Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Vis-à-Vis: Abbas Kiarostami | Vincenzo Cabiati: Motori dell’Immaginario. Fuochi Narrativi del Fermo-immagine
In un frontale vis-à-vis tra Abbas Kiarostami, pregnante fotografo del viaggio e del vissuto nonché regista di film senza sceneggiatura, e Vincenzo Cabiati, pirata del prelievo non autorizzato, nonché metteur en scène di copie senza copione, il cinema agisce come archivio e motore di potenzialità impensate, a livello associativo, ipnagogico, ideativo, immaginale
Comunicato stampa
Segnala l'evento
In un frontale vis-à-vis tra Abbas Kiarostami, pregnante fotografo del viaggio e del vissuto nonché regista di film senza sceneggiatura, e Vincenzo Cabiati, pirata del prelievo non autorizzato, nonché metteur en scène di copie senza copione, il cinema agisce come archivio e motore di potenzialità impensate, a livello associativo, ipnagogico, ideativo, immaginale. Qui fotografo, ma nella sua storia grande regista, “sceneggiatore”, poeta, pittore, scultore, iraniano, nato a Teheran il 22 giugno 1940, morto a Parigi il 4 luglio 2016, il primo; scultore, modellatore, disegnatore, pittore, concettual/visionario italiano, nato a Vado, residente a Milano, il secondo. Pathos, meditazione ed emozione attivano, in entrambi gli artisti, sommovimenti inventivi e riflessioni sulle pieghe dell’essere come individuo, come soggetto e oggetto sociale e come spazio di risonanze (Persōna) di echi interiori in cui realtà e illusione non cessano di confrontarsi, trovando modalità di rappresentazione inesplorate.
Strade serpentine di terra battuta in deserti assolati, muri di cemento, di pietra, di legno, d’ombra e di nuvole, sapori intensi della vita e della morte, della pace e della guerra, delineano il mondo di Abbas Kiarostami, un regista che non cessa di praticare incisive incursioni nella fotografia, nelle arti visive, nella scultura. Perché un regista decide di fotografare? Il motivo per cui ho cominciato a scattare fotografie - ha avuto occasione di dire Kiarostami - è dovuto al fatto che per me era una forma di tortura non essere in grado di provare piacere nel vedere un paesaggio magnifico con qualcun altro. Ho voluto, in qualche modo, consegnare all’eternità quei momenti di passione e dolore.
C’è una strada nel bosco (fotografia in bianco e nero), delineata da macchie di luce e ombra, immaginata Con il vento (2001) e, forse, con Un lupo in agguato, titoli di sue raccolte di poesia. Uno scenario quotidiano, un’inquadratura di paesaggio - ha occasione di dichiarare Kiarostami - desta interesse giusto a partire dalla sua messa in cornice.
Cristalli di fuoco, fiori di neve, sapori di sale, permeano il mondo di Vincenzo Cabiati: un artista attraversato subliminalmente da flash filmici, da affioramenti di scenari immateriali che cercano spazio, volume, peso, nella materia ceramica, nel bronzo, negli splendori di porcellane bianche, argento e oro, di dichiarata ascendenza fontaniana. C’è un bosco senza strada in cui si percepisce, come scrive Bettina Della Casa, Lo sfibrarsi degli alberi, protagonisti di tante immagini, tra luce e ombra, positivo e negativo, pieno e vuoto, nel corpus enigmatico della sua opera.
Quei dispositivi visivi che nei baluginanti volumi delle ceramiche e nei lavori bidimensionali di Vincenzo Cabiati azionano lo sguardo, il punto d’osservazione, gli occhi, le ciglia, le complicità voyeuristiche con un possibile soggetto esterno, in Kiarostami attivano i campi lunghi e totali dei paesaggi, in bianco e nero, del ciclo fotografico Strade/ Roads e in parallelo i fermi-immagine, a colori, del ciclo Il Muro/The Wall: verosimili inquadrature, in soggettiva o in oggettiva, di un’ipotetica figura della narrazione filmica.
Ne scaturisce, in un incendiato corpo-a-corpo tra sapori ancestrali mediorientali e abbordaggi corsari di segno occidentale, un racconto senza argini, in cui gli scatti fotografici del grande regista iraniano Abbas Kiarostami fanno razza con gli indecidibili monumenti ceramici, bronzei, immaginali, del pirata ligure, trapiantato a Milano, Vincenzo Cabiati.
