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Vinicio Momoli – Nexiture
opere dal 1987 al 2007
Comunicato stampa
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La poetica artistica del Novecento, a partire dall’avanguardia storica, in questo caso non solo l’organico ed anticipatore Futurismo, ma soprattutto Dada, con l’intuizione oggettuale di Marcel Duchamp, orinatoi e ruote di bicicletta investite di aura artistica dalla forza sciamanica dell’artista e gli assemblaggi di Kurt Schwitters, si è cimentata con una concezione nuova dell’arte, un’arte che fosse in grado di aprirsi al mondo, contaminarsi con il quotidiano tramite l’acquisizione di reperti di realtà secondo la logica dell’ “objet trouvè”. Queste tematiche hanno trovato una diffusione su larga scala, nell’ambito di un concetto e di una pratica di avanguardia “normalizzata” a partire dal secondo dopoguerra. La lunga e composita stagione dell’Informale verteva attorno ad un tema prevalente, quello di un’azione artistica intesa come manifestazione di energia vitale, apertura nei confronti dei fenomeni, dialettica tra interno ed esterno. Il limite comune alla maggior parte di quegli artisti fu di carattere oggettivo, quello di non avere violato, nella maggioranza dei casi, quel tabù bidimensionale che appariva ormai come un limite da superare, stante i presupposti teorici. Presupposti, comunque, estremamente avanzati. Già nella seconda metà degli anni ’50 si sviluppano le linee guida di quella che sarà la successiva stagione del Concettuale. Tra le molte correnti di pensiero fortemente venate di profetica utopia che agitano il dibattito culturale di quegli anni si distingue il Situazionismo di Guy Debord. Predicando un nuovo concetto di arte, svincolata da qualsiasi principio di valore e dall’inserimento in quel sistema borghese che finiva per neutralizzarne l’eversione linguistica, riducendola sostanzialmente a prezioso bene di consumo, merce tra le merci, i Situazionisti sostenevano l’esigenza di un’arte puramente comportamentale, da viversi e consumarsi nel “qui ed ora”, indistinguibile da qualsiasi altra azione esistenziale. In particolare la teoria del “detournement” prevedeva la realizzazione di opere costruite seconda la tecnica dell’assemblaggio di materiali ed oggetti recuperati, scorie tratte dall’opulenza della società industriale e vivificate, fatte assurgere a nuova vita e significanza dall’atto creativo. Nell’eterno gioco di rimbalzi e rimandi che caratterizza il ciclo dell’arte, questi temi si ritrovano “tout court” all’interno del concettuale di matrice “mondana” quello, per intenderci, aperto al contatto con il mondo dell’esperienza, che in Italia ha trovato la sua sublimazione nell’Arte Povera. Già il titolo coniato da Germano Celant per etichettare la sua intuizione critica stava ad indicare la volontà di svalutare il lato “ricco” ed esclusivo dell’arte in virtù dell’impiego di materiali archetipi e primari, lasciati liberi di modificarsi seguendo il loro ciclo naturale di metamorfosi chimica e fisica, alla ricerca di un dialogo tra natura e cultura perseguito anche tramite l’impiego di tecnologie duttili ed elementari come la luce al neon. Con l’avvento del successivo ciclo caratterizzato dall’ingresso in una fase di post modernità i temi relativi ad un utilizzo dell’arte contemporanea come viatico per una migliore qualità della vita hanno assunto, specie nell’ultimo quindicennio, una evidente centralità. Tutto ciò non ha mancato di provocare un serrato dibattito attorno al ruolo ed alla funzione del linguaggio della scultura all’interno dello scenario contemporaneo. Dibattito già esordiente nell’800, quando, agli spiriti più sensibili, iniziava ad apparire con chiarezza come l’arte,
