Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Vinicio Momoli – Nexiture
Martedì 1 luglio 2014, alle ore 18.00, presso l’Abbazia di Spineto via Molino di Spineto 8 Sarteano (Si), si inaugura l’antologica di Vinicio Momoli “Nexiture”, a cura di Renato Barilli e Edoardo Di Mauro
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Chi scrive ha sempre guardato con occhio il più possibile attento l’evoluzione fenomenologica
delle arti, arrivando alla convinzione che il progresso della tecnologia gioca da sempre un ruolo
centrale in quello che è l’adeguarsi del linguaggio a nuove impostazioni formali. Così come la
modernità venne contrassegnata in origine dall’elaborazione della prospettiva come metodo di
inquadramento spaziale, dove l’opera veniva delimitata nel recinto bidimensionale della tela,
all’interno della quale l’artista dava sfogo alla sua inventiva in relazione al rapporto intercorrente
tra figura ed ambiente circostante, che troverà piena applicazione con la visione aeiriforme ed il
gioco di luci ed ombre tipico dell’arte barocca, di pari la contemporaneità non può essere
interpretabile od addirittura concepibile senza tenere presente la rivoluzione scatenata dall’avvento
delle tecnologie fondate sull’elettromagnetismo. Dopo l’ultima grande invenzione moderna, la
fotografia, che libera l’artista dall’onere di essere l’unico possibile riproduttore della realtà, dando
il via alla fase dell’espressionismo e dell’astrazione, la stagione della contemporaneità tende
all’ambizione di far fuoriuscire l’arte dal suo classico confine, fosse esso lo spazio pittorico, od il
classico monumentalismo, per invadere lo spazio circostante, esaltando il procedimento mentale e
scapito di quello manuale, con l’arte vista come evento cerebrale ed immateriale e l’artista come lo
sciamano in grado di “virgolettare” artisticamente l’universo mondo. La non rinviabile necessità di
violare tutti i dogmi e tutti i tabù, che troverà il suo culmine con la stagione del Concettuale degli
anni ’60 e ’70, dove si arriverà al “grado zero” dell’espressione artistica e dove la manualità, e
quindi la pittura, verranno messe ignominiosamente al bando, porterà ad una fase successiva di
grande libertà formale dove questi valori, affiancati da altri, torneranno decisamente in auge.
Questi primi anni del nuovo millennio, esauritisi fortunatamente gli eccessi di disordine teorico e
produttivo degli anni ’90, fase decadente del primo ciclo del post moderno, stanno permettendo,
nell’ambito di una scena sempre estremamente affollata di sollecitazioni visive, ed è ormai
inevitabile sia cosi, ma più fluida e contrassegnata, specie da parte dei giovani artisti, da un
maggiore tasso di umiltà e rigore progettuale, momenti di importante verifica ed aggiornamento di
fasi importanti dell’arte degli ultimi decenni del Novecento, sia rispetto ai flussi generazionali che
alle singole personalità, di cui ora si può verificare con calma il progetto e l’attualità dello stile.
