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Without
Il progetto, molto ampio, manifesta, già nelle prime intenzioni degli organizzatori, il desiderio di superare ogni limite espressivo e geografico per quanto riguarda le scelte stilistiche e la provenienza degli artisti selezionati
Comunicato stampa
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Il progetto, molto ampio, manifesta, già nelle prime intenzioni degli organizzatori, il desiderio di superare ogni limite espressivo e geografico per quanto riguarda le scelte stilistiche e la provenienza degli artisti selezionati.
Le opere esposte in Without, saranno tutte rigorosamente senza titolo; una teoria di "moduli" dal forte impatto cromatico e formale offerti allo sguardo dei fruitori che, svincolati dalla lettura suggerita dai nomi imposti, potranno liberamente interpretare e costruire la propria "visione" rispondendo esclusivamente a stimoli sensoriali ed emozionali.
La scelta dell'assenza (Fancesco Giulio Farachi)
Curatori di mostre e critici d'arte hanno senz'altro una mente perversa. Al di là del convinto ed istintivo consenso che tale affermazione trova sia fra gli artisti sia nel più diffuso pubblico, l'occasione attuale ne costituisce una buona dimostrazione. Solo con una sottile perfidia si può infatti concepire e rendere concreta l'idea di mettere in mostra una contraddizione pura. O, per dirla altrimenti, di sfidare tutti – artisti, spettatori, se stessi – ad un gioco (o seria faccenda?) in cui si rende l'irrilevanza della designazione rilevante al punto da designare se stessa in un'esposizione. "Senza titolo" – per una mostra, per le opere che la compongono – è un'assenza dichiaratamente falsa e fuorviante. Intanto perché "senza titolo", titolo lo è indubitabilmente – ambiguo e bifido, ma sempre titolo. E poi, soprattutto perché, invece di togliere qualcosa, questa negazione aggiunge, invece di limitare, espande, carica ed investe i suoi oggetti di ogni possibilità interpretativa, moltiplica gli approcci.
Allora, l'audacia di questa proposizione sta nell'invito a cogliere la bellezza e la ricchezza di una libertà che finalmente lasci spaziare fin dove mente e sentimento riescono ad arrivare. Trovarsi di fronte ad un'opera d'arte e non subire i vincoli della didascalia, dell'orientamento imposto, in un certo qual modo rende tangibile il segreto dell'arte, l'enigma di ogni ispirazione, ed anche, specialmente, il mistero del sentimento che suscita nell'osservarla, il riflesso che quell'opera proietta sulla vita. Si tratta in fin dei conti, di godere di una sensazione pura, per certi versi primordiale. Una materia, una figura, un segno, una parola possono giungere all'osservazione solo per ciò che sono, indicare soltanto quella materia, quella figura, quel segno o parola. Perché questo è ciò che essi dicono all'immediato. L'assenza del titolo fortifica la presenza della cosa.
Eppure, con la stessa intensità, vale anche l'esatto contrario. L'opera in sé e per sé veste il fascino dell'interpretazione, sollecita la ricerca dei riferimenti, stimola quell'esercizio sovrano della mente che è la lettura allegorica ed analogica. Resta così aperto il compito di definire la materia, la figura, il segno o la parola, di osservare oltre alla faccia che presentano la rivelazione della loro faccia nascosta, ed immaginare intorno ad essi contesti e spazi e concetti, significati e poi prospettive.
Non si può dunque credere che una mostra senza titolo sia solo una vetrina per opere senza titolo. È un criterio metodologico, è un voler guardare oltre gli schemi già acquisiti, significa gettare le competenze tecniche e creative nell'agone dell'indefinitezza per vedere quale definizione esse stesse si danno e producono, e vedere poi se da qualche parte e con quale vigore stia germogliando il seme del futuro. Insomma quella che superficialmente potrebbe apparire come una trovata sbrigativa, si rivela essere una coscienziosa impostazione scientifica. Non solo, è un accesso per mettere a disposizione un territorio per l'arte, un luogo assente, un luogo "senza", un luogo che manca di muri e confini, ma che proprio per questo solidamente rende concreta l'esperienza di conoscenza e ricerca, di nuove sperimentazioni e di nuova attenzione. Prima che i fatali "ismi", quelli già coniati e quelli prossimi venturi, cristallizzino quell'esperienza come fatto già acquisito e scontato.
