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Vittorio Marangoni – La farfalla di Mnemosine
Fragilità, frammento, fantasma, forma, farfalla sono alcune delle sensazioni e delle immagini che suscitano le più recenti opere di Vittorio Marangoni
Comunicato stampa
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Nato nel 1958 a Sala Bolognese.
Allievo di Pirro Cuniberti, Vasco Bendini e Roberto Moschini, si diploma presso l’Istituto Statale d’Arte di Bologna nella sezione di decorazione pittorica.
Nel 1979, nell’ambito di Bologna Children’s Book Fair – International Year of the Child, il suo manifesto viene selezionato, pubblicato ed esposto in Giappone.
Collabora dal 1982 con la cooperativa Teatro Evento per la quale cura tuttora scene, costumi ed immagine. Opera, inoltre, con il Sipario Toscana per il quale ha progettato le scenografie di alcune produzioni.
Illustra per la Nicola Milano Editore la collana di libri per ragazzi “Il porcellino”.
Dal 1995 ad oggi espone le sue opere in diverse gallerie.
Per alcuni anni è direttore tecnico e responsabile del Teatro Comunale di Casalecchio di Reno (Bologna)
LA FARFALLA DI MNEMOSINE
Fragilità, frammento, fantasma, forma, farfalla sono alcune delle sensazioni e delle immagini che suscitano le più recenti opere di Vittorio Marangoni. Ci aveva abituato a guardare il dentro delle finestre delle case contadine abbandonate, là dove il vortice magnetico del tempo che fugge aveva conficcato, risucchiandoli fuori, gli oggetti e i ninnoli di chi ci aveva vissuto: i pennini e i libri, i mozziconi di sigaretta, gli stampi dei cioccolatini, i rastrelli arrugginiti, le perle delle collane, i cucchiai e le forchette, i coltelli, i piattini da caffè, le pale senza manico, le carte romagnole… una poetica struggente del ricordo e della vanitas che si aggrappava al cimelio, al feticcio. Adesso è come se il vortice si fosse portato via anche quei ricordi, e avesse lasciato dietro di sé i loro fantasmi, quasi una loro idea platonica, le ombre dei sentimenti che quegli oggetti avevano suscitato nelle persone attraverso il tatto, gli odori, i sapori.
È come se lo sguardo, dopo avere aperto le finestre e avere contemplato i loro microdepositi, entrasse finalmente nelle stanze disabitate: all’interno le cose sono ricoperte da teli bianchi, ma i teli non prendono la forma piena di poltrone e divani. I teli qui si adagiano sull’anima stessa dell’artista, o meglio su qualcosa che ne rappresenta la mente quando si mette a raccogliere per archiviare. I processi mentali diventano visibili – un corrispettivo di quel fa Dario Voltolini nella scrittura –, davanti ai nostri occhi prende corpo la struttura geometrica e asimmetrica della memoria: così il velo bianco (un sudario), giacendo non profila un volto bensì una griglia accogliente (forma). Dentro i cubicoli sono accolti nuovamente resti di cose (frammento) – per lo più vetro e carta –, ma tutte di una trasparenza che allude al simulacro, all’idea incorporea (fantasma): sono gocce, pendagli di lampadari o steli di candelabri, soprattutto schegge. Nella continuità e nella coerenza poetica dell’artista, i pendagli e le gocce sopravvivono dalle serie precedenti ancora una volta a ricordare un belletto da poveri, una preziosità da nido di gazza… Ma la disposizione seriale sottrae originalità e, soprattutto, il contesto è cambiato, non ci sono più le rughe del legno ingrigito da riscattare: adesso intorno ai ‘gioielli’ smontati c’è un mare di schegge, il quadro non riesce a ricomporsi, il coccio non rimanda all’oggetto. E i pentagrammi esasperano la frantumazione: sono coriandoli di una pagina musicale bloccati sopra dalle schegge di vetro, perché nessuno li soffi via. Su quell’acqua rigida unghie nostalgiche hanno inutilmente graffiato cinque righe e poche note – appartenevano a una melodia che nessuno potrà più eseguire, forse solo reinventare… –. Allora la mano pietosa dell’artista cerca ossessivamente di ricomporre un abbozzo di pentagramma coi fili sciolti di un sacco di iuta (per il frumentone, il grano, i regali della Befana…) – pure la trama della tela si è smembrata. La nostalgia della traccia ha segnato anche i fondi dei piccoli bicchieri da rosolio, ma nessuna dolcezza ambrata stilla da queste ferite delicate, solo un senso di sabbia, a volte polvere di ferro come residuo di un lavoro inutile, di un processo sterile.
Queste immagini sentono di appartenere alla famiglia di Cornell, Perec, Gaudì, ma i decenni sono passati, l’algore tecnico è penetrato ovunque, il sorriso si è un po’ spento, il gioco dei bambini è finito, le lacrime si sono gelate in una brina che ora copre i ricordi.
All’esterno il telo bianco aveva debordato dalla griglia, si era liberato nell’aria, declinando in pieghe e lievi ondeggiamenti, a volte accompagnati ai margini dalla gemma vitrea di una chiave di violino: l’afasia l’ha siderato, come il battito di una farfalla nel vento del tempo.
Gianni Cascone
Allievo di Pirro Cuniberti, Vasco Bendini e Roberto Moschini, si diploma presso l’Istituto Statale d’Arte di Bologna nella sezione di decorazione pittorica.
