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Una scala per la Luna – Omaggio a Calvino
una esposizione di arte contemporanea in cui agli artisti è stato chiesto di ispirarsi al primo racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, La distanza della Luna, e di realizzare una propria “scala per la Luna”. Le opere formeranno una unica grande suggestiva installazione a cielo aperto.
Comunicato stampa
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La mostra fa parte di un più ampio progetto titolato LA DISTANZA DELLA LUNA , ideato da Orietta Masin e realizzato in collaborazione con il Circolo ARCI n.a. Cervignano e l’Azienda Borgo Fornasir. L’Azienda, situata nell’omonimo borgo a sud-est di Cervignano del Friuli, è un complesso in stile romanico totalmente in mattoni faccia a vista, fondato nel 1933 dall’Ing. Dante Fornasir come esempio di città ideale. Il borgo è il naturale palcoscenico per questo articolato programma che intreccia i festeggiamenti del solstizio d’estate, con l’arte e il teatro - attraverso un omaggio allo scrittore Italo Calvino nel 25°anniversario della sua scomparsa –, il cinema - con la proiezione del poetico “stralunato” film di Fellini “La voce della Luna”-, e l’astronomia.
UNA SCALA PER LA LUNA è una esposizione di arte contemporanea in cui agli artisti è stato chiesto di ispirarsi al primo racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, La distanza della Luna, e di realizzare una propria “scala per la Luna”. Le opere formeranno una unica grande suggestiva installazione a cielo aperto. La mostra, documentata da un particolare catalogo con testo introduttivo di Fulvio Dell’Agnese, e composto da pagine/segnalibro, ritagliabili e utilizzabili, avrà come appendice un’asta pubblica di beneficenza per un importante momento di solidarietà.
Un paio di metri verso la Luna
di Fulvio Dell’Agnese
Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano:
le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri
e in cui la Terra perde lentamente energia.
I. Calvino, La distanza della Luna
“Uccidiamo il chiaro di luna!”, tuonava Marinetti con i suoi Futuristi un secolo fa, scosso dai fremiti di infantile arroganza che gli facevano sognare un cielo imbevuto della sola luce di infinite “lune elettriche”, simbolo supremo di modernità.
La modernità…
A guardarlo oggi, fa tenerezza il gracile e sgraziato LEM – a suo tempo orgoglio dell’umana tecnologia – che condusse Armstrong e Aldrin sulla Luna nel ’69, con la sua esile scaletta da cui il piede dell’astronauta spiccò goffamente l’ultimo saltello da conquistatore planetario.
Nei miei ricordi di bambino quella scaletta, osservata ad occhi sgranati nel bianco e nero (altrettanto sgranato) del tubo catodico, è inscindibile per magia da quella che dava accesso alla casa – sospesa su un poroso mondo di gommapiuma – del cavalier Stampella, di cui sento ancora nitidamente la voce nasale dall’accento genovese; era uno degli “Animatti” di Tinin e Velia Mantegazza, i pupazzi animati che allora furoreggiavano – più vicini a Ionesco che ai cartoni animati di oggi – alla “Tivù dei ragazzi”.
La stessa che poco dopo mi avrebbe fatto provare i primi vaghi fremiti erotici di fronte alle grazie femminili inguainate in tutine di rete delle ragazze dai capelli viola di Base Luna, in una popolare serie di telefilm.
Basi culturali robuste, vedete, le mie.
Alla Luna si sono poeticamente protesi in molti; qualcuno c’è pure arrivato, magari sparato da un cannone come il Barone di Münchausen, e l’ha descritta. Lo fece nel II sec. d.C. Luciano di Samòsata, che nella Storia vera dedica al satellite e ai seleniti pagine di puro delirio visivo, da far impallidire Salvador Dalì, Burroughs e tutti i consumatori di LSD degli anni sessanta: basti dire che la sua luna è una specie di comunità omosessuale dalle abitudini riproduttive irriferibili, in cui va di moda bere aria compressa! Dettaglio questo che avrebbe entusiasmato Marinetti; ma lui, purtroppo, la cultura classica la considerava una palla al piede…
Prima del Romanticismo, prima di Leopardi e Friedrich, la Luna è però anzitutto quella di Ariosto. Quella dove Astolfo va alla ricerca, tra i mille residui dell’esistere terreno, del senno di Orlando. Quella dove oggi potremmo sperare di rinvenire il senso etico ed estetico che germogliava spontaneo in cortile prima dei grandi smottamenti di volgarità che paiono aver invaso la nostra tecnologica, iperconnessa quotidianità.