Tutto sommato, è questo un contegno ed un modo possibile per dimostrare rispetto verso l'opera d'arte, verso il segreto della sua presenza, e di passare da un linguaggio all'altro, di trasferire i simboli in esperienze concrete, di stabilire una rete di corrispondenze e consapevolezze, di cucire e ricucire il tessuto che aiuti a capire la vita.
Without ovvero "ogni riferimento è puramente casuale" ( Ida Mitrano)
Quanto il titolo sia importante e quanto lo sia ai fini della fruizione dell'opera d'arte, è una questione sulla quale riflettere. Credo tuttavia, che in questo specifico contesto espositivo la vera questione sia un'altra. L'assenza del titolo - e dunque di un riferimento verbale ad un determinato contenuto di cui l'opera è in qualche modo portatrice - è particolarmente significativa se, come in questo caso, non è espressione della volontà del singolo artista, ma si connota invece, al di là delle differenze tra i linguaggi, come un comun denominatore, capace di spostare l'attenzione del fruitore verso altro. E, in quanto tale, simile alla punta di un iceberg, diviene l'elemento evidente di una problematica che è ben più complessa: quella del senso dell'opera d'arte nella società odierna. Una questione che richiede oggi risposte chiare, perfino radicali, certamente non "accomodanti". L'attuale tendenza alla spettacolarizzazione dell'arte ha ridotto l'opera ad "oggetto" da consumare immediatamente, ad un evento che deve produrre audience o corrispondere a determinate esigenze di mercato. Sembrerebbero non esserci più criteri condivisi di valore, ma questo equivarrebbe a decretare la fine stessa di ogni possibilità di giudizio critico e, prima ancora, la perdita del senso ultimo del fare arte. Su questo è necessario riflettere per rifondare l'arte su nuove ragioni.
Pur non entrando nel merito di tali ragioni, ritengo che l'arte debba essere una sorta di varco, una via d'accesso verso ciò che è a noi sconosciuto. Io e l'altro. Un incontro, l'unico, capace di consentire al pensiero di evolversi oltre il già pensato. Come questo possa avvenire e come possa trovare forma nell'opera, spetta all'artista rispondere con la propria ricerca. Se poi l'opera contenga realmente in sé le tracce di quell'incontro, è tutto da verificare secondo parametri che devono necessariamente tener conto delle profonde trasformazioni della società contemporanea, nonché delle diverse modalità di trasmissione del sapere e di quanto esse incidano sulla formazione del pensiero.
Without, un urlo "muto", ma non per questo meno potente. L'urlo di un'arte che afferma il proprio diritto ad essere ed a confrontarsi provocatoriamente senza titolo e perfino senza le consuete indicazioni che sempre accompagnano l'opera, ad eccezione del nome dell'artista. Non rimandare ad altro da sé, ma lasciare che le forme, i colori, i materiali, i segni si differenzino o si richiamino l'un l'altro per imporre l'opera come presenza, invece, affatto muta.
Senza titolo (Pier Maurizio Greco)
Ho ancora le mani sporche di colore, scuro sotto le
unghie.
Cercavo il blu più profondo, lo cercavo tra un'onda e l'altra, e insieme un verde intenso di fogliame, un giallo odoroso di costiera, così distesi in pennellate ampie, piegate in orizzonti multipli.
In quei segni vicini, in quei toni accostati, ho aperto finestre, per lasciare allo sguardo lo spessore dell'impasto e la sua forma, per lasciarti percorrere quella distanza.
E, nel perimetro di quello spazio imposto, il viaggio è davvero senza limiti.
In lungo e in largo si susseguono immagini, luoghi, corpi; la memoria aggiunge somiglianze, ritaglia e suggerisce contorni.
La tua visione prende vita, scorre tra i reticoli e le curve, nei sintagmi estratti e ricomposti si snoda un nuovo itinerario.
Ti osservo, con la testa obliqua, mentre cerchi la tua storia; stabilisci lunghezze, raccogli frasi e suoni in cerca di definizione.
Sei artefice massimo, accarezzi il potere di possedere, di fermarti in questo territorio, di spalancare gli occhi e riconoscerne i confini.
Sei dominus, signore e padrone di queste terre, puoi attraversarle con i tuoi destrieri.
Ti è concesso infine il potere di apporre un nome.
Ti osservo e attendo, con le mani sporche di colore, perché di fronte hai un "luogo" senza titolo.