Attualità è un termine che ben si confà all’opera di Vinicio Momoli. Come ben sottolineato da
Renato Barilli, nel secondo e significativo testo che accompagna questa vasta antologica dell'artista
nella sua città di origine e residenza, quella Castelfranco Veneto talmente permeata dal mito del
grande Giorgione da avergli dedicato, cosa davvero unica, addirrittura la squadra di calcio locale,
le opere di Momoli, in particolare le installazioni, da sempre accompagnate da una linea di ricerca
bidimensionale e comunque rigorosamente aniconica, fanno venire in mente, come riferimento
storico, inevitabile ai nostri tempi e non solo, il Minimalismo, corrente di spicco della vasta filiera
concettuale, sviluppatosi soprattutto negli Stati Uniti, che ha avuto in Italia una figura di spicco
come Gianni Piacentino. Il Minimalismo americano rappresentava in sostanza un primo passaggio
nell'inevitabile percorso di fuori uscita dal sito della bidimensione. Le forme geometriche, ad
angolo retto, dell'astrazione di matrice modernista, andavano ad invadere l'ambiente con manufatti
pesanti ed inerti. Il rigore eccessivo ed urtante di questa prima versione venne poi corretto, in
particolare dal capofila di quella tendenza, Bob Morris, che iniziò ad introdurre materiali
maggiormente malleabili ed organici, come i feltri. Momoli nasce nel 1942, quindi, da un punto di
vista generazionale, è del tuitto omologo alla data di nascita dei principali esponenti dell'Arte
Povera. Tuttavia, come per diversi altri artisti, le sue prove hanno saputo evolversi ed essere lette
al meglio in una fase storica successiva, quella inauguratasi, in pieno clima post moderno, a partire
dalla metà degli anni Ottanta, come ebbi modo di sottolineare in una mostra curata nel 1994 presso
la Rocca Paolina di Perugia, dal titolo “Carpe diem...una generazione italiana”. L'esordo di
Momoli è datato attorno alla metà degli anni Settanta e l'artista, nel corso degli anni, ha saputo
costruirsi una dimensione inteernazionale, come testimoniato dalle frequenti apparizioni sui
palcoscenici di Francia, Spagna e Canada. Come detto, le opere di Momoli, sempre caratterizzate
da un estremo rigore, ma mai dal vincolo geometrico dell'angolo retto, sempre contraddetto dal
gioco dei piani, dei pieni e dei vuoti, dal ritmo e della cromia, alternano la dimensione a suolo con
quella su parete, spesso integrandole nella medesima installazione. Il criterio di occupazione
dell'ambiente tipico dell'artista veneto, è senza dubbio sintonico alla categoria della
“disseminazione”, cui il critico Giorgio Bonomi ha dedicato pochi anni or sono un saggio. La
disseminazione è una categoria usata dal filosofo Derrida negli anni Settanta relativamente al
linguaggio e da Filiberto Menna per lo specifico dell'arte, per indicare una sorta di deflagrazione
dal sito bidimensionale verso l'ambiente e lo spazio. Non si può comprendere in pieno il lavoro di
Vinicio Momoli prescindendo dal suo originario e parallelo lavoro di architetto, che ne fa un
artifex nel senso pieno del termine, in grado di abbinare il rigore concettuale all'applicazione
pratica, far dialogare sfera alta e materiale della cultura. Questa dfoppia anima dell'artista è
evidente sia per l'attenzione alla plastica regolarità e ritmo delle forme e per il loro concatenarsi in
insiemi dotati di senso, sia per la capacità di immaginare l'opera calata, secondo le opportunità e
l'ispirazione, in contesti abitativi, urbani od ambientali, quindi sempre relazionati con l'elemento
umano, ed in grado di stabilire un rapporto di partecipazione emotiva e sensoriale, quindi estetica,
con i fruitori. Come già sottolineato in una precedente presentazione di cui riprendo alcune parti,
data la loro attendibilità nei confronti del percorso dell'artista, l'oggettualismo di Momoli si
concretizza con la realizzazione di strutture di grande formato, sempre contraddistinte da quel
minimalismo “soffice” citato in precedenza, che possono ricordare il funzionalismo di elementi
d'arredo che ibridano vari spunti formali provenienti dalla tradizione novecentescoa assemblati in
conformità ad uno schema razionale e studiato nei minimi particolari, che tutto delega al progetto e
poco all'improvvisazione, ma con la somma in apparenza contraddittoria di un esito artistico ed