Una mostra scaturita dagli azzardi del pensiero, costruita, virtualmente, da tagli soggettivi dei piani sequenza, dalla fissità o mobilità di soggettive o oggettive, da scale slittanti di piani e angoli di campo, da carrellate e zoomate, da luci e controluci, da voci risonanti o sonorità collassate: davanti all’osservatore, attonito, si dispiega, in una prospettiva stilisticamente astorica, uno scenario disseminante reliquie e reperti di un’irrefrenabile macchina del desiderio.
L’affioramento, dal serbatoio dei ricordi, di visioni che accendono l’immaginario di Vincenzo Cabiati, accade come un’onda liquida che dissolve e rimodella un pensiero, un’immagine, una scena. Non sono citazioni, ma prelievi da subitanei flash tratti subliminalmente dal cinema di Truffaut, Godard, Bergman, Kubrick, Lynch, Sofia Coppola, Campion, Lars von Trier, e innestati su un tessuto altro…il suo, da cui scaturiscono frutti discordi, anacronismi, depistaggi, tagli: inauditi accordi formali, spaziali, senza tempo. Sono light box, reali e metaforiche, illuminate dai riflessi lunari di una luce interiore dalle mille provenienze. L’artista arriva a costruire, in porcellana, la sequenza di un’orgia, solo a partire dal racconto di un’interprete del film Persona (1966) di Ingmar Bergman.
Le strade di Abbas Kiarostami sono nastri grigi, che si snodano nel deserto umano; sono ipotetici piani lunghi in cui l’orizzonte si alza, tra nuvole foriere di tempeste violente, si insinua tra i fianchi sensuali di colline rocciose, si abbassa sulla terra battuta dal vento ad aspirarne i profumi. Kiarostami gioca la sua partita tra vero e falso, tra realtà e illusione, per lasciar affiorare, dal profondo, indizi di verità. Ne sono un tanto significativo quanto inquietante esempio i giochi narrativi tra i protagonisti del suo film Copie conforme, uscito nel 2010, fondati su doppi sensi, tesi a provocare un dialogo, trilingue in originale (inglese-francese-italiano) intessuto d’incomprensioni di coppia, ricatti verbali, interpretazioni arbitrarie. Ne è interprete, premiata a Cannes, Juliette Binoche, che, nella storia, è una gallerista francese, ex antiquaria, stabilitasi ad Arezzo, impegnata a discutere il concetto di copia e originale con un critico d’arte inglese, autore di un libro tradotto in italiano, da presentare, guarda il caso, in Toscana. Si tratta – è stato scritto – de sa première expérience européenne tournée dans une autre langue que le persan.
Vincenzo Cabiati attiva, a sua volta, scambi estremi tra realtà e artificio, ricorrendo a stratagemmi narrativi del cinema, accostando tranches de vie, prelevate dagli stupori o dalle angosce dell’infanzia, slittando, disinvolto, tra gli stilemi degli specifici linguistici, non escluse compenetrazioni di volumi e scarti spaziali di ascendenza boccioniana, con l’esito di monumentalizzare il ricordo, prevalentemente nel lucente materiale ceramico. Remote rammemorazioni vengono lasciate interagire con pulsioni visive della sua personale, iridescente, mnemoteca d’artista. L’accostamento del critico d’arte Elio Grazioli, nel suo testo sulla rivista “Domus”, al film, citato sopra, di Bergman, Persōna, diventa pertinente anche dal punto di vista etimologico di un termine che, nella derivazione latina, mette in gioco il risuonare della voce all’interno della maschera, facendo dell’attore/artista, un dio vaticinante. In uno scenario di immagini, linguaggi, stili, suggestioni, emozioni, seduzioni, che dal Barocco slittano al Futurismo, all’Astratto, al Surreale, al Liberty, all’Informale, al Minimal, al Conceptual, al Dadaismo, compreso, Vincenzo Cabiati si connota come un ricercatore inesausto di prossimità semantiche come di lontananze intergalattiche.
Tra i due artisti aleggia il convitato assente Jean-Luc Godard, simulatore di immagini rubate da archivi materiali e immateriali della storia del cinema, della società, della mente, della psiche, di un’imagerie ora popolare ora d’élite, nonché declinatore audace, nel recente Adieu au langage (2014) della virtualità fantasmatica del rilievo 3D. Entrambi ne condividono il metacinema, la pratica di territori rizomatici, di métissage tra corpi e linguaggi, tra un divenire altro, inaugurato per contagio, di dislivelli linguistici e temporali, di immancabile sapore deleuziano. È dalla contiguità metonimica degli accostamenti che, come tra l’ape e l’orchidea del duo Deleuze-Guattari, si inaugurano inedite ibridazioni di corpi senz’organi, di senso e nonsenso, di territori lisci e striati, di creature antigenealogiche. Non è un caso che proprio Godard abbia dichiarato che Il cinema comincia con Griffith e finisce con Kiarostami. Sorprendente e densa di stimoli è, nel vis-à-vis della mostra, proprio questa triangolazione Godard-Kiarostami-Cabiati. La strategia del furto creativo, praticata, con lucida intelligenza, da questo straordinario trio, autorizza il ricorso al termine copyleft, traducibile con permesso d'autore, per cui il diritto legale (right) verrebbe ceduto (left) implicando altresì lo scambio tra i significati secondi di destra con sinistra.