LITTLE UNTITLED (Stefano Iatosti)
Tutte le opere d'arte hanno un titolo. Alcuni sono semplici didascalie, si limitano a descrivere il soggetto rappresentato; altri propongono un rapporto simbolico, poetico o allusivo con l'oggetto a cui si riferiscono. Esistono composizioni numerate, che nella loro austerità si avvicinano al carattere formale della musica. E infine, abbiamo il ricorso al "Senza titolo". Vi è forse l'intenzione di non esprimere negando all'opera la sua identificazione verbale? O non si tratta piuttosto di una nuova forma d'intitolazione? Clfford Still ha dichiarato che "l'osservatore vede solo ciò che le sue paure, speranze o la sua istruzione gli hanno insegnato a vedere". Perché allora ricorrere a un titolo, se qualsiasi forma di comunicazione è illusoria?
È questa in effetti la strada perseguita dai minimalisti, che concentrano l'attenzione sull'oggetto senza che questo pretenda di significare altro che la sua presenza concreta nello spazio. La rinuncia a un titolo evocativo o semplicemente descrittivo è la conseguenza logica di un atteggiamento impersonale, che prelude paradossalmente alla scomparsa dell'oggetto e alla sua sostituzione con l'enunciato, il concetto verbale. Nel titolo può allora riassumersi l'intera opera. L'idea non ha più bisogno di un mezzo per esplicarsi. Ma l'estremo rigore è del silenzio. Perché anche l'idea è un turbamento del vuoto.
Per questo la materia torna a rivendicare la sua natura primordiale e tutto ciò che era stato tenuto a freno dal concetto, pulsioni inconsce, immagini oniriche, fantasmi e ossessioni private, riemerge sotto forma pittorica, si concreta nel recupero del marmo come dei materiali poveri o degli oggetti trovati. E con i materiali, con le forme, tornano i titoli. Allusivi, quando la scelta è aniconica. Iperdidascalici, se il riferimento è all'anacronismo. Qualcuno sceglie di non intitolare, altri di sovratitolare.
Ma la questione resta insoluta. Cosa lega realmente un titolo all'opera a cui si riferisce, più che la targhetta, la didascalia o l'indispensabile riferimento di mercato? Si direbbe che ciascun artista abbia dato la sua risposta senza pretendere che la risposta di uno valesse per tutti gli altri. Forse c'è un legame più forte di quello che si potrebbe supporre a prima vista. Anche per chi sceglie il "Senza titolo". Non è una scelta casuale, in fondo. Se non si può parlare chiaramente, qualche volta è proprio meglio tacere.
Le opere esposte in Without, saranno tutte rigorosamente senza titolo; una teoria di "moduli" dal forte impatto cromatico e formale offerti allo sguardo dei fruitori che, svincolati dalla lettura suggerita dai nomi imposti, potranno liberamente interpretare e costruire la propria "visione" rispondendo esclusivamente a stimoli sensoriali ed emozionali.
La scelta dell'assenza (Fancesco Giulio Farachi)
Curatori di mostre e critici d'arte hanno senz'altro una mente perversa. Al di là del convinto ed istintivo consenso che tale affermazione trova sia fra gli artisti sia nel più diffuso pubblico, l'occasione attuale ne costituisce una buona dimostrazione. Solo con una sottile perfidia si può infatti concepire e rendere concreta l'idea di mettere in mostra una contraddizione pura. O, per dirla altrimenti, di sfidare tutti – artisti, spettatori, se stessi – ad un gioco (o seria faccenda?) in cui si rende l'irrilevanza della designazione rilevante al punto da designare se stessa in un'esposizione. "Senza titolo" – per una mostra, per le opere che la compongono – è un'assenza dichiaratamente falsa e fuorviante. Intanto perché "senza titolo", titolo lo è indubitabilmente – ambiguo e bifido, ma sempre titolo. E poi, soprattutto perché, invece di togliere qualcosa, questa negazione aggiunge, invece di limitare, espande, carica ed investe i suoi oggetti di ogni possibilità interpretativa, moltiplica gli approcci.
Allora, l'audacia di questa proposizione sta nell'invito a cogliere la bellezza e la ricchezza di una libertà che finalmente lasci spaziare fin dove mente e sentimento riescono ad arrivare. Trovarsi di fronte ad un'opera d'arte e non subire i vincoli della didascalia, dell'orientamento imposto, in un certo qual modo rende tangibile il segreto dell'arte, l'enigma di ogni ispirazione, ed anche, specialmente, il mistero del sentimento che suscita nell'osservarla, il riflesso che quell'opera proietta sulla vita. Si tratta in fin dei conti, di godere di una sensazione pura, per certi versi primordiale. Una materia, una figura, un segno, una parola possono giungere all'osservazione solo per ciò che sono, indicare soltanto quella materia, quella figura, quel segno o parola. Perché questo è ciò che essi dicono all'immediato. L'assenza del titolo fortifica la presenza della cosa.
