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Vittorio Romano – Opere 1972 – 2007
L’uso esclusivo della matita e del cartoncino come supporto e la scelta del monocromo limitato alle tinte nero, seppia e sanguigna, appaiono un volontario tributo al rigore tradizionale del disegno in arte
Comunicato stampa
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Da dove cominciare per raccontare la produzione grafica di Vittorio Romano? La critica che lo ha seguito in ormai trent’anni di attività e di esposizioni, ha spesso preferito concentrarsi sull’elemento tecnologico-ecologistico: la descrizione del “lungo addio” dell’uomo al suo ecosistema, elemento che certamente è alla base della produzione di Vittorio Romano. Tuttavia, proprio la critica, ha tralasciato di affrontare l’analisi del linguaggio di questo artista, che si è andato definendo negli anni non tanto attraverso la varietà degli elementi costitutivi, quanto delle soluzioni formali e delle loro combinazioni.
L’uso esclusivo della matita e del cartoncino come supporto e la scelta del monocromo limitato alle tinte nero, seppia e sanguigna, appaiono, prim’ancora che un condizionamento derivato dalla formazione accademica e dalla lunga pratica del disegno tecnico, un volontario tributo al rigore tradizionale del disegno in arte. Eppure, se gli strumenti dell’arte di Vittorio Romano sono rimasti sostanzialmente invariati in quasi trent’anni di lavori, non si può dire altrettanto delle soluzioni formali che egli ha prodotto.
Le opere degli anni Settanta, ad esempio, con le quali si apre il percorso espositivo, hanno una struttura complessa: quasi l’intera superficie del supporto è riempita dal disegno.
Esso in questa fase è ancora esclusivamente in nero grafite ed è caratterizzato da una precisa volontà descrittiva, evidente soprattutto nelle “deflagrazioni” e nelle “degenerazioni” di soggetti vegetali o animali che soccombono o sono inglobati in strutture meccaniche.
Il disegno degli elementi biologici è realizzato con grande attenzione per alcuni dettagli anatomici, ma si mantiene lontano dagli esiti del disegno “dal vero”, grazie ad una sostanziale stilizzazione dei volumi ed all’uso volutamente “drammatico” del chiaroscuro che costruisce i corpi per successione di ombre più o meno fitte, spostando l’attenzione dello spettatore più sul concetto di distruzione biologica che sul godimento di un soggetto ben ritratto.
Ugualmente si può dire per le strutture tecnologiche, realizzate come successione di piani orizzontali verticali ed obliqui, quasi sempre visti dall’alto a suggerire uno sviluppo in profondità. Essi, in sequenze anche fittissime, affollano lo spazio circostante gli elementi biologici e, in alcuni casi, sembrano anticipare le soluzioni stilistiche del fumetto di fantascienza degli anni Novanta.
Nelle opere degli anni Ottanta, raccolte nelle mostre del 1984 (Meccanismi e Radici) e del 1987 (Natura e Artificio) le linee e le superfici delle strutture tecnologiche si vanno arrotondando e indefinite “radici” prendono il posto degli uccelli, dei fiori e degli esseri umani del periodo precedente.
Per effetto delle linee e delle superfici curve, le zone di luce si fanno più estese e quelle d’ombra si approfondiscono, mentre il contrasto tra le une e le altre si fa più netto poiché diminuiscono i passaggi chiaroscurali.
Lo spazio circoscritto dalle strutture artificiali viene percepito come in movimento circolare e il rapporto tra gli elementi meccanici e le “radici” sembra meno claustrofobico, forse incentrato sulla ricerca di un nuovo equilibrio.
Siamo, credo, alle soglie di una concezione che prenderà corpo compiutamente nelle opere degli anni Novanta: il supporto, non più interamente riempito dal disegno, presenta ampie zone di spazio vuoto, arioso, in cui si sviluppano le volute di elementi indistinti, ormai privi di qualunque connotato biologico e piuttosto evocativi di energie vitali, primordiali a volte.
