed imposti dal Regime attraverso il sistema delle mostre sindacali e la creazione di istituzioni artistiche decentrate: un processo che si sarebbe concluso in Puglia solo negli anni Settanta, con l’istituzione di ben tre Accademie di Belle Arti) l’artista-decoratore, lavorando ancora su committenza, è abituato a confrontarsi subito e realisticamente con i limiti di spazio, di spesa o di tempo intrinseci al progetto. E a tener conto del gusto dei committenti, non meno che delle capacità delle maestranze e degli orientamenti degli architetti.
Tuttavia, la tradizione di famiglia si rivela un fardello scomodo per il giovane Prayer e l’arte come ‘decorazione’ un progetto limitato di vita. Tony è insomma un ribelle: non aspira ad essere un ‘Artista’, nonostante il suo talento; e fatica a ritagliarsi un’identità ed un ruolo sociale diversi dallo zio e dal padre, che pure considera i suoi veri maestri. Così, anche se mette su famiglia – dando vita al suo lungo sodalizio con la pittrice Irene Marangelli – rifiuta, dopo tre anni di routine, il posto fisso al Circolo Giuridico e sceglie di dedicarsi più che alla pittura, allo studio.
Il nomadismo dei suoi ateliers ripercorre - negli anni Sessanta e Settanta - le tappe tematiche della sua ricerca. Abituato a calarsi integralmente nei contesti sociali che rappresenta e a vivere la vita quotidiana dei suoi soggetti, si trasferisce dallo studio di via Pizzoli – che condivide con Viggiano e Scaringi - a via Dante; quindi (è la volta del ciclo sulla prostituzione) nel cuore di S. Cataldo; poi nella città vecchia (che cominciava a svuotarsi) a via Venezia (sono gli anni del ciclo sui pescatori). Infine al Lido s.Francesco, ai margini del Villaggio Trieste fondato dai profughi armeni negli anni Venti .
Il suo è, contemporaneamente, un percorso all’interno della tradizione pittorica, di cui rivela parzialità e anacronismi.
Inizia così una sorta di capovolgimento del genere pittorico per eccellenza, legato all’esaltazione sociale del committente: il ritratto. Qui, infatti, i soggetti sono gli “scarti” della società: prostitute e macrò, adolescenti minati nella salute e vecchi usurati dal lavoro e dalla vita. Il giovane Tony – non lontano dalle aperture di Tommaso e Vittore Fiore – scopre insomma l’emergenza di una questione urbana là dove altri – prendendo forse troppo alla lettera il Popolo di formiche - si attardano a considerare autenticamente sociale solo la questione contadina. Ma siccome la Bari anni Sessanta non era la Montmartre di Modigliani e Soutine, il suo anticonformismo bohémien fa scandalo fra il pubblico, e nemmeno la critica mostra di gradire. Tranne voci isolate e significative (Ficarra, Tot, Canevari), le sue personali passano dispettosamente sotto silenzio.
Oggi possiamo considerare in una diversa prospettiva la novità del suo approccio – più vicino al cinema di Germi e alla letteratura di Pasolini, che alla pittura di Guttuso o agli stereotipi di Cantatore: tanto più che i ritratti di Prayer – “racconti di vita” o frammenti di storie che fossero – restituiscono identità e dignità sociale agli esclusi. Manca qualsiasi approccio ideologico, qualsiasi pesantezza retorica sulla loro condizione. Il loro contesto reale viene smaterializzato dal bianco del fondo e l’artista, che li rappresenta con un effetto volutamente monumentale (alla Schiele), puo’ concentrarsi così sulla loro identità, affettuosamente ma puntigliosamente indagata attraverso un segno destrutturato, che dialoga con il colore.
Capovolgendo il tópos ottocentesco della Galleria degli uomini illustri, Prayer ribadisce, ma senza enfasi, la sua scelta di campo. E attraverso lo spazio simbolico dei Ritratti dà (anzi restituisce) presenza storica ai dimenticati.