antieconomico che li pone al di fuori di qualsiasi ipotesi di produzione seriale. La loro sostanziale
non utilità, se non in termini di appagamento estetico, li dota di una funzione liberatoria ed
anticonsumistica. In questo caso si può parlare, nel senso più alto ed “artistico” del termine, di “art
design”. Il riferimento storico va inevitabilmente in direzione degli anni Cinquanta, al “Movimento
per un Bauhaus Immaginista”, componente organica, sebbene per breve periodo, del
Situazionismo, frutto del pensiero dell'esponente del Gruppo Cobra Asjer Jorn, dove l'artista
olandese, in polemica con il funzionalismo radicale del “Nuovo Bauhaus” di Max Bill, rivendicava
il primato dell'immagine sulla forma e della creatività artistica sulla funzione. Nelle opere
caratterizzanti lo stile di Momoli negli anni Novanta, particolarmenti fecondi per l'artista, fanno
spicco ampie composizioni parietali, costruite secondo un alternarsi di forme primarie decorate da
colori che coprono l'intera gamma cromatica, prodotte con l'impiego di materiali quali gomma,
ferro, e malta. Un'altra variante è la proposta di parallelepipedi di gomma, sempre disposti
serialmente a parete ed illuminati, con la luce a giocare una funzione di collettore di calore e di
energia, oppure disposti, per meglio dire “disseminati”, a suolo, ad assumere la veste di soffici
tappeti. Nelle opere successive fanno la comparsa forme atipiche, mosse, irregolari. Le modalità
tecniche prevedono l'impiego di smalti su plexiglas allestiti sempre in rispetto del dualismo
suolo/parete, oppure di gomma, per mezzo di equilibrate sovrapposizioni di piani. Di rilievo,
nell'ultimo periodo, una serie di lavori dalla cromia intensa e vitale, smalti su specchio, vetro o
plexiglas, ed anche opere di gomma, sempre bidimensionali, dove si esalta l'autonoma funzione
poetica della materia impiegata. Compaiono, in opere recenti , anche lievi accenni figurativi,
elementi biomorfici e sagome umane elementari, che possono ricordare il tracciato segnico di
Capogrossi ed Accardi, ed il richiamo, privo però di inspessimento materico, dell'Art Brut. In
parallelo, ed in particolare evidenza in questa antologica, le imponenti sculture ambientali, fatte
apposta per contestualizzarsi al meglio in luoghi dove siano anche presenti elementi naturali. Chi
scrive è da anni impegnato sul fronte dell'arte pubblica, forse l'unico, in questi tempi disordinati di
globalizzazione finanziaria e culturale, di quotazione esagerate e del “brand” delle star system che
ripropongono in negativo quell'aura dell'opera d'arte che, secondo Benjamin, si pensava
definitivamente estinta causa l'avvento degli strumenti di riproducibilità tecnica, in cui l'arte
riscopre la sua eticità e la sua vocazione didattica. In queste possenti strutture, fatte di pietra
plasmata con morfologie biomorfiche, Momoli scava aperture che creano varchi nella materia,
umanizzandola, ed attenuando la sua tetragonicità. L'estrema attualità di queste sculture si collega
alla più nobile tradizione classica. Formulata concettualmente da un gigante del pensiero
protomedievale come Plotino che sosteneva come l'artista, forte della sua interiorità e
consapevolezza spirituale, dovesse intervenite sul corpo inerte della materia per dargli forma,
quindi vita, tesi rafforzata da Michelangelo nel suo celebre detto dove afferma che la scultura è
quella che si fa “per forza di levare”.
Edoardo Di Mauro, febbraio 2014
Renato Barilli
Momoli, o il trionfo del nesso
E’ subito evidente che il lavoro di Vinicio Momoli si ispira al
Minimalismo, grande ed essenziale movimento emerso nel quadro
della rivoluzione sessantottesca, soprattutto perché ha insegnato a
tutti la necessità di invadere lo spazio con forme massicce e di totale
inerzia materica. Ma quel movimento, nelle versioni dei principali
esponenti, Bob Morris, Donald Judd, Carl Andre, e perfino nei neon di
Dan Flavin, soffriva di una tara fastidiosa, confermava cioè la
dipendenza da un codice morfologico fondato sull’angolo retto, sul
diedro tagliente ed altre soluzioni di totale soggezione al vecchio
astrattismo geometrico, anche se rinnovato immettendovi all’interno
forti dosi di materialità allo stato puro. Del resto, proprio il capofila
