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Transitions – La pittura alla fine dell’arte
La Collezione Maramotti inaugura il proprio spazio espositivo temporaneo con una mostra collettiva costituita da opere della propria collezione, acquisite recentemente. Trenta lavori di ventuno artisti che, indipendentemente dalla loro nazionalità, operano nel contesto newyorkese.
Comunicato stampa
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La Collezione Maramotti inaugura il proprio spazio espositivo temporaneo con una mostra collettiva costituita da opere della propria collezione, acquisite recentemente.
Trenta lavori di ventuno artisti che, indipendentemente dalla loro nazionalità, operano nel contesto newyorkese. Trenta lavori che hanno in comune non soltanto lo spazio temporale in cui sono stati prodotti (dal 2001 al 2008), ma soprattutto la disponibilità dimostrata a espandere in altri ambiti gli strumenti concettuali e formali con cui investigare la pittura, nel momento storico in cui la tecnologia sollecita lo spettatore con novità sensoriali e percettive sempre più lontane dalla storia umanistica della visualità.
Con l’inizio della globalizzazione, per operare in un territorio linguistico internazionale, anche la pittura si è trasformata ponendosi in dialogo con - o in scarto da - la propria storia, ma anche con consapevolezza rispetto all’evoluzione dei nuovi media. Le strategie pittoriche messe in atto da quel momento sono tante quante gli artisti. Nessuna opera in Transitions si consuma nel discorso sul metodo; il metodo è costantemente medium di un discorso iconografico.
La resistenza della pittura avviene dunque a un doppio livello. Nella costruzione del quadro l’artista non esita ad appropriarsi di strumenti che l’universo tecnologico e industriale gli suggeriscono, articolando forme e superfici che sono fisicamente aderenti ad una percettività esaltata dai prodotti/sentimenti di massa e anche dall’immaginario tecnologico: dal detrito naturale, all’oggetto trovato fino a photoshop.
Alcuni degli artisti (Perez, Rich, Domburg, Cotton, Craven, Ruyter, Gonzales, Loeb) appropriano le loro immagini da fotografie o da altri media (ritagli di giornali, cartoline postali, libri, fotogrammi cinematografici, elaborazioni digitali, etc.) che precostituiscono il soggetto della rappresentazione - operando pertanto su un evento emerso dal reale anziché dall’ideale - ognuno con modalità e obiettivi diversi.
Henricksen, Jackson, Stockholder, Walker ricorrono a superfici che hanno in comune con il tradizionale olio/acrilico su tela soltanto l’aspirazione a riconvocare le ambizioni storiche della pittura per un ruolo visuale più avanzato fino a presentare la pittura in allusione (Walker).
Per alcuni (Perez, Rich, Domburg) l’immagine architettonica è un veicolo privilegiato di inscrizione della storia, con connotazioni politiche, allegoriche dello spazio sociale, afferenti alla ritualità della società di massa, ma non è mai un puro atto di esaltazione della superficie pittorica.
L’aspetto processuale ha un’importanza centrale per molti degli artisti presenti in mostra (Perez, Zucker, Rich, Cotton, Ruyter, Gonzales, Barbeito). Nei dipinti di Schutz, Barbeito, Degen, Koether la figurazione che appare, o scompare, costituisce l’evidente ritorno di un archetipo.
Oggi un’immagine è spesso tanto più nuova quanto più presenta un ritorno rinvigorito e riattualizzato di un archetipo costantemente oggetto di rielaborazioni e interrogazioni della nostra coscienza.
Le modalità “astratta” e “rappresentazionale”, considerate divergenti fino agli anni Sessanta, spesso coesistono nell’operato di ogni singolo artista. De Balincourt lavora su entrambi i binari, oggettivo/non-oggettivo, che sono le due facce con cui presenta il proprio soggettivo. L’apparente minimalismo delle serie di figure geometriche concentriche di Walsh, allude più all’iscrizione magica del graffito che non ad una superficie razionalizzata. I vasti spazi monocromi ancorati da geometrie elementari di Tremblay, vedono come forma dominante la figura archetipica dell’ovoide, agglutinata sulla tela come cellula organica in proliferazione.
Nei dipinti di Lalla Essaydi è evidente la critica al falso realismo e alla inautenticità esperienziale di un’intera fase della pittura occidentale; il soggetto dell’opera diviene il ribaltamento critico della visione “coloniale” presente nella struttura dei quadri orientalisti. Un analogo uso iconografico di habitat interni, non descrittivi, ma portatori di un progetto di pittura, definisce il lavoro di Zucker in cui le architetture alludono a uno spazio sociale, ma non lo inscrivono; proiettano una realtà mentale alternativa, più vicina ai paesaggi interiori.