Il ciclo degli Ulivi.
E la produzione recente? Già sensibile interprete delle periferie urbane e del loro vissuto antropologico, nell’ultimo decennio Prayer si avvicina progressivamente al genere del paesaggio, ma lo fa a modo suo.
Daltronde, già nelle scabre vedute di paesi e di cave di pietra dell’area murgiana (come nella Veduta di Matera della collezione dell’Università degli Studi di Bari), si era potuto tener lontano dai consueti stereotipi del paese meridionale, proprio perchè aveva conosciuto - da residente - la regione, nei lunghi soggiorni a Potenza dallo zio Mario.
La ricerca più recente comincia dunque con una manovra d’avvicinamento progressiva al contesto - questa volta - del paesaggio fortemente antropizzato del Sud-Est barese, dove si è trasferito alla fine degli anni Novanta.
Discorso dominante è l’ulivo.
Nel Novecento l’immagine dell’ulivo connota – a preferenza della vite e dell’uva - l’identità stessa della regione. Nel ’22 Cangiullo – a Bari per una serata futurista – evoca “l’oceano verderame degli ulivi / in cui navigano i treni delle Puglie.” E dieci anni dopo Duilio Cambellotti inserisce nelle decorazioni del Palazzo dell’Acquedotto Pugliese il brano ‘danzante’ delle contadine che sciorinano i panni nell’uliveto. Nel secondo Dopoguerra l’equazione è passata al vaglio ora ironico ora impegnato degli artisti, pugliesi e non: dagli Oli su tela di Mimmo Conenna e poi di Bruno Munari, alle installazioni di Lino Sivilli; fino alla provocatoria esposizione di un ulivo–scultura vivente fatta da Antonio Paradiso all’Expoarte negli anni Ottanta, quando ormai gli ulivi cominciavano a diventare preda di un brutale collezionismo.
Anche per Prayer è questa l’emergenza, il patrimonio oggi a rischio. Gli ulivi sono diventati la sua magnifica ossessione: ne studia moti e forme, identità e struttura. Ma poichè la denuncia non basta, e nemmeno la contemplazione, l’indagine dell’artista – un artista-contadino che si occupa della sua campagna e segue corsi di potatura - abbraccia anche il contesto antropologico della pianta, e tutto ciò che contribuisce a prolungare l’”incanto” (“anche se produce poco”) di un ulivo secolare.
Prayer analizza, isola e ricuce, sequenza dopo sequenza, quel tessuto di gesti e di cure che, lungo tutto il corso dell’anno, mantengono in vita la pianta: scavare, togliere le malattie dal tronco, potare, raccogliere... E sono i suoi nuovi compagni di strada - anziane raccoglitrici in bilico sulle scalette ed esperti potatori dalla coppola tisa – sono loro, con gli ulivi stessi, i soggetti di questa silenziosa epopea.
Discorso dominante è l’ulivo.
Nel Novecento l’immagine dell’ulivo connota – a preferenza della vite e dell’uva - l’identità stessa della regione. Nel ’22 Cangiullo – a Bari per una serata futurista – evoca “l’oceano verderame degli ulivi / in cui navigano i treni delle Puglie.” E dieci anni dopo Duilio Cambellotti inserisce, nelle decorazioni del Palazzo dell’Acquedotto Pugliese, il brano ‘danzante’ delle contadine che sciorinano i panni nell’uliveto. Nel secondo dopoguerra l’equazione è passata al vaglio ora ironico ora impegnato degli artisti, pugliesi e non: dagli Oli su tela di Mimmo Conenna e poi di Bruno Munari, alle installazioni di Lino Sivilli; fino alla provocatoria esposizione di un ulivo–scultura vivente fatta da Antonio Paradiso all’Expoarte negli anni Ottanta, quando ormai gli ulivi cominciavano a diventare preda di un brutale collezionismo.