Morris dopo poco ha ben compreso l’inattualità parziale della loro
prima versione e ha capovolto il prodotto passando a praticare una
radicale Antiform, affidandosi a materiali tipicamente soft, quali i feltri
molli e cascanti. Momoli ha effettuato pure lui questa decisiva
correzione, avvalendosi fin dall’inizio del suo percorso di materiali più
che altro di origine organica, legno, stoffa, o anche pietra, ma
proveniente da remoti scavi geologici, da cui ha preso pure la
modalità anch’essa primigenia della stratificazione, procedendo a
livelli multipli e sovrapposti. Ma soprattutto, a evitare i rigorismi
dell’astrazione geometrica, il nostro artista ha fatto ricorso a due
espedienti: l’introduzione del colore, un fattore, questo, del tutto
ignorato dai Minimalisti nel loro primo tempo, che volevano far parlare
solo il carattere hard delle superfici metalliche. Momoli invece ha
piacevolmente intervallato le varie giaciture, come farebbe una brava
massaia nel confezionare un piatto di lasagne, procedendo quindi a
collocare in alternanza uno strato di pasta e uno sovrapposto di
condimento, in genere sovrabbondante e quindi tracimante al di là
dello spazio assegnatogli. Passando dal codice domestico della
cucina a quello altrettanto originario dell’arte muratoria, potremmo
anche dire che, proprio come un muratore nel posare mattone su
mattone, Momoli ha procurato che la calce uscisse fuori dai bordi. Ma
soprattutto, ha voluto che la forza di gravità entrasse in gioco, e
dunque, quegli strati pur stesi in orizzontale, si sono fatti panciuti al
loro centro, subendo il peso di quanto veniva accumulato sopra di
loro. A questo modo potremmo anche dire che il Nostro è transitato
subito alla fase dell’Antiform, senza farsi schiacciare troppo da
esigenze di rigorismo formale. Ciò è avvenuto anche quando, in
apparente ossequio ai precetti iniziali del Minimalismo, ha lasciato
perdere i materiali poveri e spontanei di un’arte muratoria casalinga
per adottare lamiere metalliche, magari arieggianti un design intento
a fabbricare piani di tavoli secondo modalità irreprensibili, e dunque
con tesa orizzontalità. Ma anche in questo caso mi sembra che si
possa sempre intravedere un incurvarsi di quei piani al loro centro,
vittime anch’essi di una provvida forza di gravità pronta a inserire una
nota di organicità. Del resto, basta esaminare il titolo globale che
Momoli dà alle sue varie proposte, Nexiture, un neologismo denso di
significati polivalenti. Ci sta la nozione della tessitura, a confermare
un’ispirazione pur sempre di origine organica. Infatti i tessuti si
incontrano in natura, o anche nei prodotti artificiali, purché fatti di
soffici fibre in definitiva ricavate dal mondo vegetale o animale. Il
concetto del legare contestualmente è poi ribadito da quel nexus
pronto ad aggiungersi, e così a ribadire la volontà di pervenire a una
proposta originale e inconfondibile. Ci sono poi altre utili varianti, a
questo “nesso”, a questo nodo gordiano, che l’artista decide di
infrangere con un gesto eloquente. Qualche volta gli strati di pietra si
innalzano in verticale, ma questo non impedisce la volontà dell’artista
di lasciarvi un segno, sembra infatti che egli intenda scagliarvisi
contro, trapassarli da parte a parte, imprimendovi una sagoma in
negativo. E’ anche questo un modo per dichiarare che ai materiali
minimali non spetta mai l’ultima parola, ma che su di essi l’artista
intende sempre lasciare una impronta. Oppure egli si dà a comporli
tra loro, a cercare di inscatolarli reciprocamente, anche qui, in fondo,
agendo come i nostri remoti antenati che per fabbricarsi luoghi di
rifugio mettevano assieme delle lastre prelevate dal suolo. L’idea del
legamento, insomma, regge tutta la produzione di Momoli, al punto
tale che talvolta decide di fare a meno dei pieni e di mettere in
evidenza solo i vuoti, mettendo a nudo il reticolo dei contorni che
avrebbero dovuto incastonare i diversi frammenti prelevati dal mondo
esterno. C’è poi di nuovo un omaggio al Minimalismo, nella versione
di Flavin, in quanto Momoli non rinuncia ad affidare questa sua
decisione di praticare il nesso con ricorso al neon. Tutto si tiene, tutto
si lega, in una vasta operazione di bricolage giocato su tasti
molteplici.