Anche l’uso sapiente della sanguigna, che fatta la sua prima comparsa nelle opere dei primi anni Novanta domina l’ultima produzione, rafforza nell’osservatore la sensazione di assistere alla manifestazione di energie che si sviluppano nello spazio plasmandolo.
Teresa Scarpa
L’uso esclusivo della matita e del cartoncino come supporto e la scelta del monocromo limitato alle tinte nero, seppia e sanguigna, appaiono, prim’ancora che un condizionamento derivato dalla formazione accademica e dalla lunga pratica del disegno tecnico, un volontario tributo al rigore tradizionale del disegno in arte. Eppure, se gli strumenti dell’arte di Vittorio Romano sono rimasti sostanzialmente invariati in quasi trent’anni di lavori, non si può dire altrettanto delle soluzioni formali che egli ha prodotto.
Le opere degli anni Settanta, ad esempio, con le quali si apre il percorso espositivo, hanno una struttura complessa: quasi l’intera superficie del supporto è riempita dal disegno.
Esso in questa fase è ancora esclusivamente in nero grafite ed è caratterizzato da una precisa volontà descrittiva, evidente soprattutto nelle “deflagrazioni” e nelle “degenerazioni” di soggetti vegetali o animali che soccombono o sono inglobati in strutture meccaniche.
Il disegno degli elementi biologici è realizzato con grande attenzione per alcuni dettagli anatomici, ma si mantiene lontano dagli esiti del disegno “dal vero”, grazie ad una sostanziale stilizzazione dei volumi ed all’uso volutamente “drammatico” del chiaroscuro che costruisce i corpi per successione di ombre più o meno fitte, spostando l’attenzione dello spettatore più sul concetto di distruzione biologica che sul godimento di un soggetto ben ritratto.
Ugualmente si può dire per le strutture tecnologiche, realizzate come successione di piani orizzontali verticali ed obliqui, quasi sempre visti dall’alto a suggerire uno sviluppo in profondità. Essi, in sequenze anche fittissime, affollano lo spazio circostante gli elementi biologici e, in alcuni casi, sembrano anticipare le soluzioni stilistiche del fumetto di fantascienza degli anni Novanta.
Nelle opere degli anni Ottanta, raccolte nelle mostre del 1984 (Meccanismi e Radici) e del 1987 (Natura e Artificio) le linee e le superfici delle strutture tecnologiche si vanno arrotondando e indefinite “radici” prendono il posto degli uccelli, dei fiori e degli esseri umani del periodo precedente.
Per effetto delle linee e delle superfici curve, le zone di luce si fanno più estese e quelle d’ombra si approfondiscono, mentre il contrasto tra le une e le altre si fa più netto poiché diminuiscono i passaggi chiaroscurali.
Lo spazio circoscritto dalle strutture artificiali viene percepito come in movimento circolare e il rapporto tra gli elementi meccanici e le “radici” sembra meno claustrofobico, forse incentrato sulla ricerca di un nuovo equilibrio.
Siamo, credo, alle soglie di una concezione che prenderà corpo compiutamente nelle opere degli anni Novanta: il supporto, non più interamente riempito dal disegno, presenta ampie zone di spazio vuoto, arioso, in cui si sviluppano le volute di elementi indistinti, ormai privi di qualunque connotato biologico e piuttosto evocativi di energie vitali, primordiali a volte.
Anche l’uso sapiente della sanguigna, che fatta la sua prima comparsa nelle opere dei primi anni Novanta domina l’ultima produzione, rafforza nell’osservatore la sensazione di assistere alla manifestazione di energie che si sviluppano nello spazio plasmandolo.
Teresa Scarpa
02
dicembre 2007
Vittorio Romano – Opere 1972 – 2007
Dal 02 dicembre 2007 al 02 gennaio 2008
arte contemporanea
Location
CENTRO CULTURALE IL PILASTRO
Santa Maria Capua Vetere, Via R. D'angiò, 56, (Caserta)
Santa Maria Capua Vetere, Via R. D'angiò, 56, (Caserta)
Autore
Curatore