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Walter De Mojà – Un viaggio nel cuore delle città
In esposizione ci sono stampe digitali su tela ritoccate a mano, anche di grande dimensione, e stampe fotografiche lambda, introdotte da un video multimediale che accompagna il visitatore nel suo tragitto avveniristico ed irreale in un’esperienza visiva di forte impatto cromatico.
Comunicato stampa
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A progettare la città ideale finora non è riuscito nessuno. In molti, però, hanno provato ad immaginarla, come contenitore fisico e virtuale di sogni e bisogni. Tra rivoluzione tecnologica, urbanistica, sostenibilità e piani paesistici, da sempre l’arte ha offerto lo sguardo più incontaminato ed evocativo sulle città. Uno sguardo contemporaneo su questo inesauribile tema è offerto dall’artista reggino Walter De Mojà con la mostra “Un viaggio nel cuore delle città”, che è possibile visitare a Matera, presso la sede dell’associazione Arterìa, in vico XX Settembre, fino al 18 giugno. In esposizione ci sono stampe digitali su tela ritoccate a mano, anche di grande dimensione, e stampe fotografiche lambda, introdotte da un video multimediale che accompagna il visitatore nel suo tragitto avveniristico ed irreale in un’esperienza visiva di forte impatto cromatico.
Il viaggio che oggi intraprende Walter De Mojà nel cuore di città surreali e quasi impossibili segue l’ideale percorso tracciato nei secoli dall’arte, la letteratura e il cinema. Italo Calvino, nelle sue “Città invisibili”, sostiene che “per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti”, ma “occorre scartare tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che ingombrano il campo visivo e la capacità di comprendere”. Anche la metafisica di De Chirico, che ispirò il surrealismo e che influenza chiaramente i lavori di De Mojà, descrive una visione degli oggetti che va oltre il loro contorno identificabile dagli occhi. Due visioni complementari riassunte nelle opere di Walter De Mojà, dove le città hanno elementi, come vuole Calvino, ridotti all’essenziale, e l’alternanza tra architetture moderne e scenari naturali crea un effetto straniante.
L’atmosfera, come in “La città sole luna” è sospesa in un luogo senza spazio, che potrebbe essere l’Aleph borgesiano, quel “luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. A guidare il visitatore in questo viaggio, è la donna dello “Sguardo sulla città fluttuante”, unica presenza umana del ciclo di lavori, sul cui volto enigmatico è riflessa la sintesi dei desideri e delle suggestioni legate al concetto di città. E se l’elemento vivente manca nelle altre opere, ciò accade per facilitare, come accade negli scenari vuoti e desolanti di De Chirico, la proiezione delle sensazioni di chi guarda sulla tela. L’uomo è piuttosto colui che immagina, consegnando alla città le sue aspettative e quella “risposta ad una domanda” che, per Calvino, rende godibile un centro urbano. Elemento ricorrente della personale di De Mojà è il mare, che si ricollega all’elemento acquatico originario delle prime città, nate cinquemila anni fa tra due fiumi, alla confluenza tra il Tigri e l’Eufrate, ma soprattutto conferisce al soggetto un andamento fluido.
La città si muove, respira, sogna come l’uomo che l’ha creata e deve vivere nel suo contesto. I suoi elementi sono indefiniti: ci si possono vedere grattacieli, ma anche monumenti, torri, obelischi. In “La città e la strada”, palazzi e mura si incamminano verso un orizzonte visionario; in “La città sull’isola”, si innalzano al di sopra della linea del mare; in “La città segue il vulcano”, la metropoli immobile sembra guardare con desiderio la natura selvaggia della montagna (soggetto prediletto anche da Warhol); in “La città nave” l’intero centro urbano si mette in viaggio sul mare in una notte illuminata dalla luna. Immagini di forte impatto visivo, grazie all’uso di colori accesi e al minimalismo della computer art, fucina di infinite variazioni sul tema, che riesce a tradurre visivamente quei “frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario” di cui parlava Calvino.