delle arti, arrivando alla convinzione che il progresso della tecnologia gioca da sempre un ruolo
centrale in quello che è l’adeguarsi del linguaggio a nuove impostazioni formali. Così come la
modernità venne contrassegnata in origine dall’elaborazione della prospettiva come metodo di
inquadramento spaziale, dove l’opera veniva delimitata nel recinto bidimensionale della tela,
all’interno della quale l’artista dava sfogo alla sua inventiva in relazione al rapporto intercorrente
tra figura ed ambiente circostante, che troverà piena applicazione con la visione aeiriforme ed il
gioco di luci ed ombre tipico dell’arte barocca, di pari la contemporaneità non può essere
interpretabile od addirittura concepibile senza tenere presente la rivoluzione scatenata dall’avvento
delle tecnologie fondate sull’elettromagnetismo. Dopo l’ultima grande invenzione moderna, la
fotografia, che libera l’artista dall’onere di essere l’unico possibile riproduttore della realtà, dando
il via alla fase dell’espressionismo e dell’astrazione, la stagione della contemporaneità tende
all’ambizione di far fuoriuscire l’arte dal suo classico confine, fosse esso lo spazio pittorico, od il
classico monumentalismo, per invadere lo spazio circostante, esaltando il procedimento mentale e
scapito di quello manuale, con l’arte vista come evento cerebrale ed immateriale e l’artista come lo
sciamano in grado di “virgolettare” artisticamente l’universo mondo. La non rinviabile necessità di
violare tutti i dogmi e tutti i tabù, che troverà il suo culmine con la stagione del Concettuale degli
anni ’60 e ’70, dove si arriverà al “grado zero” dell’espressione artistica e dove la manualità, e
quindi la pittura, verranno messe ignominiosamente al bando, porterà ad una fase successiva di
grande libertà formale dove questi valori, affiancati da altri, torneranno decisamente in auge.
Questi primi anni del nuovo millennio, esauritisi fortunatamente gli eccessi di disordine teorico e
produttivo degli anni ’90, fase decadente del primo ciclo del post moderno, stanno permettendo,
nell’ambito di una scena sempre estremamente affollata di sollecitazioni visive, ed è ormai
inevitabile sia cosi, ma più fluida e contrassegnata, specie da parte dei giovani artisti, da un
maggiore tasso di umiltà e rigore progettuale, momenti di importante verifica ed aggiornamento di
fasi importanti dell’arte degli ultimi decenni del Novecento, sia rispetto ai flussi generazionali che
alle singole personalità, di cui ora si può verificare con calma il progetto e l’attualità dello stile.
Attualità è un termine che ben si confà all’opera di Vinicio Momoli. Come ben sottolineato da
Renato Barilli, nel secondo e significativo testo che accompagna questa vasta antologica dell'artista
nella sua città di origine e residenza, quella Castelfranco Veneto talmente permeata dal mito del
grande Giorgione da avergli dedicato, cosa davvero unica, addirrittura la squadra di calcio locale,
le opere di Momoli, in particolare le installazioni, da sempre accompagnate da una linea di ricerca
bidimensionale e comunque rigorosamente aniconica, fanno venire in mente, come riferimento
storico, inevitabile ai nostri tempi e non solo, il Minimalismo, corrente di spicco della vasta filiera
concettuale, sviluppatosi soprattutto negli Stati Uniti, che ha avuto in Italia una figura di spicco
come Gianni Piacentino. Il Minimalismo americano rappresentava in sostanza un primo passaggio
nell'inevitabile percorso di fuori uscita dal sito della bidimensione. Le forme geometriche, ad
angolo retto, dell'astrazione di matrice modernista, andavano ad invadere l'ambiente con manufatti
pesanti ed inerti. Il rigore eccessivo ed urtante di questa prima versione venne poi corretto, in
particolare dal capofila di quella tendenza, Bob Morris, che iniziò ad introdurre materiali
maggiormente malleabili ed organici, come i feltri. Momoli nasce nel 1942, quindi, da un punto di
