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Van Leo – Photographs
Nella mostra vengono presentate 50 stampe originali realizzate negli anni Novanta da negativi antichi. Esse costituiscono uno straordinario panorama della società egiziana dell’epoca dorata e cosmopolita ma permettono anche di avvicinare una grande personalità artistica rimasta fino ad oggi ancora sconosciuta in Italia
Comunicato stampa
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Van Leo fotografo
Che fotografo è stato Van Leo ? perché la sua opera è importante in rapporto alla produzione fotografica in Medio Oriente ? e a un contesto più generale ? diversi critici hanno già risposto almeno alle prime di queste domande: le foto di Van Leo costituiscono un documento inestimabile della società egiziana degli ultimi cinquant’anni; inoltre esse provano che qualcuno da qualche parte nel mondo arabo aveva saputo fare della fotografia un linguaggio, un’arte. Se poi si considerano le cose da un altro punto di vista, le migliaia di ritratti femminili e maschili, le migliaia di facce che Van Leo ha incastonato come gemme su montature di luci preziose e di spazi artificiali, i quattrocento e più autoritratti e le inconsuete vedute all’aperto, paesaggi e ritratti “rubati” a qualche occasionale figura interessante che gli capitava di incontrare, sono certo una collezione di documenti di un’epoca e di una società affascinante e perduta […], ma anche espressione di una ricerca libera e ricca di invenzioni, inequivocabile manifestazione di “stile”, termine sempre singolarmente debole quando riferito alla fotografia ma comunque almeno in parte efficace. Van Leo è riuscito a stabilire un rapporto particolare con il soggetto basato sull’interpretazione, e in un certo senso ha avuto la tenacia di dare forma a un genere a se stante, autonomo sia rispetto alla fotografia di moda […] sia al ritratto “psicologico” o naturalista.
In altre parole, qui l’atto interpretativo è trasfigurante eppure rivelatore. La cura di tutti i particolari, non solo del “set”, della messinscena e delle luci, ma anche del taglio, della posa, dell’espressione e poi dello sviluppo e del ritocco, che Van Leo non ha mai delegato a nessuno, provano la sua abilità e il suo talento non solo visivo ma manuale, affine in qualche misura a una pratica pittorica. Pratica che Van Leo probabilmente non disdegnava affatto […], e a cui anzi aveva sempre delegato la spinosa questione del colore nella fotografia, ben diversa da quella della “fotografia a colori”, oggetto di una condanna insindacabile e senza appello. Considerato che, secondo lui, la natura dell’immagine fotografica è il bianco e nero, in perfetta consonanza con le posizioni degli straight photographers e dei redattori di “Camera Work”, va segnalato infatti il suo non occasionale ricorso alla collaborazione di un acquerellista per completare alcune stampe con un velo colorato “alla maniera” del pittorialismo ottocentesco.
Per questo le sue opere sembrano rispondere a un gusto anomalo in rapporto alla maggior parte dei prodotti di fotografi europei e americani attivi nella stessa fase, fra gli anni Quaranta e Sessanta; il colore vi sottolinea la patina delle cose, la pelle, le labbra, gli abiti senza tuttavia simulare un improbabile naturalismo. Van Leo tollerava senz’altro meglio questa doppia finzione piuttosto che la spesso sciatta pretesa di verità della fotografia a colori. Anzi, sembrava compiacersi dell’eccesso di artificialità, della dimensione un po’ retrò di queste immagini, del loro porsi esplicitamente dal lato dell’arte, della sofisticazione persino, dell’haute couture invece che del pret à porter fotografico.
Molto spesso queste fotografie acquerellate presentano un tono dominante, una specie di delicata atmosfera modulata sui timbri rosati dei volti, delle scollature, delle mani, insomma delle parti del corpo esposte allo sguardo; il “valore aggiunto” che Van Leo cerca è evidentemente decorativo non mimetico. Infatti, a maggior ragione in queste immagini “pittorialiste”, egli si dimostra un fotografo “all’antica”, infastidito della facilità del video, dell’istantanea, delle pellicole a colori, e scandalizzato anche dai colleghi che si piegano alle circostanze, scelgono i soggetti più vendibili, sacrificano “l’arte” al denaro. Non a caso nell’89, quando la stessa fotografia in bianco e nero è già diventata una ricercatezza da amatori, Van Leo decide addirittura di acquerellare i ritratti della cantante Dalida, ritoccandole pesantemente il volto in modo da cancellare rughe e segni del tempo e fare di lei una specie di simulacro ottocentesco. È una specie di rivincita dello stile più elaborato e quasi stucchevole della fotografia, sbattuto in faccia all’aspetto trasandato dell’istantanea.
