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Venezia. Capolavori dal XIV al XVIII secolo nella Collezione Lia
VENEZIA. Capolavori dal XIV al XVIII secolo nella Collezione Lia
Comunicato stampa
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Per la prima volta offerta al pubblico nella sua interezza, composta di arredi, dipinti, miniature, oggetti e sculture, la sezione veneziana della Collezione Lia si offre al visitatore come un mosaico sensitivo e appassionato.
L’occasione, davvero importante, è offerta dalla mostra “VENEZIA. Capolavori dal XIV al XVIII secolo nella Collezione Lia” che riunisce, dall’18 marzo al primo ottobre nella sede del Museo Lia, oltre un centinaio di opere, in parte presenti nello stesso Museo e in parte provenienti dalla Collezione privata di Amedeo Lia.
Fra esse alcuni straordinari inediti che si assommano ad opere già ben note per restituire il viaggio personale di chi questi oggetti ha scelto, voluto e maneggiato. Quella proposta nella Mostra (curata da Andrea Marmori, che del Museo Lia è direttore) è una Venezia intima e privata, il cui percorso cronologico va dal tardo Duecento per traversare tutto il Settecento e giungere poco oltre.
I primi testi figurativi presentati, fra cui un fragile e raro vetro dorato e graffito della fine del XIII secolo, costituiscono l’avvio dell’esposizione, e riflettono la raffinata capacità espressiva di artisti di cultura composita. Il fiorentino Giusto de’ Menabuoi conduce nella già colta Padova la perfetta espressione linguistica toscana, qui coniugata ed aggiornata: il trittico, dalle dimensioni confidenziali, è un piccolo capolavoro dove la sostenuta cifra espressiva riecheggia in forma ridotta gli affreschi del Battistero di Padova.
Restano sospesi fra età gotica e pienezza espressiva già tutta rinascimentale le eccezionali pagine miniate da Cristoforo Cortese e ancora il grande antifonario prodotto da un Maestro che si forma nell’ambito di Belbello da Pavia, Maestro detto convenzionalmente dell’Antifonario M di san Giorgio Maggiore in virtù della sua impresa principale, sontuoso testo dove l’estesa esuberanza decorativa esalta e dilata le ampie iniziali istoriate.
A Padova il decennio trascorso da Donatello alla metà del Quattrocento aveva lasciato un’orma indelebile, dando l’avvio a generazioni di artisti che produrranno sculture in bronzo di sensitiva naturalezza. I calchi di piccoli animali dal vero, i raffinati oggetti d’uso composti da figure mitologiche e ancora la minuta riproduzione di monumenti classici concretizzano il miraggio del collezionista rinascimentale, che raggiunge la sognata possibilità di stringer fra le mani l’antichità imperitura. Il mondo antico sembra risvegliato dalla capacità linguistica ed espressiva dei grandi artisti padovani che inventano una classicità ora aggiornata alle esigenze dei colti committenti.
La luce corrusca del Rinascimento lagunare è presente attraverso i suoi protagonisti: la grande famiglia muranese dei Vivarini, rappresentati nell’esposizione dal seducente San Girolamo di Alvise, posto a battersi il petto in un deserto umido di laguna, e da due importanti tavole sacre di Antonio, e poi i Bellini, Gentile e Giovanni, del quale è presentata un’eccezionale Natività, già parte di un paliotto, realizzata quasi certamente all’interno della bottega paterna, e pertanto databile agli esordi della sua fulgida carriera.
E ancora le fiabe mitologiche di Sebastiano del Piombo, i volti dell’anima ritratti da Tiziano e Veronese, la passione del Figlio di Dio raccontata ora con vigore dall’ombroso Cariani, sofferenza sussurrata a labbra serrate e guardata con occhio pietoso, e poi affrontata invece con ritmo di danza sincopata da Tintoretto, testi tutti che immettono il visitatore alla grande fioritura rinascimentale, quando Venezia si afferma quale epicentro culturale dal quale si dipartono esperienze artistiche senza pari. A Brescia e a Bergamo, possedimenti veneziani in terraferma, la narrazione pittorica si mescola agli umori lombardi, ed affiora una concretezza espressiva del tutto peculiare: si veda l’assorta Dama di Moroni, senza un pensiero nel cuore, la pupilla nitida e immobile e la fronte deserta, sospesa tutta in ferma attesa di un domani uguale all’oggi, quasi cifra araldica posta a celebrar se stessa, stagliata sul fondo monocromo.