“La luna ariostesca è un immenso giacimento di astrazioni, e pensieri, e desideri. Un mondo alla rovescia di per sé impalpabile, spirituale, che tuttavia prende forma e corpo e odore e colore”1; nella grande, ironica poesia dell’autore emiliano, come nelle invenzioni odierne di un gruppo di artisti che hanno la sfrontatezza di radunarsi in un borgo di campagna, piccola versione rurale di un’utopica città ideale, per dar vita a un’installazione collettiva fatta di pioli e sguardi all’insù.
Le loro scale, nell’ispirazione complessiva dello stravagante consesso, sono figlie di quelle con cui i protagonisti del racconto d’apertura delle Cosmicomiche di Italo Calvino riuscivano a balzare su di una Luna di incantata familiarità, non ancora lontana dalla Terra, sorta di enorme cetaceo incombente sospeso a pelo d’acqua.
Quale che sia il respiro della loro struttura, dalla geometria concettuale alla germinazione rampicante (di cosa? Un Arbor vitae o un novello fagiolo magico pronto a forare le nubi?), sono scale che paiono quasi simboleggiare il proiettarsi nel mondo della non immediata tangibilità di ogni atto di pensiero, di ogni riflessione culturale, che costruisce nell’impalpabilità della meditazione consapevolezza individuale e coscienza civile.
In tal senso, ancora una volta “la luna [si dimostra] in una lontananza dialogica con la terra […], in una lontananza benefica, destinale” 2. Volgere lo sguardo alla Luna da uno dei pioli di queste scale potrebbe rivelarsi salutare per prendere le distanze da fissità di visuale ancorate alle certezze dell’abitudine, per sollevarsi dalla scontata adesione a un punto di vista dato all’intuizione di un’alternativa; magari biancheggiante nell’oscurità.
Due metri d’altezza, rispetto alla Luna, sono pochi; ma “proprio da questo punto estremo di osservazione si può constatare che la meno esplorata, in fin dei conti, è la lontananza dell’individuo, la lontananza dell’individuo da se stesso”3.
UNA SCALA PER LA LUNA è una esposizione di arte contemporanea in cui agli artisti è stato chiesto di ispirarsi al primo racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino, La distanza della Luna, e di realizzare una propria “scala per la Luna”. Le opere formeranno una unica grande suggestiva installazione a cielo aperto. La mostra, documentata da un particolare catalogo con testo introduttivo di Fulvio Dell’Agnese, e composto da pagine/segnalibro, ritagliabili e utilizzabili, avrà come appendice un’asta pubblica di beneficenza per un importante momento di solidarietà.
Un paio di metri verso la Luna
di Fulvio Dell’Agnese
Furono le maree che a poco a poco la spinsero lontano:
le maree che lei Luna provoca nelle acque terrestri
e in cui la Terra perde lentamente energia.
I. Calvino, La distanza della Luna
“Uccidiamo il chiaro di luna!”, tuonava Marinetti con i suoi Futuristi un secolo fa, scosso dai fremiti di infantile arroganza che gli facevano sognare un cielo imbevuto della sola luce di infinite “lune elettriche”, simbolo supremo di modernità.
La modernità…
A guardarlo oggi, fa tenerezza il gracile e sgraziato LEM – a suo tempo orgoglio dell’umana tecnologia – che condusse Armstrong e Aldrin sulla Luna nel ’69, con la sua esile scaletta da cui il piede dell’astronauta spiccò goffamente l’ultimo saltello da conquistatore planetario.
Nei miei ricordi di bambino quella scaletta, osservata ad occhi sgranati nel bianco e nero (altrettanto sgranato) del tubo catodico, è inscindibile per magia da quella che dava accesso alla casa – sospesa su un poroso mondo di gommapiuma – del cavalier Stampella, di cui sento ancora nitidamente la voce nasale dall’accento genovese; era uno degli “Animatti” di Tinin e Velia Mantegazza, i pupazzi animati che allora furoreggiavano – più vicini a Ionesco che ai cartoni animati di oggi – alla “Tivù dei ragazzi”.