Eppure, con la stessa intensità, vale anche l'esatto contrario. L'opera in sé e per sé veste il fascino dell'interpretazione, sollecita la ricerca dei riferimenti, stimola quell'esercizio sovrano della mente che è la lettura allegorica ed analogica. Resta così aperto il compito di definire la materia, la figura, il segno o la parola, di osservare oltre alla faccia che presentano la rivelazione della loro faccia nascosta, ed immaginare intorno ad essi contesti e spazi e concetti, significati e poi prospettive.
Non si può dunque credere che una mostra senza titolo sia solo una vetrina per opere senza titolo. È un criterio metodologico, è un voler guardare oltre gli schemi già acquisiti, significa gettare le competenze tecniche e creative nell'agone dell'indefinitezza per vedere quale definizione esse stesse si danno e producono, e vedere poi se da qualche parte e con quale vigore stia germogliando il seme del futuro. Insomma quella che superficialmente potrebbe apparire come una trovata sbrigativa, si rivela essere una coscienziosa impostazione scientifica. Non solo, è un accesso per mettere a disposizione un territorio per l'arte, un luogo assente, un luogo "senza", un luogo che manca di muri e confini, ma che proprio per questo solidamente rende concreta l'esperienza di conoscenza e ricerca, di nuove sperimentazioni e di nuova attenzione. Prima che i fatali "ismi", quelli già coniati e quelli prossimi venturi, cristallizzino quell'esperienza come fatto già acquisito e scontato.
Tutto sommato, è questo un contegno ed un modo possibile per dimostrare rispetto verso l'opera d'arte, verso il segreto della sua presenza, e di passare da un linguaggio all'altro, di trasferire i simboli in esperienze concrete, di stabilire una rete di corrispondenze e consapevolezze, di cucire e ricucire il tessuto che aiuti a capire la vita.
Without ovvero "ogni riferimento è puramente casuale" ( Ida Mitrano)
Quanto il titolo sia importante e quanto lo sia ai fini della fruizione dell'opera d'arte, è una questione sulla quale riflettere. Credo tuttavia, che in questo specifico contesto espositivo la vera questione sia un'altra. L'assenza del titolo - e dunque di un riferimento verbale ad un determinato contenuto di cui l'opera è in qualche modo portatrice - è particolarmente significativa se, come in questo caso, non è espressione della volontà del singolo artista, ma si connota invece, al di là delle differenze tra i linguaggi, come un comun denominatore, capace di spostare l'attenzione del fruitore verso altro. E, in quanto tale, simile alla punta di un iceberg, diviene l'elemento evidente di una problematica che è ben più complessa: quella del senso dell'opera d'arte nella società odierna. Una questione che richiede oggi risposte chiare, perfino radicali, certamente non "accomodanti". L'attuale tendenza alla spettacolarizzazione dell'arte ha ridotto l'opera ad "oggetto" da consumare immediatamente, ad un evento che deve produrre audience o corrispondere a determinate esigenze di mercato. Sembrerebbero non esserci più criteri condivisi di valore, ma questo equivarrebbe a decretare la fine stessa di ogni possibilità di giudizio critico e, prima ancora, la perdita del senso ultimo del fare arte. Su questo è necessario riflettere per rifondare l'arte su nuove ragioni.
Pur non entrando nel merito di tali ragioni, ritengo che l'arte debba essere una sorta di varco, una via d'accesso verso ciò che è a noi sconosciuto. Io e l'altro. Un incontro, l'unico, capace di consentire al pensiero di evolversi oltre il già pensato. Come questo possa avvenire e come possa trovare forma nell'opera, spetta all'artista rispondere con la propria ricerca. Se poi l'opera contenga realmente in sé le tracce di quell'incontro, è tutto da verificare secondo parametri che devono necessariamente tener conto delle profonde trasformazioni della società contemporanea, nonché delle diverse modalità di trasmissione del sapere e di quanto esse incidano sulla formazione del pensiero.
Without, un urlo "muto", ma non per questo meno potente. L'urlo di un'arte che afferma il proprio diritto ad essere ed a confrontarsi provocatoriamente senza titolo e perfino senza le consuete indicazioni che sempre accompagnano l'opera, ad eccezione del nome dell'artista. Non rimandare ad altro da sé, ma lasciare che le forme, i colori, i materiali, i segni si differenzino o si richiamino l'un l'altro per imporre l'opera come presenza, invece, affatto muta.
