Create an account
Welcome! Register for an account
La password verrà inviata via email.
Recupero della password
Recupera la tua password
La password verrà inviata via email.
-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Vittorio Valente – Contenitori di corpi
Un viaggio affascinante attraverso il poiliedrico e panteiforme universo dell’artista genovese
Comunicato stampa
Segnala l'evento
Il cammino artistico di Vittorio Valente, apprezzabile per coerenza progettuale ed originalità stilistica, si colloca esemplarmente all’interno del percorso di più marcata eccellenza della scena artistica italiana contemporanea, quello meglio in grado, a mio avviso, di confrontarsi in maniera armonica, ma al tempo stesso positivamente competitiva, con il restante panorama internazionale, perché detentore di personalità e di quelle caratteristiche estetiche e linguistiche peculiari al “genius loci”nazionale. Conosco il lavoro di Vittorio fin dai primi anni ’90. Rimasi subito colpito dal suo stile atipico , dalla capacità di creare opere bidimensionali ed installazioni dal carattere fortemente innovativo, e dalla destrezza nell’adoperare materiali plastici inconsueti per la maggior parte della scena dell’epoca. Circolava un’aria non bella nell’Italia artistica di quegli anni : dopo l’entusiasmo un po’ ebbro che aveva caratterizzato l’eclettismo mediatico e metropolitano della seconda metà degli anni ’80 si era passati ad una fase di interdizione, dove il panorama si presentava invaso da massicce dosi di pittura affrettata e superficiale, pallido clone di quella spontanea e sincera voglia di figurazione di pochi anni addietro e, quanto è peggio, da un suicida incitamento del sistema artistico nei confronti di installazioni neo concettuali che si presentavano armate di una sconcertante povertà linguistica e ricalcavano pedestremente le urgenze formali degli anni ’60 e ’70 in cui l’unico carico di diversa significanza era fornito da un atteggiamento di insopportabile snobismo e supponenza intellettuale, degno al più di un’analisi sociologica, ma certamente estraneo a qualsiasi riflessione estetica degna di tal nome. Coloro non disposti ad adeguarsi a questo stato di cose, uno sparuto numero di critici e gallerie ed un nucleo fortunatamente più consistente di artisti, dovettero rassegnarsi ad intraprendere una lunga attraversata del deserto, a tutt’oggi non terminata, ma di cui fortunatamente si inizia forse a scorgere la conclusione. Al rapporto già subito di stima nei confronti di Vittorio è subentrata, dalla fine dei ’90, una positiva ed intensa collaborazione, coronata nella personale, e relativo ampio catalogo del settembre 2003 presso il Museo d’Arte Contemporanea di Villa Croce a Genova. Del testo di allora riprendo dei dati a tutt’oggi attualissimi relativi all’inquadramento storico ed all’analisi formale del lavoro di Valente, aggiornandoli alla luce di una poetica in continua e febbrile evoluzione, ed all’importante personale presso la galleria di Sabrina Raffaghello, cui è dedicato questo testo. Il lavoro di Valente riesce , al pari di pochi altri, a rappresentare un elemento di continuità rispetto alle poetiche emerse in Italia a partire dalla metà degli anni’80, data delle sue prime apparizioni pubbliche, per poi proseguire nel decennio successivo fino ai giorni nostri, che costituiscono, al momento, ancora un episodio collegato al più recente passato. Nelle opere dell’artista genovese sono rintracciabili tracce dello stile degli anni ’80, in particolare rispetto all’esigenza di rinnovamento del linguaggio della scultura e dell’installazione tramite l’impiego dei nuovi materiali plastici che fu tipico, ad esempio, delle prove degli aderenti al “Nuovo futurismo”, in particolare Plumcake e Gianantonio Abate, e di vari altri autori. Ma, di pari, il lavoro di Valente, ulteriormente raffinatosi negli anni’90, interpreta al meglio certe suggestioni e fascinazioni del confronto tra l’arte, le nuove frontiere biologiche e scientifiche e la percezione del proprio corpo e dell’intera gamma delle facoltà sensoriali a contatto con una realtà sempre più frammentata e virtuale, ben sintetizzate da una mostra che nei primi anni di quel decennio conobbe una vasta eco, anche in virtù del forte apparato promozionale e mediatico di cui si avvalse, la celebre “Post Human”, curata da Jeffrey Deitch, effettivamente uno dei non molti eventi in grado di sintetizzare efficacemente un clima di mutamento stilistico internazionale corredandolo di esempi validi ed indicativi. Peccato poi che, particolarmente in Italia, il sistema dell’arte, in particolare nei suoi gangli informativi, abbia teso sfacciatamente ad incoraggiare la proliferazione di materiale