vista generazionale, è del tuitto omologo alla data di nascita dei principali esponenti dell'Arte
Povera. Tuttavia, come per diversi altri artisti, le sue prove hanno saputo evolversi ed essere lette
al meglio in una fase storica successiva, quella inauguratasi, in pieno clima post moderno, a partire
dalla metà degli anni Ottanta, come ebbi modo di sottolineare in una mostra curata nel 1994 presso
la Rocca Paolina di Perugia, dal titolo “Carpe diem...una generazione italiana”. L'esordo di
Momoli è datato attorno alla metà degli anni Settanta e l'artista, nel corso degli anni, ha saputo
costruirsi una dimensione inteernazionale, come testimoniato dalle frequenti apparizioni sui
palcoscenici di Francia, Spagna e Canada. Come detto, le opere di Momoli, sempre caratterizzate
da un estremo rigore, ma mai dal vincolo geometrico dell'angolo retto, sempre contraddetto dal
gioco dei piani, dei pieni e dei vuoti, dal ritmo e della cromia, alternano la dimensione a suolo con
quella su parete, spesso integrandole nella medesima installazione. Il criterio di occupazione
dell'ambiente tipico dell'artista veneto, è senza dubbio sintonico alla categoria della
“disseminazione”, cui il critico Giorgio Bonomi ha dedicato pochi anni or sono un saggio. La
disseminazione è una categoria usata dal filosofo Derrida negli anni Settanta relativamente al
linguaggio e da Filiberto Menna per lo specifico dell'arte, per indicare una sorta di deflagrazione
dal sito bidimensionale verso l'ambiente e lo spazio. Non si può comprendere in pieno il lavoro di
Vinicio Momoli prescindendo dal suo originario e parallelo lavoro di architetto, che ne fa un
artifex nel senso pieno del termine, in grado di abbinare il rigore concettuale all'applicazione
pratica, far dialogare sfera alta e materiale della cultura. Questa dfoppia anima dell'artista è
evidente sia per l'attenzione alla plastica regolarità e ritmo delle forme e per il loro concatenarsi in
insiemi dotati di senso, sia per la capacità di immaginare l'opera calata, secondo le opportunità e
l'ispirazione, in contesti abitativi, urbani od ambientali, quindi sempre relazionati con l'elemento
umano, ed in grado di stabilire un rapporto di partecipazione emotiva e sensoriale, quindi estetica,
con i fruitori. Come già sottolineato in una precedente presentazione di cui riprendo alcune parti,
data la loro attendibilità nei confronti del percorso dell'artista, l'oggettualismo di Momoli si
concretizza con la realizzazione di strutture di grande formato, sempre contraddistinte da quel
minimalismo “soffice” citato in precedenza, che possono ricordare il funzionalismo di elementi
d'arredo che ibridano vari spunti formali provenienti dalla tradizione novecentescoa assemblati in
conformità ad uno schema razionale e studiato nei minimi particolari, che tutto delega al progetto e
poco all'improvvisazione, ma con la somma in apparenza contraddittoria di un esito artistico ed
antieconomico che li pone al di fuori di qualsiasi ipotesi di produzione seriale. La loro sostanziale
non utilità, se non in termini di appagamento estetico, li dota di una funzione liberatoria ed
anticonsumistica. In questo caso si può parlare, nel senso più alto ed “artistico” del termine, di “art
design”. Il riferimento storico va inevitabilmente in direzione degli anni Cinquanta, al “Movimento
per un Bauhaus Immaginista”, componente organica, sebbene per breve periodo, del
Situazionismo, frutto del pensiero dell'esponente del Gruppo Cobra Asjer Jorn, dove l'artista
olandese, in polemica con il funzionalismo radicale del “Nuovo Bauhaus” di Max Bill, rivendicava
il primato dell'immagine sulla forma e della creatività artistica sulla funzione. Nelle opere
caratterizzanti lo stile di Momoli negli anni Novanta, particolarmenti fecondi per l'artista, fanno
spicco ampie composizioni parietali, costruite secondo un alternarsi di forme primarie decorate da