Senza titolo (Pier Maurizio Greco)
Ho ancora le mani sporche di colore, scuro sotto le
unghie.
Cercavo il blu più profondo, lo cercavo tra un'onda e l'altra, e insieme un verde intenso di fogliame, un giallo odoroso di costiera, così distesi in pennellate ampie, piegate in orizzonti multipli.
In quei segni vicini, in quei toni accostati, ho aperto finestre, per lasciare allo sguardo lo spessore dell'impasto e la sua forma, per lasciarti percorrere quella distanza.
E, nel perimetro di quello spazio imposto, il viaggio è davvero senza limiti.
In lungo e in largo si susseguono immagini, luoghi, corpi; la memoria aggiunge somiglianze, ritaglia e suggerisce contorni.
La tua visione prende vita, scorre tra i reticoli e le curve, nei sintagmi estratti e ricomposti si snoda un nuovo itinerario.
Ti osservo, con la testa obliqua, mentre cerchi la tua storia; stabilisci lunghezze, raccogli frasi e suoni in cerca di definizione.
Sei artefice massimo, accarezzi il potere di possedere, di fermarti in questo territorio, di spalancare gli occhi e riconoscerne i confini.
Sei dominus, signore e padrone di queste terre, puoi attraversarle con i tuoi destrieri.
Ti è concesso infine il potere di apporre un nome.
Ti osservo e attendo, con le mani sporche di colore, perché di fronte hai un "luogo" senza titolo.
LITTLE UNTITLED (Stefano Iatosti)
Tutte le opere d'arte hanno un titolo. Alcuni sono semplici didascalie, si limitano a descrivere il soggetto rappresentato; altri propongono un rapporto simbolico, poetico o allusivo con l'oggetto a cui si riferiscono. Esistono composizioni numerate, che nella loro austerità si avvicinano al carattere formale della musica. E infine, abbiamo il ricorso al "Senza titolo". Vi è forse l'intenzione di non esprimere negando all'opera la sua identificazione verbale? O non si tratta piuttosto di una nuova forma d'intitolazione? Clfford Still ha dichiarato che "l'osservatore vede solo ciò che le sue paure, speranze o la sua istruzione gli hanno insegnato a vedere". Perché allora ricorrere a un titolo, se qualsiasi forma di comunicazione è illusoria?
È questa in effetti la strada perseguita dai minimalisti, che concentrano l'attenzione sull'oggetto senza che questo pretenda di significare altro che la sua presenza concreta nello spazio. La rinuncia a un titolo evocativo o semplicemente descrittivo è la conseguenza logica di un atteggiamento impersonale, che prelude paradossalmente alla scomparsa dell'oggetto e alla sua sostituzione con l'enunciato, il concetto verbale. Nel titolo può allora riassumersi l'intera opera. L'idea non ha più bisogno di un mezzo per esplicarsi. Ma l'estremo rigore è del silenzio. Perché anche l'idea è un turbamento del vuoto.
Per questo la materia torna a rivendicare la sua natura primordiale e tutto ciò che era stato tenuto a freno dal concetto, pulsioni inconsce, immagini oniriche, fantasmi e ossessioni private, riemerge sotto forma pittorica, si concreta nel recupero del marmo come dei materiali poveri o degli oggetti trovati. E con i materiali, con le forme, tornano i titoli. Allusivi, quando la scelta è aniconica. Iperdidascalici, se il riferimento è all'anacronismo. Qualcuno sceglie di non intitolare, altri di sovratitolare.
Ma la questione resta insoluta. Cosa lega realmente un titolo all'opera a cui si riferisce, più che la targhetta, la didascalia o l'indispensabile riferimento di mercato? Si direbbe che ciascun artista abbia dato la sua risposta senza pretendere che la risposta di uno valesse per tutti gli altri. Forse c'è un legame più forte di quello che si potrebbe supporre a prima vista. Anche per chi sceglie il "Senza titolo". Non è una scelta casuale, in fondo. Se non si può parlare chiaramente, qualche volta è proprio meglio tacere.
06
ottobre 2007
Without
Dal 06 al 21 ottobre 2007
arte contemporanea
Location
CHIESA DI SAN FRANCESCO
Capranica, Piazza del comune, (Viterbo)
Capranica, Piazza del comune, (Viterbo)
Orario di apertura
tutti i giorni ore 15.30-19.30
Vernissage
6 Ottobre 2007, ore 18.30
Sito web
www.comune.capranica.vt.it
Autore
Curatore