Trenta lavori di ventuno artisti che, indipendentemente dalla loro nazionalità, operano nel contesto newyorkese. Trenta lavori che hanno in comune non soltanto lo spazio temporale in cui sono stati prodotti (dal 2001 al 2008), ma soprattutto la disponibilità dimostrata a espandere in altri ambiti gli strumenti concettuali e formali con cui investigare la pittura, nel momento storico in cui la tecnologia sollecita lo spettatore con novità sensoriali e percettive sempre più lontane dalla storia umanistica della visualità.
Con l’inizio della globalizzazione, per operare in un territorio linguistico internazionale, anche la pittura si è trasformata ponendosi in dialogo con - o in scarto da - la propria storia, ma anche con consapevolezza rispetto all’evoluzione dei nuovi media. Le strategie pittoriche messe in atto da quel momento sono tante quante gli artisti. Nessuna opera in Transitions si consuma nel discorso sul metodo; il metodo è costantemente medium di un discorso iconografico.
La resistenza della pittura avviene dunque a un doppio livello. Nella costruzione del quadro l’artista non esita ad appropriarsi di strumenti che l’universo tecnologico e industriale gli suggeriscono, articolando forme e superfici che sono fisicamente aderenti ad una percettività esaltata dai prodotti/sentimenti di massa e anche dall’immaginario tecnologico: dal detrito naturale, all’oggetto trovato fino a photoshop.
Alcuni degli artisti (Perez, Rich, Domburg, Cotton, Craven, Ruyter, Gonzales, Loeb) appropriano le loro immagini da fotografie o da altri media (ritagli di giornali, cartoline postali, libri, fotogrammi cinematografici, elaborazioni digitali, etc.) che precostituiscono il soggetto della rappresentazione - operando pertanto su un evento emerso dal reale anziché dall’ideale - ognuno con modalità e obiettivi diversi.
Henricksen, Jackson, Stockholder, Walker ricorrono a superfici che hanno in comune con il tradizionale olio/acrilico su tela soltanto l’aspirazione a riconvocare le ambizioni storiche della pittura per un ruolo visuale più avanzato fino a presentare la pittura in allusione (Walker).
Per alcuni (Perez, Rich, Domburg) l’immagine architettonica è un veicolo privilegiato di inscrizione della storia, con connotazioni politiche, allegoriche dello spazio sociale, afferenti alla ritualità della società di massa, ma non è mai un puro atto di esaltazione della superficie pittorica.
L’aspetto processuale ha un’importanza centrale per molti degli artisti presenti in mostra (Perez, Zucker, Rich, Cotton, Ruyter, Gonzales, Barbeito). Nei dipinti di Schutz, Barbeito, Degen, Koether la figurazione che appare, o scompare, costituisce l’evidente ritorno di un archetipo.
Oggi un’immagine è spesso tanto più nuova quanto più presenta un ritorno rinvigorito e riattualizzato di un archetipo costantemente oggetto di rielaborazioni e interrogazioni della nostra coscienza.
Le modalità “astratta” e “rappresentazionale”, considerate divergenti fino agli anni Sessanta, spesso coesistono nell’operato di ogni singolo artista. De Balincourt lavora su entrambi i binari, oggettivo/non-oggettivo, che sono le due facce con cui presenta il proprio soggettivo. L’apparente minimalismo delle serie di figure geometriche concentriche di Walsh, allude più all’iscrizione magica del graffito che non ad una superficie razionalizzata. I vasti spazi monocromi ancorati da geometrie elementari di Tremblay, vedono come forma dominante la figura archetipica dell’ovoide, agglutinata sulla tela come cellula organica in proliferazione.
Nei dipinti di Lalla Essaydi è evidente la critica al falso realismo e alla inautenticità esperienziale di un’intera fase della pittura occidentale; il soggetto dell’opera diviene il ribaltamento critico della visione “coloniale” presente nella struttura dei quadri orientalisti. Un analogo uso iconografico di habitat interni, non descrittivi, ma portatori di un progetto di pittura, definisce il lavoro di Zucker in cui le architetture alludono a uno spazio sociale, ma non lo inscrivono; proiettano una realtà mentale alternativa, più vicina ai paesaggi interiori.
24
maggio 2009
Transitions – La pittura alla fine dell’arte
Dal 24 maggio al 31 ottobre 2009
arte contemporanea
Location
COLLEZIONE MARAMOTTI
Reggio Nell'emilia, Via Fratelli Cervi, 66, (Reggio Nell'emilia)
Reggio Nell'emilia, Via Fratelli Cervi, 66, (Reggio Nell'emilia)
Orario di apertura
giovedì e venerdì: 14.30-18.30
sabato e domenica: 9.30-12.30 e 15.00-18.00
Chiusura: dall’1 al 25 agosto 2009.
Ufficio stampa
STUDIO PESCI
Autore