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Ulrich Erben – Sein, essere
Galleria Studio G7 ospita per la quinta volta nei propri spazi espositivi una mostra personale dell’artista tedesco Ulrich Erben. L’esposizione, a cura di Peter Friese, conferma nuovamente la linea di indagine della galleria, concentrata sullo sviluppo della pittura astratta nell’arte contemporanea.
Comunicato stampa
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Essere – Il colore è cambiamento. I nuovi dipinti di Ulrich Erben.
Peter Friese
Quando ho fatto visita a Ulrich Erben nel suo atelier di Düsseldorf nel novembre del 2019, con mia grande sorpresa e soddisfazione lui mi ha mostrato alcuni dei suoi quadri più recenti, accostandoli senza spendere troppe parole a opere di qualche tempo addietro. “Quando li si guarda, succede qualcosa su cui lì per lì non ci si ferma a riflettere, eppure quel qualcosa succede. L’occhio è costantemente in movimento, non trova pace”, ha detto poi quasi en passant, ma al tempo stesso in modo assai preciso.
Con questa dichiarazione stringata, quasi iaconica, non ha solo messo a fuoco un tratto distintivo della sua attuale produzione pittorica, ma anche sintetizzato ciò che i suoi quadri, da ormai mezzo secolo, sono capaci di indurre nell’osservatore: un guardare dinamico, che si rigenera di continuo senza mai smettere, di quando in quando, di rivedere e mettere in discussione se stesso.
Ecco perché vorrei dedicare questo saggio non già a spiegare che cosa rappresentino questi quadri, a che cosa possano corrispondere al di fuori di se stessi e quale significato extra-artistico sottintendano nel loro insieme, bensì espressamente a quella modalità del vedere evocata nell’atelier che questi dipinti sono in grado di favorire: un vedere dinamico che muta incessantemente direzione. Un tale modo di procedere, fenomenologico nel senso più ampio del termine, si propone quindi non solo di dare conto delle parole dell’artista citate poc’anzi, ma anche di descrivere la particolare modalità percettiva che questi quadri stimolano, approssimandosi cioè a quello che “succede quando li si guarda”.
Ma torniamo a loro, ai dipinti: già a prima vista le opere di Erben attestano un’alta cultura pittorica, e questo pur difettando del proverbiale oggetto, pur non rinviando a un motivo (ri-)conoscibile. Essi continuano a ravvisare il loro soggetto intrinseco, il loro fondamento e scopo in evanescenti tonalità cromatiche, in forme elementari che si uniscono e contrappongono, e in campi di colore metodicamente concepiti, ciascuno dei quali rimanda all’altro. Questa pittura sa ricomporre la complessa unione e contrapposizione dei suoi elementi in una tensione interna all’immagine che, tendenzialmente, riesce al tempo stesso a superare. E lo fa, con meraviglia dell’osservatore, semplicemente “a partire da se stessa”. Una pittura di concezione per così dire architettonica da cui essa trae la propria stabilità, ma che appare sempre anche leggera e trasparente, piena di vivaci contrasti come di sfumature lievi, a malapena percettibili.
Malgrado la loro sorprendente armonia e coerenza compositiva, questi organismi-immagine non sono affatto sistemi ermetici, autoreferenziali, che si fondano unicamente su se stessi. Al contrario: si aprono all’osservatore attivando una modalità percettiva nella quale l’occhio non vuole placarsi e diventa alleato dell’intelletto nel porre domande e dare spazio al dubbio. Che questo accada, come descritto, “da sé” ha a che fare sia con la particolare fattura dei quadri, sia con il particolare tipo di percezione che queste opere sono in grado di stimolare.
Se ci si predispone a osservare senza preconcetti, ha effettivamente inizio ciò di cui parlava il pittore nel suo atelier: l’occhio si mette in moto, non indugia apatico, compiaciuto su gradazioni cromatiche a malapena percettibili; non si sofferma sugli impalpabili profili degli spigoli più lunghi come se si trattasse di singoli fenomeni di virtuosismo pittorico di cui godere in quanto tali. Esso percepisce invece anche il contesto e l’ambiente interno all’immagine, differenti colori che si incontrano lungo uno spigolo, ad esempio, insieme alle disorientanti sfumature e gradazioni cromatiche che si creano tra di loro. Qui colori e forme non stanno fianco a fianco come elementi isolati, ma si rivelano gli uni dipendenti dalle altre e con ciò inscindibilmente legati all’interno dell’immagine.