dopo la Rivoluzione Industriale, stesse velocemente ponendosi su di un sentiero di superamento di canoni formali plurisecolari ed al centro delle accuse, come fu per Baudelaire, si poneva proprio la scultura, accusata di staticità e monumentalismo retorico e manierato, inadatto ormai ad esprimere i nuovi ritmi e le sensibilità della vita moderna. Dibattito che proseguirà anche nei primi decenni del Novecento, basti pensare ad un grande protagonista come Arturo Martini che, in finire di carriera, seppe, con un saggio come “La scultura lingua morta”, mettersi in discussione prefigurando i futuri sviluppi di questo linguaggio e redigendo pensieri di notevole lungimiranza come “fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione”. Come già citato in apertura, nel secondo dopoguerra l’avanguardia artistica radicalizzerà ulteriormente i termini della questione, proponendo un’installazione vista come puro prolungamento della corporalità fisica e mentale, oltre la tradizionale dialettica inerente il rapporto tra l’oggetto e lo spazio. Lo scenario attuale, posto all’interno di una stagione di avanzata post modernità, ha ulteriormente rimescolato le carte, con un eclettismo stilistico dove la rivisitazione dei modi e delle maniere dell’avanguardia novecentesca ed il ritorno alla manualità pittorica, tipici della fase tra il 1975 ed i primi anni ’90, sempre più si abbina al rapporto con la tecnologia ed i media, sia dal punto di vista del confronto teorico ed iconografico che dell’ausilio di questi nuovi strumenti nella costruzione dell’opera. Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito ad una forte incentivazione nei confronti dell’annosa questione dell’arte pubblica, fondamentale viatico didattico e divulgativo per avvicinare il pubblico dei non addetti ai lavori alla fruizione del contemporaneo, nel tentativo di colmare il gap che ci separa, da questo punto di vista, dalla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti, tramite la realizzazione di numerosi musei d’arte contemporanea all’aperto e parchi dedicati alla scultura, nella quasi totalità dei casi in affascinanti centri della cosiddetta “provincia”, più raramente all’interno di grandi centri metropolitani. La premessa storica che di solito traccio quando frequentemente mi capita di dedicare un testo alla figura di un artista contemporaneo, per calarlo in contesto storico che renda il suo percorso meglio assimilabile da parte dei fruitori, si addice in pieno alla poetica di Vinicio Momoli. Momoli è stato capace, con il suo lavoro, di visitare molte voci dell’avanguardia artistica novecentesca, andando oltre una ridefinizione convenzionale e stereotipata di queste, al modo dei “temini” più o meno diligenti di tanti giovani artisti, per attraversarle con un progetto “dolce” in grado di restituircele ammantate dalla capacità di reinventarle pur non tradendone la storia e l’insegnamento. Il prologo dedicato a concetti quali “objet trouvè”, “detournement”, installazione, quindi rinnovamento del tradizionale linguaggio della scultura è affine al suo stile, si manifesta come primo riferimento istintivo ma non è sufficiente per spiegare la “semplice complessità” del lavoro di Momoli che, per citare quanto scritto per lui da Pierre Restany nel 1994, “approccia la materia nella sua collisione fra la scultura e la pittura”. L’artista esordisce in età relativamente matura rispetto ai parametri statistici ma la sua apparizione sulla scena è quella di un soggetto che ha già sedimentato dentro di sé un percorso esistenziale e creativo tale da rendere la sua proposta immediatamente competitiva perché dotata di solide basi, e non a caso il suo curriculum si arricchirà rapidamente di importanti partecipazioni italiane ed internazionali . La sua formazione di architetto, attività che tuttora conduce in armonico parallelismo con quella di artista tout court, per quanto ai tempi nostri questi steccati appaiano ormai labili, si evince sia dall’ attenzione per la plastica regolarità delle forme e per il loro concatenarsi in insiemi dotati di senso, sia per la capacità di immaginare l’opera come calata in un contesto abitativo, urbano od ambientale, quindi relazionato con l’elemento umano. È senz’altro logico inserire il lavoro di Momoli, soprattutto quello che scorre lungo il crinale degli anni ’90, nella scia dell’esperienza minimalista. Ma si tratta di un minimalismo oltre che collegato alla sensibilità del presente ed estraneo al vasto alveo della citazione stereotipata, in buona parte diverso da quello della tradizione statunitense. Quest’ultima trova le sue radici nel costruttivismo, mediato dalle lezione di Albers, esponente del Bauhaus trasferitosi negli Stati Uniti nel 1933 e caratterizzato da una energica riduzione delle forme, con una prevalenza di