Anche per Prayer è questa l’emergenza, il patrimonio oggi a rischio. Gli ulivi sono diventati la sua magnifica ossessione: ne studia moti e forme, identità e struttura. Ma poichè la denuncia non basta, e nemmeno la contemplazione, l’indagine dell’artista – un artista-contadino che si occupa della sua campagna e segue corsi di potatura - abbraccia anche il contesto antropologico della pianta e tutto ciò che contribuisce a prolungare l’”incanto” (“anche se produce poco”) di un ulivo secolare. Prayer analizza, isola e ricuce - sequenza dopo sequenza - quel tessuto di gesti e di cure che, lungo tutto il corso dell’anno, mantengono in vita la pianta: scavare, togliere le malattie dal tronco, potare, raccogliere... E sono i suoi nuovi compagni di strada - anziane raccoglitrici in bilico sulle scalette ed esperti potatori dalla coppola tisa – sono loro, con gli ulivi stessi, i soggetti di questa silenziosa epopea.~ [Dal testo in catalogo di Luciana Zingarelli].
Qualcosa su Tony Prayer. (Note da una conversazione).
di Luciana Zingarelli.
“Non ho mai dipinto,
ho sempre studiato.”
(Tony Prayer)
Una premessa.
Si puo’ raddrizzare la Storia? Evidentemente no. E’ possibile, tutt’al più, sollevare il velo d’ipocrisia che la cultura ufficiale stende sui suoi ‘errori’, restituendo visibilità ai vinti.
In un paese normale, in una regione normale, le opere di Tony Prayer farebbero bella mostra di sé nelle collezioni pubbliche baresi – a cominciare dal Museo Storico – per documentare una stagione inquieta e complessa come gli anni Sessanta; e le élites, della cultura o del potere, farebbero la fila per un suo ritratto - singolo, doppio o di gruppo -.
Invece, emarginato dalla critica d’arte ufficiale – quella ai suoi tempi monopolistica della “Gazzetta del Mezzogiorno”-; ignorato dalle istituzioni artistiche morotee (pur così prodighe di riconoscimenti) degli anni Settanta; ed anche dalle commissioni-acquisti degli Enti, finalizzate o meno che fossero all’arredo di uffici o a raccolte museali a futura memoria, Prayer rischia di essere oscurato anche dalla storiografia corrente e incasellato – nella storia senza dialettica che si vorrebbe consegnare ai posteri - come un reduce senza medaglie, e senza vere conquiste.
Invece, a più di settant’anni, il suo carniere è insospettabilmente ricco e vitale. Nel suo autoironico understatement, Prayer ci consegna un patrimonio di ricerche di lunga durata e di stringente attualità (come il rapporto identità/tradizione); ed insieme una vicenda emblematica, per ricostruire con minore parzialità una storia sociale dell’arte e degli artisti nel mezzogiorno d’Italia.
I cicli dei Ritratti, o la dignità dei Vinti.
La critica recente, nel tentativo di valorizzarlo, ha faticato non poco a trovare pezze d’appoggio ai suoi titoli ‘accademici’: esaltando, ad esempio, l’esperienza abbastanza marginale della scuola del nudo di Saetti all’Accademia di Venezia, cui Prayer si iscrive nel ’57, durante la sua permanenza in Marina.
In realtà, come figlio d’arte, la sua formazione ha radici antiche. Affondano nella prima infanzia i ricordi dell’atelier di Mario e Guido quale luogo di tentazioni e di stimoli e del suo primo, segreto armeggiare con i materiali – gessetti, colori - che di lì riusciva a rubacchiare. In seguito, come garzone di bottega, il giovane Tony avrebbe sperimentato anche la disciplina e le gerarchie del cantiere: e alle dipendenze non del padre, ma del capo-decoratore, da cui riceveva la paga.