Il lavoro di De Mojà, nato nel ’64 a Reggio Calabria, con stile personalissimo e innovativo, si inserisce nel discorso mai concluso sulla città a misura d’uomo, quanto mai attuale in epoca di ecomostri e cattedrali nel deserto, egualmente banditi dalle metropoli irreali dell’artista reggino. La città perfetta era, secondo William Morris, quella dove gli operai potevano trovare l’ambiente più rassicurante e dignitoso per svolgere serenamente il loro lavoro e, così, rendere al massimo nell’utopico modello socialista dell’Ottocento. Per Engels, invece, dovevano scomparire i baratri sociali tra le impeccabili architetture londinesi e dei quartieri alti e i sobborghi della miseria. La città del terzo millennio è figlia di due secoli di sperimentazioni, e, dopo l’11 settembre, diventa principalmente un rifugio contro le paure del futuro: un luogo tranquillizzante; un nido dove, con la complicità di arredi urbani morbidi e non invasivi, riscoprire relazioni familiari e amicali; un contesto in cui modernità e recupero dell’ambiente possono convivere nel reciproco rispetto; uno scenario amico e non distruttivo del bagaglio di tradizioni delle comunità.
Di questi desideri, più di qualsiasi urbanista, si sono fatti portavoce gli artisti, abituati sin dall’età primitiva a “contaminare” l’ambiente con i propri segni, nella lunga evoluzione dai graffiti sulle caverne alle colorate iscrizioni dei writer metropolitani. Ma di metropoli reali e del sogno hanno parlato anche letterati e cineasti. Joyce ha dato voce al corpo e all’anima della “Gente di Dublino”; Milan Kundera, nell’ultimo romanzo “L’ignoranza”, sintetizza il luogo della memoria, Praga, con quello del domani, Parigi; Philip K. Dick racconta le terrorizzate città americane del postnucleare. Al cinema, le città sono state protagoniste di capolavori indimenticabili: dall’allucinato inferno degli schiavi di “Metropolis” di Fritz Lang; al diario sonoro di “Lisbon story”, dove la città si svela in un dna di rumori e ritmi; alla New York che Woody Allen e Spike Lee non si stancano di raccontare tra amore e odio; alla Rimini nostalgica di “Amarcord” di Fellini, grande narratore anche di Roma, sua città d’adozione artistica; alla Parigi pudica e maliziosa di Eric Rohmer. Ma il cinema ha parlato anche di città angoscianti, come quella virtuale della saga di “Matrix”, il bellissimo affresco fantascientifico di “Blade Runner”, o la metropoli malata di “The hole” del taiwanese Tsai Ming-liang, che immagina uno scenario apocalittico dove l’aria delle strade è irrespirabile e si deve vivere isolati, senza alcun contatto umano.
In questo dibattito, i colori vivaci della città di Walter De Mojà inducono all’ottimismo, ma alcuni scenari più cupi, come in “La città maestosa” e “La città e il suo litorale”, o rappresentazioni surreali come “La città che affaccia sul mondo”, ammoniscono sul rischio che le metropoli si trasformino in mostri di bruttezza deforme, incubatrici di sogni irrealizzabili e paure. L’assenza di figure umane e la cancellazione di tutti i connotati storici, sociali e persino ambientali, trasformano le città, da contenitori di epoche e culture, a semplici luoghi sognati, dove l’artista invita a provare ancora a sentire le emozioni, svilite da un’attualità dominata da mass media narcotizzanti della fantasia e dell’individualità. Ma c’è anche una riflessione sull’era dell’incomunicabilità. “La città della notte rossa” sembra richiamare in modo più evidente, nel titolo, i presagi inquieti e meta-fisici di De Chirico, intuibili dietro la freddezza degli oggetti. Per dirla ancora con Calvino, “una riflessione sulla città dei nostri tempi…il caos che ci opprime…i mostri che creiamo, sicuri che la nostra sia un’onnipotenza pari a quella degli dei”. L’originale viaggio visivo proposto Walter De Mojà invita ad interpretare i molteplici significati delle città: amate, odiate, venerate, violentate, spesso invivibili. Un viaggio che, forse, verso tappe sempre nuove, l’uomo non concluderà mai.