Nel 1979, nell’ambito di Bologna Children’s Book Fair – International Year of the Child, il suo manifesto viene selezionato, pubblicato ed esposto in Giappone.
Collabora dal 1982 con la cooperativa Teatro Evento per la quale cura tuttora scene, costumi ed immagine. Opera, inoltre, con il Sipario Toscana per il quale ha progettato le scenografie di alcune produzioni.
Illustra per la Nicola Milano Editore la collana di libri per ragazzi “Il porcellino”.
Dal 1995 ad oggi espone le sue opere in diverse gallerie.
Per alcuni anni è direttore tecnico e responsabile del Teatro Comunale di Casalecchio di Reno (Bologna)
LA FARFALLA DI MNEMOSINE
Fragilità, frammento, fantasma, forma, farfalla sono alcune delle sensazioni e delle immagini che suscitano le più recenti opere di Vittorio Marangoni. Ci aveva abituato a guardare il dentro delle finestre delle case contadine abbandonate, là dove il vortice magnetico del tempo che fugge aveva conficcato, risucchiandoli fuori, gli oggetti e i ninnoli di chi ci aveva vissuto: i pennini e i libri, i mozziconi di sigaretta, gli stampi dei cioccolatini, i rastrelli arrugginiti, le perle delle collane, i cucchiai e le forchette, i coltelli, i piattini da caffè, le pale senza manico, le carte romagnole… una poetica struggente del ricordo e della vanitas che si aggrappava al cimelio, al feticcio. Adesso è come se il vortice si fosse portato via anche quei ricordi, e avesse lasciato dietro di sé i loro fantasmi, quasi una loro idea platonica, le ombre dei sentimenti che quegli oggetti avevano suscitato nelle persone attraverso il tatto, gli odori, i sapori.
È come se lo sguardo, dopo avere aperto le finestre e avere contemplato i loro microdepositi, entrasse finalmente nelle stanze disabitate: all’interno le cose sono ricoperte da teli bianchi, ma i teli non prendono la forma piena di poltrone e divani. I teli qui si adagiano sull’anima stessa dell’artista, o meglio su qualcosa che ne rappresenta la mente quando si mette a raccogliere per archiviare. I processi mentali diventano visibili – un corrispettivo di quel fa Dario Voltolini nella scrittura –, davanti ai nostri occhi prende corpo la struttura geometrica e asimmetrica della memoria: così il velo bianco (un sudario), giacendo non profila un volto bensì una griglia accogliente (forma). Dentro i cubicoli sono accolti nuovamente resti di cose (frammento) – per lo più vetro e carta –, ma tutte di una trasparenza che allude al simulacro, all’idea incorporea (fantasma): sono gocce, pendagli di lampadari o steli di candelabri, soprattutto schegge. Nella continuità e nella coerenza poetica dell’artista, i pendagli e le gocce sopravvivono dalle serie precedenti ancora una volta a ricordare un belletto da poveri, una preziosità da nido di gazza… Ma la disposizione seriale sottrae originalità e, soprattutto, il contesto è cambiato, non ci sono più le rughe del legno ingrigito da riscattare: adesso intorno ai ‘gioielli’ smontati c’è un mare di schegge, il quadro non riesce a ricomporsi, il coccio non rimanda all’oggetto. E i pentagrammi esasperano la frantumazione: sono coriandoli di una pagina musicale bloccati sopra dalle schegge di vetro, perché nessuno li soffi via. Su quell’acqua rigida unghie nostalgiche hanno inutilmente graffiato cinque righe e poche note – appartenevano a una melodia che nessuno potrà più eseguire, forse solo reinventare… –. Allora la mano pietosa dell’artista cerca ossessivamente di ricomporre un abbozzo di pentagramma coi fili sciolti di un sacco di iuta (per il frumentone, il grano, i regali della Befana…) – pure la trama della tela si è smembrata. La nostalgia della traccia ha segnato anche i fondi dei piccoli bicchieri da rosolio, ma nessuna dolcezza ambrata stilla da queste ferite delicate, solo un senso di sabbia, a volte polvere di ferro come residuo di un lavoro inutile, di un processo sterile.
Queste immagini sentono di appartenere alla famiglia di Cornell, Perec, Gaudì, ma i decenni sono passati, l’algore tecnico è penetrato ovunque, il sorriso si è un po’ spento, il gioco dei bambini è finito, le lacrime si sono gelate in una brina che ora copre i ricordi.
All’esterno il telo bianco aveva debordato dalla griglia, si era liberato nell’aria, declinando in pieghe e lievi ondeggiamenti, a volte accompagnati ai margini dalla gemma vitrea di una chiave di violino: l’afasia l’ha siderato, come il battito di una farfalla nel vento del tempo.
Gianni Cascone
28
febbraio 2006
Vittorio Marangoni – La farfalla di Mnemosine
Dal 28 febbraio al 09 marzo 2006
arte contemporanea
Location
GRAN CAFE’ NUOVA ITALIA
Castel San Pietro Terme, Via Camillo Benso Conte Di Cavour, 81, (Bologna)
Castel San Pietro Terme, Via Camillo Benso Conte Di Cavour, 81, (Bologna)
Orario di apertura
tutti i giorni 7-22
Vernissage
28 Febbraio 2006, ore 19
Autore