E poi il fastoso dipinto veneziano in cui vengono celebrate le nozze tra Bacco ed Arianna, ricondotto ad Ermanno Stroifi dopo una lunga attribuzione a Bernardo Strozzi: l’umano Bacco ha le mani arrossate di chi lavora la terra, e della terra reca i frutti, bruno di vita condotta all’aria aperta, vivace nella crudezza della sua carne, e si rivolge ad Arianna, spogliata in una nudità affaticata e sensitiva, lo sguardo incapace di sostenere altri sguardi. Summa perfetta, in cui Caravaggio e Rubens paiono essersi accordati in quel voluttuoso gesto michelangiolesco di mani che esitano a sfiorarsi.
Il Settecento, capitolo irrinunciabile, è del tutto dedicato a Venezia, fragile capitale del nuovo secolo, dove la pittura di paesaggio è in grado di dilatare lo sguardo nelle vaste vedute di Albotto, Canaletto, Bellotto, Marieschi, Guardi. Sensibili ritrattisti del bacino di san Marco, della piazza, dei canali, dei monumenti, i paesaggisti narrano con timbri differenti il fasto della laguna, dall’acribia lucida e malinconica di Bellotto ai tremuli capricci di Guardi. Le dodici istantanee di Grubacs completano in maniera solida e sostenuta la volontà narrativa dei vedutisti che travalicano il XVIII secolo, con ancora negli occhi e nello sguardo la felice stagione del vedutismo settecentesco, sia pur a scarto ridotto.
Ed ecco che dall’esterno la mostra conduce agli spazi domestici, suggeriti dai rari mobili e dalla raffinata suppellettile: il Gentiluomo ritratto di Pietro Longhi e la Dama di Rosalba Carriera sono i protagonisti leggeri e vaporosi di questa sezione, impareggiabili rappresentati degli ultimi bagliori della grande stagione veneziana, quando il fasto e i tempi di una vita senza tempo sembrano sostare solo un attimo in stupita attesa del mondo che cambia.
L’occasione, davvero importante, è offerta dalla mostra “VENEZIA. Capolavori dal XIV al XVIII secolo nella Collezione Lia” che riunisce, dall’18 marzo al primo ottobre nella sede del Museo Lia, oltre un centinaio di opere, in parte presenti nello stesso Museo e in parte provenienti dalla Collezione privata di Amedeo Lia.
Fra esse alcuni straordinari inediti che si assommano ad opere già ben note per restituire il viaggio personale di chi questi oggetti ha scelto, voluto e maneggiato. Quella proposta nella Mostra (curata da Andrea Marmori, che del Museo Lia è direttore) è una Venezia intima e privata, il cui percorso cronologico va dal tardo Duecento per traversare tutto il Settecento e giungere poco oltre.
I primi testi figurativi presentati, fra cui un fragile e raro vetro dorato e graffito della fine del XIII secolo, costituiscono l’avvio dell’esposizione, e riflettono la raffinata capacità espressiva di artisti di cultura composita. Il fiorentino Giusto de’ Menabuoi conduce nella già colta Padova la perfetta espressione linguistica toscana, qui coniugata ed aggiornata: il trittico, dalle dimensioni confidenziali, è un piccolo capolavoro dove la sostenuta cifra espressiva riecheggia in forma ridotta gli affreschi del Battistero di Padova.
Restano sospesi fra età gotica e pienezza espressiva già tutta rinascimentale le eccezionali pagine miniate da Cristoforo Cortese e ancora il grande antifonario prodotto da un Maestro che si forma nell’ambito di Belbello da Pavia, Maestro detto convenzionalmente dell’Antifonario M di san Giorgio Maggiore in virtù della sua impresa principale, sontuoso testo dove l’estesa esuberanza decorativa esalta e dilata le ampie iniziali istoriate.
A Padova il decennio trascorso da Donatello alla metà del Quattrocento aveva lasciato un’orma indelebile, dando l’avvio a generazioni di artisti che produrranno sculture in bronzo di sensitiva naturalezza. I calchi di piccoli animali dal vero, i raffinati oggetti d’uso composti da figure mitologiche e ancora la minuta riproduzione di monumenti classici concretizzano il miraggio del collezionista rinascimentale, che raggiunge la sognata possibilità di stringer fra le mani l’antichità imperitura. Il mondo antico sembra risvegliato dalla capacità linguistica ed espressiva dei grandi artisti padovani che inventano una classicità ora aggiornata alle esigenze dei colti committenti.