colori che coprono l'intera gamma cromatica, prodotte con l'impiego di materiali quali gomma,
ferro, e malta. Un'altra variante è la proposta di parallelepipedi di gomma, sempre disposti
serialmente a parete ed illuminati, con la luce a giocare una funzione di collettore di calore e di
energia, oppure disposti, per meglio dire “disseminati”, a suolo, ad assumere la veste di soffici
tappeti. Nelle opere successive fanno la comparsa forme atipiche, mosse, irregolari. Le modalità
tecniche prevedono l'impiego di smalti su plexiglas allestiti sempre in rispetto del dualismo
suolo/parete, oppure di gomma, per mezzo di equilibrate sovrapposizioni di piani. Di rilievo,
nell'ultimo periodo, una serie di lavori dalla cromia intensa e vitale, smalti su specchio, vetro o
plexiglas, ed anche opere di gomma, sempre bidimensionali, dove si esalta l'autonoma funzione
poetica della materia impiegata. Compaiono, in opere recenti , anche lievi accenni figurativi,
elementi biomorfici e sagome umane elementari, che possono ricordare il tracciato segnico di
Capogrossi ed Accardi, ed il richiamo, privo però di inspessimento materico, dell'Art Brut. In
parallelo, ed in particolare evidenza in questa antologica, le imponenti sculture ambientali, fatte
apposta per contestualizzarsi al meglio in luoghi dove siano anche presenti elementi naturali. Chi
scrive è da anni impegnato sul fronte dell'arte pubblica, forse l'unico, in questi tempi disordinati di
globalizzazione finanziaria e culturale, di quotazione esagerate e del “brand” delle star system che
ripropongono in negativo quell'aura dell'opera d'arte che, secondo Benjamin, si pensava
definitivamente estinta causa l'avvento degli strumenti di riproducibilità tecnica, in cui l'arte
riscopre la sua eticità e la sua vocazione didattica. In queste possenti strutture, fatte di pietra
plasmata con morfologie biomorfiche, Momoli scava aperture che creano varchi nella materia,
umanizzandola, ed attenuando la sua tetragonicità. L'estrema attualità di queste sculture si collega
alla più nobile tradizione classica. Formulata concettualmente da un gigante del pensiero
protomedievale come Plotino che sosteneva come l'artista, forte della sua interiorità e
consapevolezza spirituale, dovesse intervenite sul corpo inerte della materia per dargli forma,
quindi vita, tesi rafforzata da Michelangelo nel suo celebre detto dove afferma che la scultura è
quella che si fa “per forza di levare”.
Edoardo Di Mauro, febbraio 2014
Renato Barilli
Momoli, o il trionfo del nesso
E’ subito evidente che il lavoro di Vinicio Momoli si ispira al
Minimalismo, grande ed essenziale movimento emerso nel quadro
della rivoluzione sessantottesca, soprattutto perché ha insegnato a
tutti la necessità di invadere lo spazio con forme massicce e di totale
inerzia materica. Ma quel movimento, nelle versioni dei principali
esponenti, Bob Morris, Donald Judd, Carl Andre, e perfino nei neon di
Dan Flavin, soffriva di una tara fastidiosa, confermava cioè la
dipendenza da un codice morfologico fondato sull’angolo retto, sul
diedro tagliente ed altre soluzioni di totale soggezione al vecchio
astrattismo geometrico, anche se rinnovato immettendovi all’interno
forti dosi di materialità allo stato puro. Del resto, proprio il capofila
Morris dopo poco ha ben compreso l’inattualità parziale della loro
prima versione e ha capovolto il prodotto passando a praticare una
radicale Antiform, affidandosi a materiali tipicamente soft, quali i feltri
molli e cascanti. Momoli ha effettuato pure lui questa decisiva
correzione, avvalendosi fin dall’inizio del suo percorso di materiali più
che altro di origine organica, legno, stoffa, o anche pietra, ma
proveniente da remoti scavi geologici, da cui ha preso pure la
modalità anch’essa primigenia della stratificazione, procedendo a
livelli multipli e sovrapposti. Ma soprattutto, a evitare i rigorismi
dell’astrazione geometrica, il nostro artista ha fatto ricorso a due