Stesse modalità di assaporare la realtà e il sogno, il quotidiano più deprimente e la favola più surreale, quelle di Abbas Kiarostami e di Vincenzo Cabiati, due artisti per cui l’arte è sempre contemporanea. In entrambi l’enigma scaturisce dai rispecchiamenti della realtà nell’illusione e dell’illusione nella realtà, nel gioco che avvicina e allontana, con un ribaltamento di cannocchiale, la rappresentazione estetica dalla presenza attuale, la Darstellung dalla Vorstellung, negli slittamenti linguistici, in cui entrambi sono maestri, tra il vero e il simulato, l’originale e la copia difforme, il dicibile e l’indicibile, il visibile e il non visibile.
Come Kiarostami gira un film senza sceneggiatura così Cabiati mette in atto, perseguendo inedite intermediazioni linguistiche e stilistiche, uno scenario visivo di copie originali senza copione. Le sue costruzioni, sospese come un ponte sull’abisso, in cui il déjà vu e il jamais vu spiazzano e seducono, al tempo stesso, l’osservatore, sono narrazioni tridimensionali, intessute di tagli, vuoti di parola, silenzi, fischi, sibili, vibrati tellurici al violoncello (Ritratto di Corrado Levi in ceramica, 2014), sono vertiginose dimore di cristallo costruite con sabbia, frammenti, cumuli di rovine estratti da miniere di diamanti.
Il regista/artista iraniano e il visionario deflagratore di immagini italiano, non cessano, nei loro mondi bidi/tridimensionali di relativizzare l’assoluto, assolutizzare il relativo. Al centro di una crisi epocale in cui il soggetto collassa sul terreno dell’identità e dell’alterità, Abbas Kiarostami delinea un quadro ne Il Sapore della ciliegia (1997) in cui il destino scaturisce dal caso e il caso è investito di destino. Ideatore innovativo di non invenzioni, o reinventore di arcaici dispositivi, come teorizzerebbe Rosalind Krauss, Vincenzo Cabiati adotta la strategia del furto diffuso, culturalmente autorizzato, prendendo, intenzionalmente, le distanze dal citazionismo postmodern. I suoi bronzetti, concitati e barocchi, scaturiti dagli incendi del suo immaginario, sembrano creature laviche costruite con cenere e lapilli. Ora sono Giubbe rosse, rinvianti a strisce di Blek-Macigno e insieme al Barry Lyndon di Kubrick (1975) che ribaltano in un abbraccio erotico il momento sospeso tra l’ultimo respiro e la morte, ora alberi per il bosco di un John Keats, Bright Star filmica di Jane Campion, che dedica un’ode all’usignolo, ora un Orso travestito (tratto dai miti svizzeri del Duo Fischli/Weiss), abbandonato su una poltrona settecentesca o affiorante dalle acque gelide di un lago alpino (The Right Way-Orso nel lago). Tra le installazioni in ceramica, alimentate da suggestioni filmiche e fiabesche, compare un pupazzo niveo, di terracotta bianca, che guarda, attonito, le fiamme di un focolare di improbabile ghiaccio, in cui bruciano verosimili ceppi di legno (è ancora alle provocazioni di Fischli-Weiss che, con spirito ludico e maestria esecutiva, Cabiati risponde); una bambina bionda, La figlia del poliziotto degli Anni in Tasca (L’argent de poche, 1976) di Truffaut, non si perita di far sapere al vicinato che ha fame, comunicandolo, con un megafono, dal poggiolo con decorazioni celesti. Le sue riprese, da un particolare punto di vista, rendono, paradossalmente, fedele la deformazione della scena. Davanti alla parete riflettente, dagli effetti liquidi, di ascendenza martiniana, da cui avanza, in aggetto, la piccola dormeuse, ripresa da quella in cui Richard Wagner ideava la sua Cavalcata delle Valchirie, la conturbante lsabella Rossellini di Blue Velvet (1986) firmato David Lynch, entra in scena uscendo da un tempo sospeso sulla soglia del caso, per cantare all’autore la più ipnotica delle ninna-nanne (Isabella Rossellini mi canta la ninna nanna, 2003). La glacialità cristallina della scultura ceramica di Cabiati viene, in un processo prima