debole ed epigono, frenando a lungo l’apparire sulla scena di quegli artisti, e Valente è certamente tra questi, in grado di porsi meglio e naturalmente in sintonia con quella tendenza grazie ad un lavoro di assoluta originalità e pregnanza formale. Un lavoro che si colloca nella scia del grande mutamento stilistico emerso, a livello globale ma in Italia con caratteristiche senz’altro singolari, a partire dalla metà degli anni’70, una volta spentasi, dopo aver raggiunto l’apice con la stagione Concettuale, la carica propulsiva della rivoluzione linguistica novecentesca. Da quella data si susseguono due fasi, una temporalmente ristretta fino ai primi anni’80, dove la predominante è costituita dal ritorno in forze dei valori della manualità, pittorici e decorativi, espressionisti ed aniconici, a lungo negati dal rigore mentale ed analitico degli anni precedenti ed allora di nuovo, prepotentemente alla ribalta, la seconda molto più estesa, ad occupare la scena dalla metà di quel decennio fino ai giorni nostri, pur in presenza di numerose varianti. Il primo lasso, prolungatosi fino alla parte iniziale degli anni’90, è caratterizzato, da un lato, dalla citazione in serie delle esperienze caratterizzanti il corso delle avanguardie novecentesche, dall’altro da un’attenzione ossessivamente rivolta verso gli scenari dell’immaginario metropolitano, dall’infatuazione verso le nuove tecnologie, ancora “in nuce” se si pensa alla vorticosa accelerazione dei nostri giorni, ed all’epoca fonte di accesa curiosità, dalla centralità riposta nuovamente nei valori dell’individuo, anche in chiave di competizione sociale, dopo la sbornia ideologica e collettivista degli anni’70. Il tutto condito dalla vocazione all’interdisciplinarietà ed alla commistione con varie altre discipline creative, musica, fumetto e teatro soprattutto. Gli anni ’90, fino alla fase attuale, costituiscono, a mio parere, il proseguimento di quelle esperienze con l’aggiunta di alcune, significative mutazioni. Il dato che balza prepotente agli occhi sovrastando qualsiasi altra considerazione, è costituito dall’enorme incremento della produzione artistica, frutto in primo luogo di una più ampia disinibizione nell’esternare la propria potenzialità creativa, per conforto vocazionale ma talvolta addirittura terapeutico, retaggio positivo dei movimenti di liberazione dai vincoli e dalle costrizioni della società borghese che hanno scosso l’occidente a partire dagli anni’50, ma anche fortemente debitore nei confronti di una struttura sociale sempre più marcatamente postindustriale, in cui l’immaterialità virtuale conseguenza della presenza invasiva delle nuove tecnologie ha allargato gli orizzonti dell’arte in termini di possibilità formali, agevolando inoltre la velocità di realizzazione delle opere, di cui si è altresì troppo spesso abusato, stringendola al contempo d’assedio, saccheggiando a piene mani i valori racchiusi nel suo sacro recinto, per spalmarli uniformemente nei siti della moda, della pubblicità, del design, causando, in molti casi, una salutare reazione di difesa, con gli artisti pronti a raccogliere e manipolare i copiosi scarti prodotti da una società sovrabbondante, opulenta, corrosa dalla cafoneria e dal cattivo gusto. Da un punto di vista stilistico e dei contenuti l’arte dell’ultimo decennio ha visto prevalere i valori di un eclettismo che è spaziato da un nuovo concettuale, spesso caratterizzato da una rinnovata attenzione alle istanze politiche e sociali ma capace anche di spingersi a ritroso nei meandri dell’introspezione psicologica, dalla persistenza della pittura, in bilico tra dimensione realistica ed allegorica, che, in termini di competizione d’immagini, ha dovuto affrontare l’arduo scontro, talvolta oppositivo ma in vari casi incline all’alleanza, con la fotografia ed il video. Il problema più scottante, per coloro i quali si sono posti nella condizione di elementi terzi ed arbitri rispetto a questa sovrabbondanza produttiva, è stato quello di governare una scena sempre più sfuggente e mutante, onere al quale, in realtà, molti hanno preferito abdicare optando per la tutto sommato comoda attività di curatore, laddove con questa qualifica si intende un compilatore consenziente di liste redatte avvalendosi esclusivamente dell’ausilio di gallerie e collezionisti, come se non fosse possibile ed opportuno operare una mediazione tra questo ormai inevitabile esercizio, ed il mantenimento di quella fondamentale capacità di scelta e di giudizio che è implicita alla natura ed alla funzione della critica d’arte. Ma qual è il ruolo occupato da Vittorio Valente all’interno di questo scenario quanto mai variegato e spesso effimero? Ho già prima introdotto