La percezione di questi dipinti non si risolve nell’ammirato riconoscimento del virtuosismo pittorico che li ha prodotti – esso si dimostra tutt’al più un mezzo per raggiungere lo scopo –; l’atto percettivo implica un legame attivo tra vedere e pensare, un concorso di intuizione e sistematica al fine di rendere possibili quelle esperienze visive che sono il tema del presente saggio. In questi quadri si verificano di continuo sorprendenti spazializzazioni generate unicamente da valori cromatici; effetti ottici di avanzamento e arretramento di elementi bidimensionali di per sé statici. Si aprono talora spazi interni all’immagine nei quali superfici geometriche che sembrano librarsi davanti a un continuum di diverso colore all’improvviso ci inducono a percepirli alla stregua di immagini cangianti, suscettibili di molteplici interpretazioni.
Il fatto che l’occhio, quando osserva fenomeni di questo tipo, sia costantemente in movimento potrebbe dipendere dalla sua motricità fisiologica; qui però non abbiamo a che fare con il cosiddetto “Rapid Eye Movement”, quanto piuttosto con un errare dello sguardo più o meno intenzionale, uno scivolare da un punto all’altro involontario, perlopiù intuitivo indotto dall’immagine stessa; un continuo ponderare, confrontare e dubitare dei contrasti e delle modulazioni pittoriche che di tanto in tanto vibrano davanti all’occhio. Ma dobbiamo sempre anche chiederci seriamente (tramite l’intelletto) se alcune di queste tenui gradazioni non rappresentino fenomeni di irradiazione di natura fisica (di un colore dominante nei confronti di uno più delicato) e se questa particolare forma di “Interaction of Color” non sia insita nell’immagine già in partenza e pittoricamente anticipata da Erben. Proprio perché entrambe le alternative possono essere non solo ponderate e soppesate, ma sono in genere effettivamente presenti nei dipinti, l’atto del guardare tende a configurarsi come un interminabile scandagliare l’immagine e i suoi elementi cromatici e formali interagenti fra di loro.
Si potrebbe parlare a questo proposito di un “guardare critico”, di una modalità di percezione che gioisce e in egual misura dubita di ciò che ha davanti a sé in un dato momento. E poiché dopo un breve momento di disorientamento e sorpresa iniziale questo guardare si allea con l’intelletto, con il raziocinio, si fa ponderare, dubitare, mettere in discussione, alla fine ne scaturisce qualcosa che può essere considerato specifico dell’arte di Erben: pensare e guardare assumono la forma di un’esperienza estetica dinamica.
Si tratta di un vedere pensante e di un pensare vedente al tempo stesso, di una presa di coscienza del ruolo che assumiamo quando osserviamo queste opere. Si tratta però al contempo di comprendere le nostre possibilità e i nostri limiti, di verificare l’immagine che abbiamo di noi e di esaminare a fondo la nostra capacità di reagire entrando in relazione con qualcosa che si trova davanti a noi e dunque fuori di noi. Se ci mettiamo nella condizione non solo di far agire la gamma di impressioni visive sui nostri sensi, ma anche e soprattutto di riflettere su di essa sulla base delle esperienze appena fatte, allora ha inizio una particolare forma di percezione che si può chiamare “estetica” o definire nei termini di ragionamento estetico.
A queste condizioni non percepisco i fenomeni pittorici solo in quanto tali o come dati e indipendenti da me stesso per meravigliarmene e trarne piacere; in questo atto percettivo rifletto anche me stesso, insieme a tutte le mie osservazioni, impressioni e sensazioni. Non vedo più le immagini davanti a me unicamente da una posizione “neutrale” o apatica, indifferente, ma contemporaneamente vedo e considero me stesso come soggetto vedente e senziente. Sono così in grado non solo di registrare e trarre una sensazione di godimento da ciò che ho davanti a me e che percepisco con i sensi, ma posso anche sentire il mio vedere e pensare, il mio lavoro cognitivo e posso, volendo, valutarlo e metterlo in discussione.