Negli anni Cinquanta, parallelamente agli studi all’Istituto Nautico (diventerà capitano di lungo corso), Tony collabora a Potenza e Gioia del Colle con lo zio Mario (che ha tra i suoi aiuti anche i figli Sandro, Nico e Roberto); ed in molte committenze baresi con il padre Guido.
Il crisma di questa straordinaria tradizione familiare – i Prayer, veneziani d’origine, furono dagli anni Venti esponenti di primo piano della scena artistica pugliese – sono, in estrema sintesi: un’assoluta padronanza tecnico-artistica; il culto della storia; la disciplina del progetto. A differenza infatti dei pittori da cavalletto (voluti dalla Riforma Gentile ed imposti dal Regime attraverso il sistema delle mostre sindacali e la creazione di istituzioni artistiche decentrate: un processo che si sarebbe concluso in Puglia solo negli anni Settanta, con l’istituzione di ben tre Accademie di Belle Arti) l’artista-decoratore, lavorando ancora su committenza, è abituato a confrontarsi subito e realisticamente con i limiti di spazio, di spesa o di tempo intrinseci al progetto. E a tener conto del gusto dei committenti, non meno che delle capacità delle maestranze e degli orientamenti degli architetti.
Tuttavia, la tradizione di famiglia si rivela un fardello scomodo per il giovane Prayer e l’arte come ‘decorazione’ un progetto limitato di vita. Tony è insomma un ribelle: non aspira ad essere un ‘Artista’, nonostante il suo talento; e fatica a ritagliarsi un’identità ed un ruolo sociale diversi dallo zio e dal padre, che pure considera i suoi veri maestri. Così, anche se mette su famiglia – dando vita al suo lungo sodalizio con la pittrice Irene Marangelli – rifiuta, dopo tre anni di routine, il posto fisso al Circolo Giuridico e sceglie di dedicarsi più che alla pittura, allo studio.
Il nomadismo dei suoi ateliers ripercorre - negli anni Sessanta e Settanta - le tappe tematiche della sua ricerca. Abituato a calarsi integralmente nei contesti sociali che rappresenta e a vivere la vita quotidiana dei suoi soggetti, si trasferisce dallo studio di via Pizzoli – che condivide con Viggiano e Scaringi - a via Dante; quindi (è la volta del ciclo sulla prostituzione) nel cuore di S. Cataldo; poi nella città vecchia (che cominciava a svuotarsi) a via Venezia (sono gli anni del ciclo sui pescatori). Infine al Lido s.Francesco, ai margini del Villaggio Trieste fondato dai profughi armeni negli anni Venti .
Il suo è, contemporaneamente, un percorso all’interno della tradizione pittorica, di cui rivela parzialità e anacronismi.
Inizia così una sorta di capovolgimento del genere pittorico per eccellenza, legato all’esaltazione sociale del committente: il ritratto. Qui, infatti, i soggetti sono gli “scarti” della società: prostitute e macrò, adolescenti minati nella salute e vecchi usurati dal lavoro e dalla vita. Il giovane Tony – non lontano dalle aperture di Tommaso e Vittore Fiore – scopre insomma l’emergenza di una questione urbana là dove altri – prendendo forse troppo alla lettera il Popolo di formiche - si attardano a considerare autenticamente sociale solo la questione contadina. Ma siccome la Bari anni Sessanta non era la Montmartre di Modigliani e Soutine, il suo anticonformismo bohémien fa scandalo fra il pubblico, e nemmeno la critica mostra di gradire. Tranne voci isolate e significative (Ficarra, Tot, Canevari), le sue personali passano dispettosamente sotto silenzio.