alcuni fondamentali elementi di giudizio inquadrando il lavoro dell’artista genovese come simbolico “trait d’union” tra lo stile, simile ma non del tutto omologo, di due successivi decenni. Già a partire dalla seconda metà degli anni’80, infatti, Valente appare alla ribalta con la serie dei “guerrieri”, contenente la summa della sua poetica, in seguito resasi ancora più articolata e stilisticamente duttile. Si manifesta la costante dell’uso di innovativi materiali plastici e sintetici, particolarmente il silicone, che ben si adatta ad essere manipolato in mille modi e maniere, assumendo le sembianze di una vera e propria “seconda pelle”. Valente, se il confronto non appare irriguardoso, e non lo è se si considerano le cose attestandole sulla loro scala di valori temporale può, per certi aspetti, essere considerato una sorta di Kandinsky postmoderno. Infatti, se il geniale avanguardista russo ha il grande merito di avere per primo, e con decisione, squarciato il “velo di Maya” sulle pulsazioni vitali degli organismi cellulari mostrandoci una realtà inedita, sublimata da un’osservazione condotta come dal vetrino di un microscopio, rivelandoci l’intensità ed il dinamismo dell’universo biomorfico, Valente, quasi un secolo dopo, parte dalla sua attività di analista chimico per comunicarci l’illusoria ludicità delle cellule impazzite, dei virus che incombono minacciosi ad insidiare esistenze che ci sembrano al riparo da rischi, tenute sotto controllo da una scienza sempre più evoluta, da una tecnologia avvolgente e soffice. Kandisky fu indotto, dal clima culturale dei tempi, a circoscrivere le sue intense ed affastellate composizioni dentro il confine bidimensionale, Valente invece permette alle sue amebe, ai virus, di liberarsi da queste pastoie ed invadere, apparentemente gai ed innocui, in realtà sottilmente minacciosi, l’ambiente circostante moltiplicandosi esponenzialmente. L’orizzonte di Valente non è biomorfico, è diretto verso il sito della manipolazione genetica, delle nuove frontiere della scienza che prefigurano un futuro già per molti aspetti presente dove l’uomo assume le sembianze di un androide dalle parti intercambiabili, e si trova nella condizione del guerriero costretto senza posa a difendersi da micidiali microrganismi da egli stessi irresponsabilmente germinati nel delirio della mania di grandezza, del progresso illimitato. Le opere di Valente già assumono, negli anni’80, quell’aspetto formalmente irreprensibile che perfettamente si integra nell’ambiente circostante, tale da sfidare le arti applicate, particolarmente il design, sul loro stesso terreno, invertendo i termini tradizionali del rapporto, restituendo all’arte il molto che negli ultimi anni le è stato sottratto dai limitrofi territori dell’oggettualismo, dell’immagine e della comunicazione. Quel periodo segna, in Italia e fuori, un ritorno di valori astratto-geometrici, adeguati alla nuova estetica telematica, ai “pixel” della “computer graphic”, che aggiornano il linguaggio guida dell’avanguardia novecentesca, scongiurando il rischio di una citazione passiva ed inerte. Di pari assistiamo ad una riformulazione del linguaggio della scultura e dell’installazione, con una produzione che oscilla tra forme asciutte e minimali ed altre tendenti ad una più evidente ridondanza , con l’uso integrato delle tecnologie e con l’impiego di nuovi materiali plastici e sintetici. Valente si pone esemplarmente al crocevia ideale di queste impostazioni e le osservazioni sulla nuova dimensione “post umana” dell’esistenza condurranno il suo lavoro a sintonizzarsi con gli umori più diffusi ed interessanti del decennio successivo. Decennio che vede l’artista genovese passare attraverso tre fasi tra loro intimamente collegate, predominanti stilistiche per brevi periodi abbandonate e poi riprese, modificate, aggiornate alla luce di nuove intuizioni. La prima, datata primi anni’90, delle “cellule”, strettamente abbinata a quella immediatamente successiva dei “derma scheletri”. Nella prima assistiamo ad un predominanza bidimensionale, mentre la seconda indulge efficacemente ad un originale costruttivismo, con le superfici istoriate di silicone montate su basi metalliche, una pelle artificiale che riveste la sua struttura ossea, dando vita ad a assemblaggi che simulano parodisticamente un espanso monumentalismo. L’ultimo periodo, quello dei “virus”, è certamente connotato da una felice, quasi frenetica vena creativa, che ha dotato di nuovo propellente la già solida carriera dell’artista. I “virus” testimoniano in maniera evidente l’interesse di Valente per la microbiologia, per il fitto reticolo amebico che giace racchiuso nelle forme organiche, apparentemente silente ma