Quando, in virtù dei miei sensi e del mio intelletto, mi predispongo a ciò, avverto naturalmente anche i cambiamenti nella mia persona, nel mio sentire, eventualmente anche nel mio modo di comportami e di pensare, cambiamenti che sono divenuti possibili solo per il fatto di essermi occupato di queste opere. Mentre mi muovo nello spazio espositivo davanti ai quadri facendo le mie osservazioni e accumulando impressioni, rifletto (in senso kantiano), se così si può dire, sulle condizioni di questa mia esperienza, sulle possibilità che essa apre.
La percezione si fa così approfondita interrogazione non solo delle immagini, ma anche della propria capacità di discernere, comprendere e giudicare. Comincio a riflettere su ciò che vedo lì davanti a me, su come lo vedo, oltre che sulla mia posizione e sul mio ruolo, e riesamino il tutto con più attenzione. In questo modo sono in grado di differenziare e persino di rivedere osservazioni appena fatte. Messa in discussione e dubbio sono fin dall’inizio elementi costitutivi di questo atto di percezione, così come l’esperienza che una stessa opera possa stimolare in individui diversi modalità visive e cognitive diverse e che questi individui possano, in qualsiasi momento, modificare il proprio punto di vista.
Una cognizione centrale di questa modalità di osservazione dell’immagine e del vedere ad essa connesso consiste nel fatto che, durante l’atto visivo stesso, quest’ultimo si modifica e l’osservatore è cosciente di questo cambiamento. L’esperienza vissuta davanti all’immagine si fa tuttavia, nel momento in cui la condivido con altri, analogia etica: mi interesso in maniera consapevole a un diverso modo di vedere, a un diverso punto di vista, e questo è al contempo spia di un’opportunità di cambiamento della mia persona in considerazione di un altro individuo, che magari per il momento si colloca ancora al di fuori delle mie possibilità e della mia comprensione. L’essere, del resto, non è statico, bensì dinamico.
Peter Friese
Quando ho fatto visita a Ulrich Erben nel suo atelier di Düsseldorf nel novembre del 2019, con mia grande sorpresa e soddisfazione lui mi ha mostrato alcuni dei suoi quadri più recenti, accostandoli senza spendere troppe parole a opere di qualche tempo addietro. “Quando li si guarda, succede qualcosa su cui lì per lì non ci si ferma a riflettere, eppure quel qualcosa succede. L’occhio è costantemente in movimento, non trova pace”, ha detto poi quasi en passant, ma al tempo stesso in modo assai preciso.
Con questa dichiarazione stringata, quasi iaconica, non ha solo messo a fuoco un tratto distintivo della sua attuale produzione pittorica, ma anche sintetizzato ciò che i suoi quadri, da ormai mezzo secolo, sono capaci di indurre nell’osservatore: un guardare dinamico, che si rigenera di continuo senza mai smettere, di quando in quando, di rivedere e mettere in discussione se stesso.
Ecco perché vorrei dedicare questo saggio non già a spiegare che cosa rappresentino questi quadri, a che cosa possano corrispondere al di fuori di se stessi e quale significato extra-artistico sottintendano nel loro insieme, bensì espressamente a quella modalità del vedere evocata nell’atelier che questi dipinti sono in grado di favorire: un vedere dinamico che muta incessantemente direzione. Un tale modo di procedere, fenomenologico nel senso più ampio del termine, si propone quindi non solo di dare conto delle parole dell’artista citate poc’anzi, ma anche di descrivere la particolare modalità percettiva che questi quadri stimolano, approssimandosi cioè a quello che “succede quando li si guarda”.