Isabella Marchiolo
Il viaggio che oggi intraprende Walter De Mojà nel cuore di città surreali e quasi impossibili segue l’ideale percorso tracciato nei secoli dall’arte, la letteratura e il cinema. Italo Calvino, nelle sue “Città invisibili”, sostiene che “per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti”, ma “occorre scartare tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che ingombrano il campo visivo e la capacità di comprendere”. Anche la metafisica di De Chirico, che ispirò il surrealismo e che influenza chiaramente i lavori di De Mojà, descrive una visione degli oggetti che va oltre il loro contorno identificabile dagli occhi. Due visioni complementari riassunte nelle opere di Walter De Mojà, dove le città hanno elementi, come vuole Calvino, ridotti all’essenziale, e l’alternanza tra architetture moderne e scenari naturali crea un effetto straniante.
L’atmosfera, come in “La città sole luna” è sospesa in un luogo senza spazio, che potrebbe essere l’Aleph borgesiano, quel “luogo dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli”. A guidare il visitatore in questo viaggio, è la donna dello “Sguardo sulla città fluttuante”, unica presenza umana del ciclo di lavori, sul cui volto enigmatico è riflessa la sintesi dei desideri e delle suggestioni legate al concetto di città. E se l’elemento vivente manca nelle altre opere, ciò accade per facilitare, come accade negli scenari vuoti e desolanti di De Chirico, la proiezione delle sensazioni di chi guarda sulla tela. L’uomo è piuttosto colui che immagina, consegnando alla città le sue aspettative e quella “risposta ad una domanda” che, per Calvino, rende godibile un centro urbano. Elemento ricorrente della personale di De Mojà è il mare, che si ricollega all’elemento acquatico originario delle prime città, nate cinquemila anni fa tra due fiumi, alla confluenza tra il Tigri e l’Eufrate, ma soprattutto conferisce al soggetto un andamento fluido.
La città si muove, respira, sogna come l’uomo che l’ha creata e deve vivere nel suo contesto. I suoi elementi sono indefiniti: ci si possono vedere grattacieli, ma anche monumenti, torri, obelischi. In “La città e la strada”, palazzi e mura si incamminano verso un orizzonte visionario; in “La città sull’isola”, si innalzano al di sopra della linea del mare; in “La città segue il vulcano”, la metropoli immobile sembra guardare con desiderio la natura selvaggia della montagna (soggetto prediletto anche da Warhol); in “La città nave” l’intero centro urbano si mette in viaggio sul mare in una notte illuminata dalla luna. Immagini di forte impatto visivo, grazie all’uso di colori accesi e al minimalismo della computer art, fucina di infinite variazioni sul tema, che riesce a tradurre visivamente quei “frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario” di cui parlava Calvino.
Il lavoro di De Mojà, nato nel ’64 a Reggio Calabria, con stile personalissimo e innovativo, si inserisce nel discorso mai concluso sulla città a misura d’uomo, quanto mai attuale in epoca di ecomostri e cattedrali nel deserto, egualmente banditi dalle metropoli irreali dell’artista reggino. La città perfetta era, secondo William Morris, quella dove gli operai potevano trovare l’ambiente più rassicurante e dignitoso per svolgere serenamente il loro lavoro e, così, rendere al massimo nell’utopico modello socialista dell’Ottocento. Per Engels, invece, dovevano scomparire i baratri sociali tra le impeccabili architetture londinesi e dei quartieri alti e i sobborghi della miseria. La città del terzo millennio è figlia di due secoli di sperimentazioni, e, dopo l’11 settembre, diventa principalmente un rifugio contro le paure del futuro: un luogo tranquillizzante; un nido dove, con la complicità di arredi urbani morbidi e non invasivi, riscoprire relazioni familiari e amicali; un contesto in cui modernità e recupero dell’ambiente possono convivere nel reciproco rispetto; uno scenario amico e non distruttivo del bagaglio di tradizioni delle comunità.