pronto a colpire con effetti devastanti. I microbi e batteri si presentano colorati a tinte squillanti come effettivamente appaiono in natura, seppure in presenza di un certo surplus decorativo, ad enfatizzare l’effetto ammaliante di queste creature insidiose, gradevoli all’aspetto come tutti i grandi tentatori. Nelle ultime installazioni Valente preme sull’acceleratore dell’enfasi compositiva, creando assemblaggi talvolta di dimensioni imponenti, più spesso costellando l’ambiente di centinaia di piccole creature, tondeggianti e soffici al tatto per effetto della superficie siliconata, sorta di gommosi gadget per l’infanzia, simili a quelli confezionati nelle confezioni di merende e biscotti destinati al pubblico infantile, o all’opposto, in taluni casi volutamente vicine all’oggettistica innocuamente perversa dei pornoshop. Così operando, l’artista eleva i simboli del trash, del cattivo gusto imperante nei sottoscala della società contemporanea, a simulacri di una nuova estetica,riuscendo a decontestualizzarli con abilità e scaltrezza formale. Bisogna tener presente come spesso questi oggetti, all’apparenza innocui e giocosi, celino concrete insidie al loro interno, come aghi di siringhe e lamette, sebbene confezionate in modo da non costituire una minaccia per il fruitore inconsapevole ed ammaliato dalla veemenza totalizzante dell’impatto visivo. Uno dei più acuti teorici italiani della contemporaneità, Mario Perniola, in suo testo del 2000 intitolato “L’arte e la sua ombra”, a tutt’oggi del tutto attuale, come confermato dallo studioso medesimo in una serie di interventi recenti, individua due tendenze fondamentali all’interno dell’esperienza artistica occidentale : una finalizzata ad un risultato di catarsi, l’altra tendente a suscitare nel fruitore un alto livello di coinvolgimento emotivo, tale da condurlo in uno stato di “choc”. In questo caso si evidenzia un fenomeno opposto, ma per molti aspetti speculare al conio, nel Settecento, del concetto estetico di “gusto”, poiché l’arte contemporanea, in molte delle sue manifestazioni, si connoterebbe, viceversa, per la ricerca di un’estetica del “disgusto”, ottenuta ponendoci a contatto con le categorie del disfacimento organico e della morte. Ma la realtà del disgustoso è sostanzialmente un “surplus” di vita, con quest’ultima che deborda dal suo abituale alveo e si estende ad abbracciare e contaminare tutto l’esistente. Caratteristica di Valente, e dei migliori artisti italiani degli ultimi anni, è il sapersi collocare sapientemente in bilico tra queste due opzioni : da un lato porre in evidenza il reale nella sua disarmante nudità, nel suo sublime e tragico splendore, dall’altro neutralizzare gli effetti di una visione troppo diretta con la mediazione della pratica tradizionale dell’arte, con gli strumenti simbolici offerti, ad esempio, dalla decorazione che, nel caso di Valente, camuffa l’oggetto fino a farlo quasi scomparire nel flusso della comunicazione, nel suo caso intesa come complicità con l’universo delle arti applicate. In questa installazione Valente pone in essere una ulteriore tappa del suo vitalistico cammino di artista. Il corpo umano presente nella sua tangibilità di massa cellulare, ma assente come concreta presenza fisica, dopo la recente personale alla Fusion Art in cui il riferimento era quello di cellule virali dall’aspetto innocuo e leggiadro di fiori, è rappresentato in questa occasione con la modalità oggettuale del contenitore, contenitori cavi fittamente decorati con le consuete e sempre spiazzanti decorazioni istologiche, da cui balenano elementi zoomorfi : delicate lumachine la cui imprevista presenza sottende la volontà, in Valente sempre viva, di sorprendere e disorientare lo spettatore, ponendolo al centro di una composizione in cui il punto di vista non è mai univoco e muta di continuo, costringendolo ad una visione a 360°. Completa l’insieme, sempre in omaggio al concetto di contenitore ed alla presenza/assenza del corpo umano, una serie di ‘sedie” realizzata con la tradizionale tecnica cifra inconfondibile dello stile di Valente, in cui con più evidenza l’artista pone la sua sfida all’interno della comunicazione.
Edoardo Di Mauro, giugno 2005.
Edoardo Di Mauro, giugno 2005.
02
luglio 2005
Vittorio Valente – Contenitori di corpi
Dal 02 luglio al 18 agosto 2005
arte contemporanea
Location
SABRINA RAFFAGHELLO ARTE CONTEMPORANEA
Ovada, Via Benedetto Cairoli, 42, (Alessandria)
Ovada, Via Benedetto Cairoli, 42, (Alessandria)
Orario di apertura
dal mercoledì al sabato dalle 10,30 alle 12,30 e dalle 16,30 alle 19,30; il venerdì sera del mese di luglio dalle 21 alle 23; la domenica su appuntamento
Vernissage
2 Luglio 2005, ore 19
Autore
Curatore