Ma torniamo a loro, ai dipinti: già a prima vista le opere di Erben attestano un’alta cultura pittorica, e questo pur difettando del proverbiale oggetto, pur non rinviando a un motivo (ri-)conoscibile. Essi continuano a ravvisare il loro soggetto intrinseco, il loro fondamento e scopo in evanescenti tonalità cromatiche, in forme elementari che si uniscono e contrappongono, e in campi di colore metodicamente concepiti, ciascuno dei quali rimanda all’altro. Questa pittura sa ricomporre la complessa unione e contrapposizione dei suoi elementi in una tensione interna all’immagine che, tendenzialmente, riesce al tempo stesso a superare. E lo fa, con meraviglia dell’osservatore, semplicemente “a partire da se stessa”. Una pittura di concezione per così dire architettonica da cui essa trae la propria stabilità, ma che appare sempre anche leggera e trasparente, piena di vivaci contrasti come di sfumature lievi, a malapena percettibili.
Malgrado la loro sorprendente armonia e coerenza compositiva, questi organismi-immagine non sono affatto sistemi ermetici, autoreferenziali, che si fondano unicamente su se stessi. Al contrario: si aprono all’osservatore attivando una modalità percettiva nella quale l’occhio non vuole placarsi e diventa alleato dell’intelletto nel porre domande e dare spazio al dubbio. Che questo accada, come descritto, “da sé” ha a che fare sia con la particolare fattura dei quadri, sia con il particolare tipo di percezione che queste opere sono in grado di stimolare.
Se ci si predispone a osservare senza preconcetti, ha effettivamente inizio ciò di cui parlava il pittore nel suo atelier: l’occhio si mette in moto, non indugia apatico, compiaciuto su gradazioni cromatiche a malapena percettibili; non si sofferma sugli impalpabili profili degli spigoli più lunghi come se si trattasse di singoli fenomeni di virtuosismo pittorico di cui godere in quanto tali. Esso percepisce invece anche il contesto e l’ambiente interno all’immagine, differenti colori che si incontrano lungo uno spigolo, ad esempio, insieme alle disorientanti sfumature e gradazioni cromatiche che si creano tra di loro. Qui colori e forme non stanno fianco a fianco come elementi isolati, ma si rivelano gli uni dipendenti dalle altre e con ciò inscindibilmente legati all’interno dell’immagine.
La percezione di questi dipinti non si risolve nell’ammirato riconoscimento del virtuosismo pittorico che li ha prodotti – esso si dimostra tutt’al più un mezzo per raggiungere lo scopo –; l’atto percettivo implica un legame attivo tra vedere e pensare, un concorso di intuizione e sistematica al fine di rendere possibili quelle esperienze visive che sono il tema del presente saggio. In questi quadri si verificano di continuo sorprendenti spazializzazioni generate unicamente da valori cromatici; effetti ottici di avanzamento e arretramento di elementi bidimensionali di per sé statici. Si aprono talora spazi interni all’immagine nei quali superfici geometriche che sembrano librarsi davanti a un continuum di diverso colore all’improvviso ci inducono a percepirli alla stregua di immagini cangianti, suscettibili di molteplici interpretazioni.
Il fatto che l’occhio, quando osserva fenomeni di questo tipo, sia costantemente in movimento potrebbe dipendere dalla sua motricità fisiologica; qui però non abbiamo a che fare con il cosiddetto “Rapid Eye Movement”, quanto piuttosto con un errare dello sguardo più o meno intenzionale, uno scivolare da un punto all’altro involontario, perlopiù intuitivo indotto dall’immagine stessa; un continuo ponderare, confrontare e dubitare dei contrasti e delle modulazioni pittoriche che di tanto in tanto vibrano davanti all’occhio. Ma dobbiamo sempre anche chiederci seriamente (tramite l’intelletto) se alcune di queste tenui gradazioni non rappresentino fenomeni di irradiazione di natura fisica (di un colore dominante nei confronti di uno più delicato) e se questa particolare forma di “Interaction of Color” non sia insita nell’immagine già in partenza e pittoricamente anticipata da Erben. Proprio perché entrambe le alternative possono essere non solo ponderate e soppesate, ma sono in genere effettivamente presenti nei dipinti, l’atto del guardare tende a configurarsi come un interminabile scandagliare l’immagine e i suoi elementi cromatici e formali interagenti fra di loro.