mentale che meccanico, estratta, virtualmente, per evaporazione sublimata, tramite un verosimile processo di freeze-drying, con l’esito di diventare immagine, disegno con aureola o viceversa reidratata per ritornare al suo volume plastico. In mostra, fotografie, serigrafate, di Armin Linke, suo storico complice, si accompagnano, sotto lastre di plexiglas, a tele bianche, oro (Ciglia), argento, graffiate, tagliate, forate, incise, corrose. Un parallelepipedo, ancora di trasparente plexiglas, accoglie, tra immagini, ceramica, legno (La casa del ceramista innamorato), al cui interno vasi affusolati di terracotta rinviano ai colli femminili di Modigliani. Con l’opera L’osservatore di polpi ecco ancora Godard e il distinto personaggio di un suo film che, da seduto, è intento a visionare, con aria compassata, una serie di quadri: attraverso un processo proiettivo di regressus ad originem Vincenzo Cabiati gli costruisce, virtualmente, intorno, un'arborescente genealogia del ramo paterno fatta dei tentacoli di un polpo, suo soggetto particolare di un certo periodo, in cui la radicalità del taglio di un Lucio Fontana - divenuto icona di una figura mitica di riferimento, metafora del Padre, ma anche suo alter ego (Achille Cabiati, è stato un esponente del socialismo reale pittorico) -- si sfrangia e sfoglia nei rami di una palma, si dissolve mentalmente nell'inchiostro nero gettato dal polpo per non diventare preda restando predatore. Sono gli anni in cui l’artista disegnava tagliando, incidendo, delineando un vuoto sulla tela, quel vuoto che, nel suo immaginario, viene osservato dalla figura maschile del primo piano di Godard. Non lontane dalle incursioni sul terreno umano dei Kleine e Große Geister di Thomas Schütte, le creature ceramiche di Vincenzo Cabiati si materializzano allo sguardo dell’osservatore in spazi dischiusi tra le faglie del tempo.
Compositore di immagini e situazioni attrattive a livello visivo, percettivo, associativo, evocativo, attivatore e vanificatore di asserzioni, negazioni, intrusioni, Vincenzo Cabiati configura la differenza in un discorso al tempo stesso diacronico e sincronico. All’interno del suo irriproducibile processo creativo, affiorano, trovano spazio e materia, visioni, ossessioni, scene primarie, pronte a riguadagnare il vuoto da cui provengono. Sono accenni di corone, aureole, stemmi araldici, che giocano la partita di un’ininterrotta mise en abyme. Conciliatore degli Ossimori, livellatore dei Paradossi, l’artista invita l’osservatore a cogliere l’imprevedibile logica dell’assurdo, la sorpresa dell’inconciliabile, l’incommensurabile piacere di cogliere la dismisura dell’infinito nella misura del finito. Conferendo forma dolce e colore pastello a spericolati azzardi della mente, Vincenzo Cabiati conduce la riflessione sul bordo di uno specchio incrinato, pronto a spezzarsi o a ferire il soggetto che incautamente vi si avventuri.
Nato lo stesso anno di Abbas Kiarostami (1940), il filosofo francese Jean-Luc Nancy - che ho avuto modo di incontrare, la prima volta, a Genova, nell’ambito del convegno Sapere e Potere del novembre 1980 - è autore di L’Évidence du film, Abbas Kiarostami, Yves Gevaert Editeur, 2001, Bruxelles, – un libro sul fotografo e regista iraniano. Scrivendo in particolare sul film E la vita continua (1992), Nancy afferma che il confine tra finzione e non finzione è molto sottile, che i film di Kiarostami non sono né del tutto finzione, né del tutto documentario: si tratta di vita e niente più, niente rappresentazione, né reportage, ma evidenza. Il film diventa piuttosto un documento della finzione del linguaggio, un documento sull’arte del costruire e decostruire immagini. Ritengo – dichiara Kiarostami – che il pubblico dovrebbe essermi grato per il minimo di informazione che elargisco, che è ancora molto maggiore di quella che ricevono dalla vita reale.