La stessa che poco dopo mi avrebbe fatto provare i primi vaghi fremiti erotici di fronte alle grazie femminili inguainate in tutine di rete delle ragazze dai capelli viola di Base Luna, in una popolare serie di telefilm.
Basi culturali robuste, vedete, le mie.
Alla Luna si sono poeticamente protesi in molti; qualcuno c’è pure arrivato, magari sparato da un cannone come il Barone di Münchausen, e l’ha descritta. Lo fece nel II sec. d.C. Luciano di Samòsata, che nella Storia vera dedica al satellite e ai seleniti pagine di puro delirio visivo, da far impallidire Salvador Dalì, Burroughs e tutti i consumatori di LSD degli anni sessanta: basti dire che la sua luna è una specie di comunità omosessuale dalle abitudini riproduttive irriferibili, in cui va di moda bere aria compressa! Dettaglio questo che avrebbe entusiasmato Marinetti; ma lui, purtroppo, la cultura classica la considerava una palla al piede…
Prima del Romanticismo, prima di Leopardi e Friedrich, la Luna è però anzitutto quella di Ariosto. Quella dove Astolfo va alla ricerca, tra i mille residui dell’esistere terreno, del senno di Orlando. Quella dove oggi potremmo sperare di rinvenire il senso etico ed estetico che germogliava spontaneo in cortile prima dei grandi smottamenti di volgarità che paiono aver invaso la nostra tecnologica, iperconnessa quotidianità.
“La luna ariostesca è un immenso giacimento di astrazioni, e pensieri, e desideri. Un mondo alla rovescia di per sé impalpabile, spirituale, che tuttavia prende forma e corpo e odore e colore”1; nella grande, ironica poesia dell’autore emiliano, come nelle invenzioni odierne di un gruppo di artisti che hanno la sfrontatezza di radunarsi in un borgo di campagna, piccola versione rurale di un’utopica città ideale, per dar vita a un’installazione collettiva fatta di pioli e sguardi all’insù.
Le loro scale, nell’ispirazione complessiva dello stravagante consesso, sono figlie di quelle con cui i protagonisti del racconto d’apertura delle Cosmicomiche di Italo Calvino riuscivano a balzare su di una Luna di incantata familiarità, non ancora lontana dalla Terra, sorta di enorme cetaceo incombente sospeso a pelo d’acqua.
Quale che sia il respiro della loro struttura, dalla geometria concettuale alla germinazione rampicante (di cosa? Un Arbor vitae o un novello fagiolo magico pronto a forare le nubi?), sono scale che paiono quasi simboleggiare il proiettarsi nel mondo della non immediata tangibilità di ogni atto di pensiero, di ogni riflessione culturale, che costruisce nell’impalpabilità della meditazione consapevolezza individuale e coscienza civile.
In tal senso, ancora una volta “la luna [si dimostra] in una lontananza dialogica con la terra […], in una lontananza benefica, destinale” 2. Volgere lo sguardo alla Luna da uno dei pioli di queste scale potrebbe rivelarsi salutare per prendere le distanze da fissità di visuale ancorate alle certezze dell’abitudine, per sollevarsi dalla scontata adesione a un punto di vista dato all’intuizione di un’alternativa; magari biancheggiante nell’oscurità.
Due metri d’altezza, rispetto alla Luna, sono pochi; ma “proprio da questo punto estremo di osservazione si può constatare che la meno esplorata, in fin dei conti, è la lontananza dell’individuo, la lontananza dell’individuo da se stesso”3.
25
giugno 2010
Una scala per la Luna – Omaggio a Calvino
Dal 25 giugno al 30 luglio 2010
arte contemporanea
Location
BORGO FORNASIR
Cervignano Del Friuli, Borgo Fornasir , 2, (Udine)
Cervignano Del Friuli, Borgo Fornasir , 2, (Udine)
Orario di apertura
sempre aperto
Vernissage
25 Giugno 2010, ore 21.15
Sito web
www.artecorrente.it
Autore
Curatore