Oggi possiamo considerare in una diversa prospettiva la novità del suo approccio – più vicino al cinema di Germi e alla letteratura di Pasolini, che alla pittura di Guttuso o agli stereotipi di Cantatore: tanto più che i ritratti di Prayer – “racconti di vita” o frammenti di storie che fossero – restituiscono identità e dignità sociale agli esclusi. Manca qualsiasi approccio ideologico, qualsiasi pesantezza retorica sulla loro condizione. Il loro contesto reale viene smaterializzato dal bianco del fondo e l’artista, che li rappresenta con un effetto volutamente monumentale (alla Schiele), puo’ concentrarsi così sulla loro identità, affettuosamente ma puntigliosamente indagata attraverso un segno destrutturato, che dialoga con il colore.
Capovolgendo il tópos ottocentesco della Galleria degli uomini illustri, Prayer ribadisce, ma senza enfasi, la sua scelta di campo. E attraverso lo spazio simbolico dei Ritratti dà (anzi restituisce) presenza storica ai dimenticati.
Il ciclo degli Ulivi.
E la produzione recente? Già sensibile interprete delle periferie urbane e del loro vissuto antropologico, nell’ultimo decennio Prayer si avvicina progressivamente al genere del paesaggio, ma lo fa a modo suo.
Daltronde, già nelle scabre vedute di paesi e di cave di pietra dell’area murgiana (come nella Veduta di Matera della collezione dell’Università degli Studi di Bari), si era potuto tener lontano dai consueti stereotipi del paese meridionale, proprio perchè aveva conosciuto - da residente - la regione, nei lunghi soggiorni a Potenza dallo zio Mario.
La ricerca più recente comincia dunque con una manovra d’avvicinamento progressiva al contesto - questa volta - del paesaggio fortemente antropizzato del Sud-Est barese, dove si è trasferito alla fine degli anni Novanta.
Discorso dominante è l’ulivo.
Nel Novecento l’immagine dell’ulivo connota – a preferenza della vite e dell’uva - l’identità stessa della regione. Nel ’22 Cangiullo – a Bari per una serata futurista – evoca “l’oceano verderame degli ulivi / in cui navigano i treni delle Puglie.” E dieci anni dopo Duilio Cambellotti inserisce nelle decorazioni del Palazzo dell’Acquedotto Pugliese il brano ‘danzante’ delle contadine che sciorinano i panni nell’uliveto. Nel secondo Dopoguerra l’equazione è passata al vaglio ora ironico ora impegnato degli artisti, pugliesi e non: dagli Oli su tela di Mimmo Conenna e poi di Bruno Munari, alle installazioni di Lino Sivilli; fino alla provocatoria esposizione di un ulivo–scultura vivente fatta da Antonio Paradiso all’Expoarte negli anni Ottanta, quando ormai gli ulivi cominciavano a diventare preda di un brutale collezionismo.
Anche per Prayer è questa l’emergenza, il patrimonio oggi a rischio. Gli ulivi sono diventati la sua magnifica ossessione: ne studia moti e forme, identità e struttura. Ma poichè la denuncia non basta, e nemmeno la contemplazione, l’indagine dell’artista – un artista-contadino che si occupa della sua campagna e segue corsi di potatura - abbraccia anche il contesto antropologico della pianta, e tutto ciò che contribuisce a prolungare l’”incanto” (“anche se produce poco”) di un ulivo secolare.
Prayer analizza, isola e ricuce, sequenza dopo sequenza, quel tessuto di gesti e di cure che, lungo tutto il corso dell’anno, mantengono in vita la pianta: scavare, togliere le malattie dal tronco, potare, raccogliere... E sono i suoi nuovi compagni di strada - anziane raccoglitrici in bilico sulle scalette ed esperti potatori dalla coppola tisa – sono loro, con gli ulivi stessi, i soggetti di questa silenziosa epopea.
22
maggio 2009
Tony Prayer
Dal 22 maggio al 05 giugno 2009
arte contemporanea
Location
CIRCOLO CANOTTIERI BARION
Bari, Molo San Nicola, 5, (Bari)
Bari, Molo San Nicola, 5, (Bari)
Orario di apertura
h.10-13/18-21.
Vernissage
22 Maggio 2009, ore 19.30
Autore
Curatore