Ulteriori punti in comune tra il fotografo/regista e lo scultore di immagini a più dimensioni: sospensione tra realtà e finzione, tra realismo e onirismo, tra mito e quotidiano, tra caso e inevitabilità, tra un radicamento nella terra e una trasvolata nelle nuvole. Questa mostra multimediale, questa composizione di pièces uniques polimateriche, non cessa di restituire ad ogni immagine, ad ogni oggetto, il colore, la luce, l’ombra, del suo fantasma speculare. Navigatori estremi dell’ambiguità semantica, della scrittura asemantica, della dépense batailliana, Abbas Kiarostami e Vincenzo Cabiati non hanno mai smesso di lavorare alle potenzialità indecidibili della figura e del segno.
Viana Conti
Strade serpentine di terra battuta in deserti assolati, muri di cemento, di pietra, di legno, d’ombra e di nuvole, sapori intensi della vita e della morte, della pace e della guerra, delineano il mondo di Abbas Kiarostami, un regista che non cessa di praticare incisive incursioni nella fotografia, nelle arti visive, nella scultura. Perché un regista decide di fotografare? Il motivo per cui ho cominciato a scattare fotografie - ha avuto occasione di dire Kiarostami - è dovuto al fatto che per me era una forma di tortura non essere in grado di provare piacere nel vedere un paesaggio magnifico con qualcun altro. Ho voluto, in qualche modo, consegnare all’eternità quei momenti di passione e dolore.
C’è una strada nel bosco (fotografia in bianco e nero), delineata da macchie di luce e ombra, immaginata Con il vento (2001) e, forse, con Un lupo in agguato, titoli di sue raccolte di poesia. Uno scenario quotidiano, un’inquadratura di paesaggio - ha occasione di dichiarare Kiarostami - desta interesse giusto a partire dalla sua messa in cornice.
Cristalli di fuoco, fiori di neve, sapori di sale, permeano il mondo di Vincenzo Cabiati: un artista attraversato subliminalmente da flash filmici, da affioramenti di scenari immateriali che cercano spazio, volume, peso, nella materia ceramica, nel bronzo, negli splendori di porcellane bianche, argento e oro, di dichiarata ascendenza fontaniana. C’è un bosco senza strada in cui si percepisce, come scrive Bettina Della Casa, Lo sfibrarsi degli alberi, protagonisti di tante immagini, tra luce e ombra, positivo e negativo, pieno e vuoto, nel corpus enigmatico della sua opera.
Quei dispositivi visivi che nei baluginanti volumi delle ceramiche e nei lavori bidimensionali di Vincenzo Cabiati azionano lo sguardo, il punto d’osservazione, gli occhi, le ciglia, le complicità voyeuristiche con un possibile soggetto esterno, in Kiarostami attivano i campi lunghi e totali dei paesaggi, in bianco e nero, del ciclo fotografico Strade/ Roads e in parallelo i fermi-immagine, a colori, del ciclo Il Muro/The Wall: verosimili inquadrature, in soggettiva o in oggettiva, di un’ipotetica figura della narrazione filmica.
Ne scaturisce, in un incendiato corpo-a-corpo tra sapori ancestrali mediorientali e abbordaggi corsari di segno occidentale, un racconto senza argini, in cui gli scatti fotografici del grande regista iraniano Abbas Kiarostami fanno razza con gli indecidibili monumenti ceramici, bronzei, immaginali, del pirata ligure, trapiantato a Milano, Vincenzo Cabiati.
Una mostra scaturita dagli azzardi del pensiero, costruita, virtualmente, da tagli soggettivi dei piani sequenza, dalla fissità o mobilità di soggettive o oggettive, da scale slittanti di piani e angoli di campo, da carrellate e zoomate, da luci e controluci, da voci risonanti o sonorità collassate: davanti all’osservatore, attonito, si dispiega, in una prospettiva stilisticamente astorica, uno scenario disseminante reliquie e reperti di un’irrefrenabile macchina del desiderio.
L’affioramento, dal serbatoio dei ricordi, di visioni che accendono l’immaginario di Vincenzo Cabiati, accade come un’onda liquida che dissolve e rimodella un pensiero, un’immagine, una scena. Non sono citazioni, ma prelievi da subitanei flash tratti subliminalmente dal cinema di Truffaut, Godard, Bergman, Kubrick, Lynch, Sofia Coppola, Campion, Lars von Trier, e innestati su un tessuto altro…il suo, da cui scaturiscono frutti discordi, anacronismi, depistaggi, tagli: inauditi accordi formali, spaziali, senza tempo. Sono light box, reali e metaforiche, illuminate dai riflessi lunari di una luce interiore dalle mille provenienze. L’artista arriva a costruire, in porcellana, la sequenza di un’orgia, solo a partire dal racconto di un’interprete del film Persona (1966) di Ingmar Bergman.