figure geometriche elementari e strutture primarie. L’orizzonte estetico di Momoli affonda saldamente le radici nel “genius loci” italiano e mediterraneo, non a caso è la Spagna la sua seconda patria artistica. Il suo è un minimalismo “dolce” che può trovare semmai un riscontro di rilievo nelle “macchine inutili” di Gianni Piacentino, senz’altro l’esponente italiano “storico” di questa tendenza di maggiore interesse. Lungo tutto lo scorso decennio Momoli dà vita ad una produzione rigorosa e coerente ma al tempo stesso eclettica ed in grado, in forza di ciò, di non tediare il fruitore. Abbiamo quindi la realizzazione di una serie di oggetti di grande formato che ricordano da vicino il funzionalismo di elementi d’arredo, ed in parte potrebbero esserlo, ma sono in realtà costruiti secondo uno schema estremamente razionale e studiato nei minimi particolari, con un esito artistico ed antieconomico che li pone al di fuori di qualsiasi possibilità di serializzazione. La loro sostanziale inutilità, questa sì concreta, li dota quindi di una funzione liberatoria ed anticonsumistica. L’affinità con il design, e le contaminazioni con l’arte sono di questi tempi frequenti al punto, nei migliori casi ovviamente, di abbattere gli steccati linguistici, va verso le teorie più avanzate degli anni ’50, con particolare riferimento al “Movimento per un Bauhaus Immaginista” di Asger Jorn dove l’artista e teorico olandese, in polemica con il funzionalismo estremista del “Nuovo Bauhaus” di Max Bill, rivendicava il primato dell’immagine sulla forma e della creatività artistica sulla funzione. Sempre in quel periodo Momoli realizza opere bidimensionali spesso estese ad occupare ampie porzioni di spazio parietale, con composizioni dove fa capolino uno stile rigorosamente astratto, costruito su di un perfetto alternarsi di forme primarie e colori che coprono l’intera gamma cromatica, prodotte con l’impiego di materiali quali gomma, ferro, malta e pigmenti vari. Altra variante la realizzazione di parallelepipedi di gomma disposti serialmente a parete ed illuminati, con la luce a giocare un ruolo di elemento cooptante calore e vitalità, oppure disposti a suolo, ad assumere la forma di soffici tappeti. Poi le opere più recenti, che si innestano con precisione nel progetto artistico complessivo, ricongiungendolo per certi aspetti alla vocazione delle origini. In questi lavori, che mantengono un’impianto installativo seriale come strumento atto ad evidenziare per antitesi l’unicità dell’opera, fanno la comparsa forme atipiche, mosse, irregolari. Si tratta di un universo inconscio presente in Momoli fin dagli esordi, che in questa antologica sarà evidenziato anche dalla presentazione di raffinati disegni su carta, fatto di elementi biomorfici e sagome umane elementari, che possono ricordare il tracciato segnico di Capogrossi ed Accardi, o la consapevole regressione infantile dell’Art Brut di Dubuffet. Le opere sono realizzate con la modalità di smalti su plexiglas allestiti sempre con il dualismo suolo/parete, oppure in gomma, tramite equilibrate sovrapposizioni di piani. Infine un elemento di elevata spettacolarità, nonché di fondamentale opportunità divulgativa e didattica, è costituito dalla proposta di una serie di installazioni ambientali. Lo spessore e l’attitudine concettuale di Momoli non potevano esentarlo dal cimentarsi con l’arte pubblica, e qui si spiega l’ultimo riferimento della premessa, settore che lo ha visto proporsi, negli ultimi anni, con installazioni permanenti allestite in Spagna, a Leon, a Treviso ed in Canada, a Toronto. In queste imponenti strutture l’artista scava varchi che penetrano gli imponenti blocchi di pietra adoperati, realizzando le morfologie mosse e biomorfiche che contraddistinguono l’ultima sua fase. Momoli tratta la materia adoperata con il massimo rispetto collocandosi nella più alta tradizione classica della scultura. Esplicitata esteticamente da un gigante del pensiero protomedievale come Plotino che sosteneva come l’artista forte della sua carica spirituale dovesse intervenire sul corpo privo di vita della materia per dargli vita e forma, e divulgata praticamente da Michelangelo quando affermava che la scultura è quella che si fa “per forza di levare”.
Edoardo Di Mauro, marzo 2007.