tratto da “Un fotografo di nome Van Leo” Ed. Skira 2007
Martina Corgnati
Che fotografo è stato Van Leo ? perché la sua opera è importante in rapporto alla produzione fotografica in Medio Oriente ? e a un contesto più generale ? diversi critici hanno già risposto almeno alle prime di queste domande: le foto di Van Leo costituiscono un documento inestimabile della società egiziana degli ultimi cinquant’anni; inoltre esse provano che qualcuno da qualche parte nel mondo arabo aveva saputo fare della fotografia un linguaggio, un’arte. Se poi si considerano le cose da un altro punto di vista, le migliaia di ritratti femminili e maschili, le migliaia di facce che Van Leo ha incastonato come gemme su montature di luci preziose e di spazi artificiali, i quattrocento e più autoritratti e le inconsuete vedute all’aperto, paesaggi e ritratti “rubati” a qualche occasionale figura interessante che gli capitava di incontrare, sono certo una collezione di documenti di un’epoca e di una società affascinante e perduta […], ma anche espressione di una ricerca libera e ricca di invenzioni, inequivocabile manifestazione di “stile”, termine sempre singolarmente debole quando riferito alla fotografia ma comunque almeno in parte efficace. Van Leo è riuscito a stabilire un rapporto particolare con il soggetto basato sull’interpretazione, e in un certo senso ha avuto la tenacia di dare forma a un genere a se stante, autonomo sia rispetto alla fotografia di moda […] sia al ritratto “psicologico” o naturalista.
In altre parole, qui l’atto interpretativo è trasfigurante eppure rivelatore. La cura di tutti i particolari, non solo del “set”, della messinscena e delle luci, ma anche del taglio, della posa, dell’espressione e poi dello sviluppo e del ritocco, che Van Leo non ha mai delegato a nessuno, provano la sua abilità e il suo talento non solo visivo ma manuale, affine in qualche misura a una pratica pittorica. Pratica che Van Leo probabilmente non disdegnava affatto […], e a cui anzi aveva sempre delegato la spinosa questione del colore nella fotografia, ben diversa da quella della “fotografia a colori”, oggetto di una condanna insindacabile e senza appello. Considerato che, secondo lui, la natura dell’immagine fotografica è il bianco e nero, in perfetta consonanza con le posizioni degli straight photographers e dei redattori di “Camera Work”, va segnalato infatti il suo non occasionale ricorso alla collaborazione di un acquerellista per completare alcune stampe con un velo colorato “alla maniera” del pittorialismo ottocentesco.
Per questo le sue opere sembrano rispondere a un gusto anomalo in rapporto alla maggior parte dei prodotti di fotografi europei e americani attivi nella stessa fase, fra gli anni Quaranta e Sessanta; il colore vi sottolinea la patina delle cose, la pelle, le labbra, gli abiti senza tuttavia simulare un improbabile naturalismo. Van Leo tollerava senz’altro meglio questa doppia finzione piuttosto che la spesso sciatta pretesa di verità della fotografia a colori. Anzi, sembrava compiacersi dell’eccesso di artificialità, della dimensione un po’ retrò di queste immagini, del loro porsi esplicitamente dal lato dell’arte, della sofisticazione persino, dell’haute couture invece che del pret à porter fotografico.
Molto spesso queste fotografie acquerellate presentano un tono dominante, una specie di delicata atmosfera modulata sui timbri rosati dei volti, delle scollature, delle mani, insomma delle parti del corpo esposte allo sguardo; il “valore aggiunto” che Van Leo cerca è evidentemente decorativo non mimetico. Infatti, a maggior ragione in queste immagini “pittorialiste”, egli si dimostra un fotografo “all’antica”, infastidito della facilità del video, dell’istantanea, delle pellicole a colori, e scandalizzato anche dai colleghi che si piegano alle circostanze, scelgono i soggetti più vendibili, sacrificano “l’arte” al denaro. Non a caso nell’89, quando la stessa fotografia in bianco e nero è già diventata una ricercatezza da amatori, Van Leo decide addirittura di acquerellare i ritratti della cantante Dalida, ritoccandole pesantemente il volto in modo da cancellare rughe e segni del tempo e fare di lei una specie di simulacro ottocentesco. È una specie di rivincita dello stile più elaborato e quasi stucchevole della fotografia, sbattuto in faccia all’aspetto trasandato dell’istantanea.
tratto da “Un fotografo di nome Van Leo” Ed. Skira 2007
Martina Corgnati
27
ottobre 2007
Van Leo – Photographs
Dal 27 ottobre al 28 novembre 2007
fotografia
Location
DIMA ART&DESIGN
Vimercate, Via Crocefisso, 2A/B, (Monza E Brianza)
Vimercate, Via Crocefisso, 2A/B, (Monza E Brianza)
Orario di apertura
da martedì a sabato dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.30 alle 19.30
Vernissage
27 Ottobre 2007, 17 - 21
Editore
SKIRA
Autore
Curatore