Le strade di Abbas Kiarostami sono nastri grigi, che si snodano nel deserto umano; sono ipotetici piani lunghi in cui l’orizzonte si alza, tra nuvole foriere di tempeste violente, si insinua tra i fianchi sensuali di colline rocciose, si abbassa sulla terra battuta dal vento ad aspirarne i profumi. Kiarostami gioca la sua partita tra vero e falso, tra realtà e illusione, per lasciar affiorare, dal profondo, indizi di verità. Ne sono un tanto significativo quanto inquietante esempio i giochi narrativi tra i protagonisti del suo film Copie conforme, uscito nel 2010, fondati su doppi sensi, tesi a provocare un dialogo, trilingue in originale (inglese-francese-italiano) intessuto d’incomprensioni di coppia, ricatti verbali, interpretazioni arbitrarie. Ne è interprete, premiata a Cannes, Juliette Binoche, che, nella storia, è una gallerista francese, ex antiquaria, stabilitasi ad Arezzo, impegnata a discutere il concetto di copia e originale con un critico d’arte inglese, autore di un libro tradotto in italiano, da presentare, guarda il caso, in Toscana. Si tratta – è stato scritto – de sa première expérience européenne tournée dans une autre langue que le persan.
Vincenzo Cabiati attiva, a sua volta, scambi estremi tra realtà e artificio, ricorrendo a stratagemmi narrativi del cinema, accostando tranches de vie, prelevate dagli stupori o dalle angosce dell’infanzia, slittando, disinvolto, tra gli stilemi degli specifici linguistici, non escluse compenetrazioni di volumi e scarti spaziali di ascendenza boccioniana, con l’esito di monumentalizzare il ricordo, prevalentemente nel lucente materiale ceramico. Remote rammemorazioni vengono lasciate interagire con pulsioni visive della sua personale, iridescente, mnemoteca d’artista. L’accostamento del critico d’arte Elio Grazioli, nel suo testo sulla rivista “Domus”, al film, citato sopra, di Bergman, Persōna, diventa pertinente anche dal punto di vista etimologico di un termine che, nella derivazione latina, mette in gioco il risuonare della voce all’interno della maschera, facendo dell’attore/artista, un dio vaticinante. In uno scenario di immagini, linguaggi, stili, suggestioni, emozioni, seduzioni, che dal Barocco slittano al Futurismo, all’Astratto, al Surreale, al Liberty, all’Informale, al Minimal, al Conceptual, al Dadaismo, compreso, Vincenzo Cabiati si connota come un ricercatore inesausto di prossimità semantiche come di lontananze intergalattiche.
Tra i due artisti aleggia il convitato assente Jean-Luc Godard, simulatore di immagini rubate da archivi materiali e immateriali della storia del cinema, della società, della mente, della psiche, di un’imagerie ora popolare ora d’élite, nonché declinatore audace, nel recente Adieu au langage (2014) della virtualità fantasmatica del rilievo 3D. Entrambi ne condividono il metacinema, la pratica di territori rizomatici, di métissage tra corpi e linguaggi, tra un divenire altro, inaugurato per contagio, di dislivelli linguistici e temporali, di immancabile sapore deleuziano. È dalla contiguità metonimica degli accostamenti che, come tra l’ape e l’orchidea del duo Deleuze-Guattari, si inaugurano inedite ibridazioni di corpi senz’organi, di senso e nonsenso, di territori lisci e striati, di creature antigenealogiche. Non è un caso che proprio Godard abbia dichiarato che Il cinema comincia con Griffith e finisce con Kiarostami. Sorprendente e densa di stimoli è, nel vis-à-vis della mostra, proprio questa triangolazione Godard-Kiarostami-Cabiati. La strategia del furto creativo, praticata, con lucida intelligenza, da questo straordinario trio, autorizza il ricorso al termine copyleft, traducibile con permesso d'autore, per cui il diritto legale (right) verrebbe ceduto (left) implicando altresì lo scambio tra i significati secondi di destra con sinistra.
Stesse modalità di assaporare la realtà e il sogno, il quotidiano più deprimente e la favola più surreale, quelle di Abbas Kiarostami e di Vincenzo Cabiati, due artisti per cui l’arte è sempre contemporanea. In entrambi l’enigma scaturisce dai rispecchiamenti della realtà nell’illusione e dell’illusione nella realtà, nel gioco che avvicina e allontana, con un ribaltamento di cannocchiale, la rappresentazione estetica dalla presenza attuale, la Darstellung dalla Vorstellung, negli slittamenti linguistici, in cui entrambi sono maestri, tra il vero e il simulato, l’originale e la copia difforme, il dicibile e l’indicibile, il visibile e il non visibile.