dopo la Rivoluzione Industriale, stesse velocemente ponendosi su di un sentiero di superamento di canoni formali plurisecolari ed al centro delle accuse, come fu per Baudelaire, si poneva proprio la scultura, accusata di staticità e monumentalismo retorico e manierato, inadatto ormai ad esprimere i nuovi ritmi e le sensibilità della vita moderna. Dibattito che proseguirà anche nei primi decenni del Novecento, basti pensare ad un grande protagonista come Arturo Martini che, in finire di carriera, seppe, con un saggio come “La scultura lingua morta”, mettersi in discussione prefigurando i futuri sviluppi di questo linguaggio e redigendo pensieri di notevole lungimiranza come “fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione”. Come già citato in apertura, nel secondo dopoguerra l’avanguardia artistica radicalizzerà ulteriormente i termini della questione, proponendo un’installazione vista come puro prolungamento della corporalità fisica e mentale, oltre la tradizionale dialettica inerente il rapporto tra l’oggetto e lo spazio. Lo scenario attuale, posto all’interno di una stagione di avanzata post modernità, ha ulteriormente rimescolato le carte, con un eclettismo stilistico dove la rivisitazione dei modi e delle maniere dell’avanguardia novecentesca ed il ritorno alla manualità pittorica, tipici della fase tra il 1975 ed i primi anni ’90, sempre più si abbina al rapporto con la tecnologia ed i media, sia dal punto di vista del confronto teorico ed iconografico che dell’ausilio di questi nuovi strumenti nella costruzione dell’opera. Negli ultimi anni, in Italia, si è assistito ad una forte incentivazione nei confronti dell’annosa questione dell’arte pubblica, fondamentale viatico didattico e divulgativo per avvicinare il pubblico dei non addetti ai lavori alla fruizione del contemporaneo, nel tentativo di colmare il gap che ci separa, da questo punto di vista, dalla maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale e dagli Stati Uniti, tramite la realizzazione di numerosi musei d’arte contemporanea all’aperto e parchi dedicati alla scultura, nella quasi totalità dei casi in affascinanti centri della cosiddetta “provincia”, più raramente all’interno di grandi centri metropolitani. La premessa storica che di solito traccio quando frequentemente mi capita di dedicare un testo alla figura di un artista contemporaneo, per calarlo in contesto storico che renda il suo percorso meglio assimilabile da parte dei fruitori, si addice in pieno alla poetica di Vinicio Momoli. Momoli è stato capace, con il suo lavoro, di visitare molte voci dell’avanguardia artistica novecentesca, andando oltre una ridefinizione convenzionale e stereotipata di queste, al modo dei “temini” più o meno diligenti di tanti giovani artisti, per attraversarle con un progetto “dolce” in grado di restituircele ammantate dalla capacità di reinventarle pur non tradendone la storia e l’insegnamento. Il prologo dedicato a concetti quali “objet trouvè”, “detournement”, installazione, quindi rinnovamento del tradizionale linguaggio della scultura è affine al suo stile, si manifesta come primo riferimento istintivo ma non è sufficiente per spiegare la “semplice complessità” del lavoro di Momoli che, per citare quanto scritto per lui da Pierre Restany nel 1994, “approccia la materia nella sua collisione fra la scultura e la pittura”. L’artista esordisce in età relativamente matura rispetto ai parametri statistici ma la sua apparizione sulla scena è quella di un soggetto che ha già sedimentato dentro di sé un percorso esistenziale e creativo tale da rendere la sua proposta immediatamente competitiva perché dotata di solide basi, e non a caso il suo curriculum si arricchirà rapidamente di importanti partecipazioni italiane ed internazionali . La sua formazione di architetto, attività che tuttora conduce in armonico parallelismo con quella di artista tout court, per quanto ai tempi nostri questi steccati appaiano ormai labili, si evince sia dall’ attenzione per la plastica regolarità delle forme e per il loro concatenarsi in insiemi dotati di senso, sia per la capacità di immaginare l’opera come calata in un contesto abitativo, urbano od ambientale, quindi relazionato con l’elemento umano. È senz’altro logico inserire il lavoro di Momoli, soprattutto quello che scorre lungo il crinale degli anni ’90, nella scia dell’esperienza minimalista. Ma si tratta di un minimalismo oltre che collegato alla sensibilità del presente ed estraneo al vasto alveo della citazione stereotipata, in buona parte diverso da quello della tradizione statunitense. Quest’ultima trova le sue radici nel costruttivismo, mediato dalle lezione di Albers, esponente del Bauhaus trasferitosi