Di questi desideri, più di qualsiasi urbanista, si sono fatti portavoce gli artisti, abituati sin dall’età primitiva a “contaminare” l’ambiente con i propri segni, nella lunga evoluzione dai graffiti sulle caverne alle colorate iscrizioni dei writer metropolitani. Ma di metropoli reali e del sogno hanno parlato anche letterati e cineasti. Joyce ha dato voce al corpo e all’anima della “Gente di Dublino”; Milan Kundera, nell’ultimo romanzo “L’ignoranza”, sintetizza il luogo della memoria, Praga, con quello del domani, Parigi; Philip K. Dick racconta le terrorizzate città americane del postnucleare. Al cinema, le città sono state protagoniste di capolavori indimenticabili: dall’allucinato inferno degli schiavi di “Metropolis” di Fritz Lang; al diario sonoro di “Lisbon story”, dove la città si svela in un dna di rumori e ritmi; alla New York che Woody Allen e Spike Lee non si stancano di raccontare tra amore e odio; alla Rimini nostalgica di “Amarcord” di Fellini, grande narratore anche di Roma, sua città d’adozione artistica; alla Parigi pudica e maliziosa di Eric Rohmer. Ma il cinema ha parlato anche di città angoscianti, come quella virtuale della saga di “Matrix”, il bellissimo affresco fantascientifico di “Blade Runner”, o la metropoli malata di “The hole” del taiwanese Tsai Ming-liang, che immagina uno scenario apocalittico dove l’aria delle strade è irrespirabile e si deve vivere isolati, senza alcun contatto umano.
In questo dibattito, i colori vivaci della città di Walter De Mojà inducono all’ottimismo, ma alcuni scenari più cupi, come in “La città maestosa” e “La città e il suo litorale”, o rappresentazioni surreali come “La città che affaccia sul mondo”, ammoniscono sul rischio che le metropoli si trasformino in mostri di bruttezza deforme, incubatrici di sogni irrealizzabili e paure. L’assenza di figure umane e la cancellazione di tutti i connotati storici, sociali e persino ambientali, trasformano le città, da contenitori di epoche e culture, a semplici luoghi sognati, dove l’artista invita a provare ancora a sentire le emozioni, svilite da un’attualità dominata da mass media narcotizzanti della fantasia e dell’individualità. Ma c’è anche una riflessione sull’era dell’incomunicabilità. “La città della notte rossa” sembra richiamare in modo più evidente, nel titolo, i presagi inquieti e meta-fisici di De Chirico, intuibili dietro la freddezza degli oggetti. Per dirla ancora con Calvino, “una riflessione sulla città dei nostri tempi…il caos che ci opprime…i mostri che creiamo, sicuri che la nostra sia un’onnipotenza pari a quella degli dei”. L’originale viaggio visivo proposto Walter De Mojà invita ad interpretare i molteplici significati delle città: amate, odiate, venerate, violentate, spesso invivibili. Un viaggio che, forse, verso tappe sempre nuove, l’uomo non concluderà mai.
Isabella Marchiolo
05
giugno 2004
Walter De Mojà – Un viaggio nel cuore delle città
Dal 05 al 18 giugno 2004
arte contemporanea
Location
SALA MOSTRE ARTERIA
Matera, Vico XX Settembre, 2, (Matera)
Matera, Vico XX Settembre, 2, (Matera)
Orario di apertura
16.30-20.30 (domenica chiuso)