Come Kiarostami gira un film senza sceneggiatura così Cabiati mette in atto, perseguendo inedite intermediazioni linguistiche e stilistiche, uno scenario visivo di copie originali senza copione. Le sue costruzioni, sospese come un ponte sull’abisso, in cui il déjà vu e il jamais vu spiazzano e seducono, al tempo stesso, l’osservatore, sono narrazioni tridimensionali, intessute di tagli, vuoti di parola, silenzi, fischi, sibili, vibrati tellurici al violoncello (Ritratto di Corrado Levi in ceramica, 2014), sono vertiginose dimore di cristallo costruite con sabbia, frammenti, cumuli di rovine estratti da miniere di diamanti.
Il regista/artista iraniano e il visionario deflagratore di immagini italiano, non cessano, nei loro mondi bidi/tridimensionali di relativizzare l’assoluto, assolutizzare il relativo. Al centro di una crisi epocale in cui il soggetto collassa sul terreno dell’identità e dell’alterità, Abbas Kiarostami delinea un quadro ne Il Sapore della ciliegia (1997) in cui il destino scaturisce dal caso e il caso è investito di destino. Ideatore innovativo di non invenzioni, o reinventore di arcaici dispositivi, come teorizzerebbe Rosalind Krauss, Vincenzo Cabiati adotta la strategia del furto diffuso, culturalmente autorizzato, prendendo, intenzionalmente, le distanze dal citazionismo postmodern. I suoi bronzetti, concitati e barocchi, scaturiti dagli incendi del suo immaginario, sembrano creature laviche costruite con cenere e lapilli. Ora sono Giubbe rosse, rinvianti a strisce di Blek-Macigno e insieme al Barry Lyndon di Kubrick (1975) che ribaltano in un abbraccio erotico il momento sospeso tra l’ultimo respiro e la morte, ora alberi per il bosco di un John Keats, Bright Star filmica di Jane Campion, che dedica un’ode all’usignolo, ora un Orso travestito (tratto dai miti svizzeri del Duo Fischli/Weiss), abbandonato su una poltrona settecentesca o affiorante dalle acque gelide di un lago alpino (The Right Way-Orso nel lago). Tra le installazioni in ceramica, alimentate da suggestioni filmiche e fiabesche, compare un pupazzo niveo, di terracotta bianca, che guarda, attonito, le fiamme di un focolare di improbabile ghiaccio, in cui bruciano verosimili ceppi di legno (è ancora alle provocazioni di Fischli-Weiss che, con spirito ludico e maestria esecutiva, Cabiati risponde); una bambina bionda, La figlia del poliziotto degli Anni in Tasca (L’argent de poche, 1976) di Truffaut, non si perita di far sapere al vicinato che ha fame, comunicandolo, con un megafono, dal poggiolo con decorazioni celesti. Le sue riprese, da un particolare punto di vista, rendono, paradossalmente, fedele la deformazione della scena. Davanti alla parete riflettente, dagli effetti liquidi, di ascendenza martiniana, da cui avanza, in aggetto, la piccola dormeuse, ripresa da quella in cui Richard Wagner ideava la sua Cavalcata delle Valchirie, la conturbante lsabella Rossellini di Blue Velvet (1986) firmato David Lynch, entra in scena uscendo da un tempo sospeso sulla soglia del caso, per cantare all’autore la più ipnotica delle ninna-nanne (Isabella Rossellini mi canta la ninna nanna, 2003). La glacialità cristallina della scultura ceramica di Cabiati viene, in un processo prima mentale che meccanico, estratta, virtualmente, per evaporazione sublimata, tramite un verosimile processo di freeze-drying, con l’esito di diventare immagine, disegno con aureola o viceversa reidratata per ritornare al suo volume plastico. In mostra, fotografie, serigrafate, di Armin Linke, suo storico complice, si accompagnano, sotto lastre di plexiglas, a tele bianche, oro (Ciglia), argento, graffiate, tagliate, forate, incise, corrose. Un parallelepipedo, ancora di trasparente plexiglas, accoglie, tra immagini, ceramica, legno (La casa del ceramista innamorato), al cui interno vasi affusolati di terracotta rinviano ai colli femminili di Modigliani. Con l’opera L’osservatore di polpi ecco ancora Godard e il distinto personaggio di un suo film che, da seduto, è intento a visionare, con aria compassata, una serie di quadri: attraverso un processo proiettivo di regressus ad originem Vincenzo Cabiati gli costruisce, virtualmente, intorno, un'arborescente genealogia del ramo paterno fatta dei tentacoli di un polpo, suo soggetto particolare di un certo periodo, in cui la radicalità del taglio di un Lucio Fontana - divenuto icona di una figura mitica di riferimento, metafora del Padre, ma anche suo alter ego (Achille Cabiati, è stato un esponente del socialismo reale pittorico) -- si sfrangia e sfoglia nei rami di una palma, si dissolve mentalmente nell'inchiostro nero gettato dal polpo per non diventare preda restando predatore. Sono gli anni in cui l’artista disegnava tagliando, incidendo, delineando un vuoto sulla tela, quel vuoto che, nel suo immaginario, viene osservato dalla figura maschile del primo piano di Godard. Non lontane dalle incursioni sul terreno umano dei Kleine e Große Geister di Thomas Schütte, le creature ceramiche di Vincenzo Cabiati si materializzano allo sguardo dell’osservatore in spazi dischiusi tra le faglie del tempo.