negli Stati Uniti nel 1933 e caratterizzato da una energica riduzione delle forme, con una prevalenza di figure geometriche elementari e strutture primarie. L’orizzonte estetico di Momoli affonda saldamente le radici nel “genius loci” italiano e mediterraneo, non a caso è la Spagna la sua seconda patria artistica. Il suo è un minimalismo “dolce” che può trovare semmai un riscontro di rilievo nelle “macchine inutili” di Gianni Piacentino, senz’altro l’esponente italiano “storico” di questa tendenza di maggiore interesse. Lungo tutto lo scorso decennio Momoli dà vita ad una produzione rigorosa e coerente ma al tempo stesso eclettica ed in grado, in forza di ciò, di non tediare il fruitore. Abbiamo quindi la realizzazione di una serie di oggetti di grande formato che ricordano da vicino il funzionalismo di elementi d’arredo, ed in parte potrebbero esserlo, ma sono in realtà costruiti secondo uno schema estremamente razionale e studiato nei minimi particolari, con un esito artistico ed antieconomico che li pone al di fuori di qualsiasi possibilità di serializzazione. La loro sostanziale inutilità, questa sì concreta, li dota quindi di una funzione liberatoria ed anticonsumistica. L’affinità con il design, e le contaminazioni con l’arte sono di questi tempi frequenti al punto, nei migliori casi ovviamente, di abbattere gli steccati linguistici, va verso le teorie più avanzate degli anni ’50, con particolare riferimento al “Movimento per un Bauhaus Immaginista” di Asger Jorn dove l’artista e teorico olandese, in polemica con il funzionalismo estremista del “Nuovo Bauhaus” di Max Bill, rivendicava il primato dell’immagine sulla forma e della creatività artistica sulla funzione. Sempre in quel periodo Momoli realizza opere bidimensionali spesso estese ad occupare ampie porzioni di spazio parietale, con composizioni dove fa capolino uno stile rigorosamente astratto, costruito su di un perfetto alternarsi di forme primarie e colori che coprono l’intera gamma cromatica, prodotte con l’impiego di materiali quali gomma, ferro, malta e pigmenti vari. Altra variante la realizzazione di parallelepipedi di gomma disposti serialmente a parete ed illuminati, con la luce a giocare un ruolo di elemento cooptante calore e vitalità, oppure disposti a suolo, ad assumere la forma di soffici tappeti. Poi le opere più recenti, che si innestano con precisione nel progetto artistico complessivo, ricongiungendolo per certi aspetti alla vocazione delle origini. In questi lavori, che mantengono un’impianto installativo seriale come strumento atto ad evidenziare per antitesi l’unicità dell’opera, fanno la comparsa forme atipiche, mosse, irregolari. Si tratta di un universo inconscio presente in Momoli fin dagli esordi, che in questa antologica sarà evidenziato anche dalla presentazione di raffinati disegni su carta, fatto di elementi biomorfici e sagome umane elementari, che possono ricordare il tracciato segnico di Capogrossi ed Accardi, o la consapevole regressione infantile dell’Art Brut di Dubuffet. Le opere sono realizzate con la modalità di smalti su plexiglas allestiti sempre con il dualismo suolo/parete, oppure in gomma, tramite equilibrate sovrapposizioni di piani. Infine un elemento di elevata spettacolarità, nonché di fondamentale opportunità divulgativa e didattica, è costituito dalla proposta di una serie di installazioni ambientali. Lo spessore e l’attitudine concettuale di Momoli non potevano esentarlo dal cimentarsi con l’arte pubblica, e qui si spiega l’ultimo riferimento della premessa, settore che lo ha visto proporsi, negli ultimi anni, con installazioni permanenti allestite in Spagna, a Leon, a Treviso ed in Canada, a Toronto. In queste imponenti strutture l’artista scava varchi che penetrano gli imponenti blocchi di pietra adoperati, realizzando le morfologie mosse e biomorfiche che contraddistinguono l’ultima sua fase. Momoli tratta la materia adoperata con il massimo rispetto collocandosi nella più alta tradizione classica della scultura. Esplicitata esteticamente da un gigante del pensiero protomedievale come Plotino che sosteneva come l’artista forte della sua carica spirituale dovesse intervenire sul corpo privo di vita della materia per dargli vita e forma, e divulgata praticamente da Michelangelo quando affermava che la scultura è quella che si fa “per forza di levare”.
Edoardo Di Mauro, marzo 2007.
31
marzo 2007
Vinicio Momoli – Nexiture
Dal 31 marzo al primo maggio 2007
arte contemporanea
Location
GILI ARREDAMENTO
Castelfranco Veneto, Via Giacomo Matteotti, 5, (Treviso)
Castelfranco Veneto, Via Giacomo Matteotti, 5, (Treviso)
Orario di apertura
10-12.30 15-18.30 chiuso il lunedì
Vernissage
31 Marzo 2007, ore 17.30
Autore
Curatore