espedienti: l’introduzione del colore, un fattore, questo, del tutto
ignorato dai Minimalisti nel loro primo tempo, che volevano far parlare
solo il carattere hard delle superfici metalliche. Momoli invece ha
piacevolmente intervallato le varie giaciture, come farebbe una brava
massaia nel confezionare un piatto di lasagne, procedendo quindi a
collocare in alternanza uno strato di pasta e uno sovrapposto di
condimento, in genere sovrabbondante e quindi tracimante al di là
dello spazio assegnatogli. Passando dal codice domestico della
cucina a quello altrettanto originario dell’arte muratoria, potremmo
anche dire che, proprio come un muratore nel posare mattone su
mattone, Momoli ha procurato che la calce uscisse fuori dai bordi. Ma
soprattutto, ha voluto che la forza di gravità entrasse in gioco, e
dunque, quegli strati pur stesi in orizzontale, si sono fatti panciuti al
loro centro, subendo il peso di quanto veniva accumulato sopra di
loro. A questo modo potremmo anche dire che il Nostro è transitato
subito alla fase dell’Antiform, senza farsi schiacciare troppo da
esigenze di rigorismo formale. Ciò è avvenuto anche quando, in
apparente ossequio ai precetti iniziali del Minimalismo, ha lasciato
perdere i materiali poveri e spontanei di un’arte muratoria casalinga
per adottare lamiere metalliche, magari arieggianti un design intento
a fabbricare piani di tavoli secondo modalità irreprensibili, e dunque
con tesa orizzontalità. Ma anche in questo caso mi sembra che si
possa sempre intravedere un incurvarsi di quei piani al loro centro,
vittime anch’essi di una provvida forza di gravità pronta a inserire una
nota di organicità. Del resto, basta esaminare il titolo globale che
Momoli dà alle sue varie proposte, Nexiture, un neologismo denso di
significati polivalenti. Ci sta la nozione della tessitura, a confermare
un’ispirazione pur sempre di origine organica. Infatti i tessuti si
incontrano in natura, o anche nei prodotti artificiali, purché fatti di
soffici fibre in definitiva ricavate dal mondo vegetale o animale. Il
concetto del legare contestualmente è poi ribadito da quel nexus
pronto ad aggiungersi, e così a ribadire la volontà di pervenire a una
proposta originale e inconfondibile. Ci sono poi altre utili varianti, a
questo “nesso”, a questo nodo gordiano, che l’artista decide di
infrangere con un gesto eloquente. Qualche volta gli strati di pietra si
innalzano in verticale, ma questo non impedisce la volontà dell’artista
di lasciarvi un segno, sembra infatti che egli intenda scagliarvisi
contro, trapassarli da parte a parte, imprimendovi una sagoma in
negativo. E’ anche questo un modo per dichiarare che ai materiali
minimali non spetta mai l’ultima parola, ma che su di essi l’artista
intende sempre lasciare una impronta. Oppure egli si dà a comporli
tra loro, a cercare di inscatolarli reciprocamente, anche qui, in fondo,
agendo come i nostri remoti antenati che per fabbricarsi luoghi di
rifugio mettevano assieme delle lastre prelevate dal suolo. L’idea del
legamento, insomma, regge tutta la produzione di Momoli, al punto
tale che talvolta decide di fare a meno dei pieni e di mettere in
evidenza solo i vuoti, mettendo a nudo il reticolo dei contorni che
avrebbero dovuto incastonare i diversi frammenti prelevati dal mondo
esterno. C’è poi di nuovo un omaggio al Minimalismo, nella versione
di Flavin, in quanto Momoli non rinuncia ad affidare questa sua
decisione di praticare il nesso con ricorso al neon. Tutto si tiene, tutto
si lega, in una vasta operazione di bricolage giocato su tasti
molteplici.
01
luglio 2014
Vinicio Momoli – Nexiture
Dal primo luglio al primo settembre 2014
arte contemporanea
Location
ABBAZIA DI SPINETO
Sarteano, via Molino di Spineto, 8, (Siena)
Sarteano, via Molino di Spineto, 8, (Siena)
Orario di apertura
chiuso lunedì, 10.00-13.00 16.00-19.00
Vernissage
1 Luglio 2014, ore 18.00
Autore
Curatore