Si potrebbe parlare a questo proposito di un “guardare critico”, di una modalità di percezione che gioisce e in egual misura dubita di ciò che ha davanti a sé in un dato momento. E poiché dopo un breve momento di disorientamento e sorpresa iniziale questo guardare si allea con l’intelletto, con il raziocinio, si fa ponderare, dubitare, mettere in discussione, alla fine ne scaturisce qualcosa che può essere considerato specifico dell’arte di Erben: pensare e guardare assumono la forma di un’esperienza estetica dinamica.
Si tratta di un vedere pensante e di un pensare vedente al tempo stesso, di una presa di coscienza del ruolo che assumiamo quando osserviamo queste opere. Si tratta però al contempo di comprendere le nostre possibilità e i nostri limiti, di verificare l’immagine che abbiamo di noi e di esaminare a fondo la nostra capacità di reagire entrando in relazione con qualcosa che si trova davanti a noi e dunque fuori di noi. Se ci mettiamo nella condizione non solo di far agire la gamma di impressioni visive sui nostri sensi, ma anche e soprattutto di riflettere su di essa sulla base delle esperienze appena fatte, allora ha inizio una particolare forma di percezione che si può chiamare “estetica” o definire nei termini di ragionamento estetico.
A queste condizioni non percepisco i fenomeni pittorici solo in quanto tali o come dati e indipendenti da me stesso per meravigliarmene e trarne piacere; in questo atto percettivo rifletto anche me stesso, insieme a tutte le mie osservazioni, impressioni e sensazioni. Non vedo più le immagini davanti a me unicamente da una posizione “neutrale” o apatica, indifferente, ma contemporaneamente vedo e considero me stesso come soggetto vedente e senziente. Sono così in grado non solo di registrare e trarre una sensazione di godimento da ciò che ho davanti a me e che percepisco con i sensi, ma posso anche sentire il mio vedere e pensare, il mio lavoro cognitivo e posso, volendo, valutarlo e metterlo in discussione.
Quando, in virtù dei miei sensi e del mio intelletto, mi predispongo a ciò, avverto naturalmente anche i cambiamenti nella mia persona, nel mio sentire, eventualmente anche nel mio modo di comportami e di pensare, cambiamenti che sono divenuti possibili solo per il fatto di essermi occupato di queste opere. Mentre mi muovo nello spazio espositivo davanti ai quadri facendo le mie osservazioni e accumulando impressioni, rifletto (in senso kantiano), se così si può dire, sulle condizioni di questa mia esperienza, sulle possibilità che essa apre.
La percezione si fa così approfondita interrogazione non solo delle immagini, ma anche della propria capacità di discernere, comprendere e giudicare. Comincio a riflettere su ciò che vedo lì davanti a me, su come lo vedo, oltre che sulla mia posizione e sul mio ruolo, e riesamino il tutto con più attenzione. In questo modo sono in grado di differenziare e persino di rivedere osservazioni appena fatte. Messa in discussione e dubbio sono fin dall’inizio elementi costitutivi di questo atto di percezione, così come l’esperienza che una stessa opera possa stimolare in individui diversi modalità visive e cognitive diverse e che questi individui possano, in qualsiasi momento, modificare il proprio punto di vista.
Una cognizione centrale di questa modalità di osservazione dell’immagine e del vedere ad essa connesso consiste nel fatto che, durante l’atto visivo stesso, quest’ultimo si modifica e l’osservatore è cosciente di questo cambiamento. L’esperienza vissuta davanti all’immagine si fa tuttavia, nel momento in cui la condivido con altri, analogia etica: mi interesso in maniera consapevole a un diverso modo di vedere, a un diverso punto di vista, e questo è al contempo spia di un’opportunità di cambiamento della mia persona in considerazione di un altro individuo, che magari per il momento si colloca ancora al di fuori delle mie possibilità e della mia comprensione. L’essere, del resto, non è statico, bensì dinamico.
29
novembre 2019
Ulrich Erben – Sein, essere
Dal 29 novembre 2019 al 18 gennaio 2020
arte contemporanea
Location
GALLERIA STUDIO G7
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Bologna, Via Val D'aposa, 4a, (Bologna)
Orario di apertura
da martedì a sabato ore 15.30 - 19.30.
Lunedì e festivi per appuntamento
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Curatore
Autore testo critico