La luce corrusca del Rinascimento lagunare è presente attraverso i suoi protagonisti: la grande famiglia muranese dei Vivarini, rappresentati nell’esposizione dal seducente San Girolamo di Alvise, posto a battersi il petto in un deserto umido di laguna, e da due importanti tavole sacre di Antonio, e poi i Bellini, Gentile e Giovanni, del quale è presentata un’eccezionale Natività, già parte di un paliotto, realizzata quasi certamente all’interno della bottega paterna, e pertanto databile agli esordi della sua fulgida carriera.
E ancora le fiabe mitologiche di Sebastiano del Piombo, i volti dell’anima ritratti da Tiziano e Veronese, la passione del Figlio di Dio raccontata ora con vigore dall’ombroso Cariani, sofferenza sussurrata a labbra serrate e guardata con occhio pietoso, e poi affrontata invece con ritmo di danza sincopata da Tintoretto, testi tutti che immettono il visitatore alla grande fioritura rinascimentale, quando Venezia si afferma quale epicentro culturale dal quale si dipartono esperienze artistiche senza pari. A Brescia e a Bergamo, possedimenti veneziani in terraferma, la narrazione pittorica si mescola agli umori lombardi, ed affiora una concretezza espressiva del tutto peculiare: si veda l’assorta Dama di Moroni, senza un pensiero nel cuore, la pupilla nitida e immobile e la fronte deserta, sospesa tutta in ferma attesa di un domani uguale all’oggi, quasi cifra araldica posta a celebrar se stessa, stagliata sul fondo monocromo.
E poi il fastoso dipinto veneziano in cui vengono celebrate le nozze tra Bacco ed Arianna, ricondotto ad Ermanno Stroifi dopo una lunga attribuzione a Bernardo Strozzi: l’umano Bacco ha le mani arrossate di chi lavora la terra, e della terra reca i frutti, bruno di vita condotta all’aria aperta, vivace nella crudezza della sua carne, e si rivolge ad Arianna, spogliata in una nudità affaticata e sensitiva, lo sguardo incapace di sostenere altri sguardi. Summa perfetta, in cui Caravaggio e Rubens paiono essersi accordati in quel voluttuoso gesto michelangiolesco di mani che esitano a sfiorarsi.
Il Settecento, capitolo irrinunciabile, è del tutto dedicato a Venezia, fragile capitale del nuovo secolo, dove la pittura di paesaggio è in grado di dilatare lo sguardo nelle vaste vedute di Albotto, Canaletto, Bellotto, Marieschi, Guardi. Sensibili ritrattisti del bacino di san Marco, della piazza, dei canali, dei monumenti, i paesaggisti narrano con timbri differenti il fasto della laguna, dall’acribia lucida e malinconica di Bellotto ai tremuli capricci di Guardi. Le dodici istantanee di Grubacs completano in maniera solida e sostenuta la volontà narrativa dei vedutisti che travalicano il XVIII secolo, con ancora negli occhi e nello sguardo la felice stagione del vedutismo settecentesco, sia pur a scarto ridotto.
Ed ecco che dall’esterno la mostra conduce agli spazi domestici, suggeriti dai rari mobili e dalla raffinata suppellettile: il Gentiluomo ritratto di Pietro Longhi e la Dama di Rosalba Carriera sono i protagonisti leggeri e vaporosi di questa sezione, impareggiabili rappresentati degli ultimi bagliori della grande stagione veneziana, quando il fasto e i tempi di una vita senza tempo sembrano sostare solo un attimo in stupita attesa del mondo che cambia.
18
marzo 2006
Venezia. Capolavori dal XIV al XVIII secolo nella Collezione Lia
Dal 18 marzo al primo ottobre 2006
arte antica
Location
MUSEO CIVICO AMEDEO LIA
La Spezia, Via Del Prione, 234, (La Spezia)
La Spezia, Via Del Prione, 234, (La Spezia)
Biglietti
6 intero, ridotto 4 (il biglietto di ingresso alla mostra è comprensivo del biglietto di ingresso al Museo)
Orario di apertura
10 – 18, lunedì chiuso
Vernissage
18 Marzo 2006, ore 12
Editore
SILVANA EDITORIALE
Ufficio stampa
STUDIO ESSECI
Autore
Curatore