Compositore di immagini e situazioni attrattive a livello visivo, percettivo, associativo, evocativo, attivatore e vanificatore di asserzioni, negazioni, intrusioni, Vincenzo Cabiati configura la differenza in un discorso al tempo stesso diacronico e sincronico. All’interno del suo irriproducibile processo creativo, affiorano, trovano spazio e materia, visioni, ossessioni, scene primarie, pronte a riguadagnare il vuoto da cui provengono. Sono accenni di corone, aureole, stemmi araldici, che giocano la partita di un’ininterrotta mise en abyme. Conciliatore degli Ossimori, livellatore dei Paradossi, l’artista invita l’osservatore a cogliere l’imprevedibile logica dell’assurdo, la sorpresa dell’inconciliabile, l’incommensurabile piacere di cogliere la dismisura dell’infinito nella misura del finito. Conferendo forma dolce e colore pastello a spericolati azzardi della mente, Vincenzo Cabiati conduce la riflessione sul bordo di uno specchio incrinato, pronto a spezzarsi o a ferire il soggetto che incautamente vi si avventuri.
Nato lo stesso anno di Abbas Kiarostami (1940), il filosofo francese Jean-Luc Nancy - che ho avuto modo di incontrare, la prima volta, a Genova, nell’ambito del convegno Sapere e Potere del novembre 1980 - è autore di L’Évidence du film, Abbas Kiarostami, Yves Gevaert Editeur, 2001, Bruxelles, – un libro sul fotografo e regista iraniano. Scrivendo in particolare sul film E la vita continua (1992), Nancy afferma che il confine tra finzione e non finzione è molto sottile, che i film di Kiarostami non sono né del tutto finzione, né del tutto documentario: si tratta di vita e niente più, niente rappresentazione, né reportage, ma evidenza. Il film diventa piuttosto un documento della finzione del linguaggio, un documento sull’arte del costruire e decostruire immagini. Ritengo – dichiara Kiarostami – che il pubblico dovrebbe essermi grato per il minimo di informazione che elargisco, che è ancora molto maggiore di quella che ricevono dalla vita reale.
Ulteriori punti in comune tra il fotografo/regista e lo scultore di immagini a più dimensioni: sospensione tra realtà e finzione, tra realismo e onirismo, tra mito e quotidiano, tra caso e inevitabilità, tra un radicamento nella terra e una trasvolata nelle nuvole. Questa mostra multimediale, questa composizione di pièces uniques polimateriche, non cessa di restituire ad ogni immagine, ad ogni oggetto, il colore, la luce, l’ombra, del suo fantasma speculare. Navigatori estremi dell’ambiguità semantica, della scrittura asemantica, della dépense batailliana, Abbas Kiarostami e Vincenzo Cabiati non hanno mai smesso di lavorare alle potenzialità indecidibili della figura e del segno.
Viana Conti
24
settembre 2016
Vis-à-Vis: Abbas Kiarostami | Vincenzo Cabiati: Motori dell’Immaginario. Fuochi Narrativi del Fermo-immagine
Dal 24 settembre al 20 novembre 2016
fotografia
arte contemporanea
arte contemporanea
Location
PALAZZO TAGLIAFERRO
Andora, Largo Milano, (Savona)
Andora, Largo Milano, (Savona)
Orario di apertura
da giovedì a domenica ore 15:00 – 19:00
Vernissage
24 Settembre 2016, h 18.30
Autore
Curatore