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Yoshua Okón – Piovra. Project room: Talia Chetrit – Marking
Nei due spazi principali verranno rispettivamente esposti “Piovra”, la videoinstallazione che dà il titolo alla mostra, e “Hipnostasis”, un progetto realizzato da Okon in collaborazione con Raymond Pettibon. Nella project room verranno saranno esposte una selezione di fotografie di Talia Chetrit.
Comunicato stampa
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kaufmann repetto e’ lieta di annunciare la nuova mostra di Yosua Okón, "Piovra".
La ricerca di Yoshua Okon (Città del Messico, 1970) può essere interpretata come una incessante sperimentazione socio-antropologica, tradotta in lavori (spesso video-installazioni, ma anche fotografie e oggetti) che, pur mantenendo spesso un aspetto all’apparenza documentaristico, trascendono il contesto in cui si collocano per parlare, più in generale, degli aspetti contraddittori, surreali e grotteschi che appartengono alla condizione umana.
Nei video di Yoshua Okon l’improvvisazione e il coinvolgimento di non-attori ha un ruolo fondamentale, come a far intendere che la realtà supera di gran lunga la fantasia in fatto di emblematicità e di risonanza delle situazioni ritratte. Così, in "Orillese a la Orilla", dei poliziotti messicani sono chiamati a esibire davanti alla telecamera le loro pose migliori, creando un involontario spettacolo machista che parla di sopraffazione e abuso di potere. In un lavoro più recente, intitolato "Bocanegra", Okon lavora con un gruppo di neo nazisti messicani che, durante il loro rituale incontro settimanale, vestiti con divise del Terzo Reich, intrattengono conversazioni surreali che inframmezzano statement politici a banali considerazioni di ordine quotidiano.
"Piovra", il lavoro che dà il titolo alla mostra (esposto in contemporanea all’Hammer Museum di Los Angeles), consiste nella rimessa in scena della guerra civile in Guatemala, riproposta nel parcheggio di un Home Depot della periferia di Los Angeles, durante un giorno di regolare apertura. Yoshua Okon porta alla ribalta una guerra che tutti, in particolare gli USA, hanno voluto dimenticare, anche in virtù del provato coinvolgimento della CIA negli sconvolgimenti politici guatemaltechi che, nei primi anni ’50, hanno condotto ad una guerra civile tenuta in vita per ben 40 anni con lo scopo di favorire le multinazionali statunitensi nel controllo di una porzione significativa dell’economia Guatemalteca.
I performer che prendono parte al video sono membri della comunità Maya di Los Angeles: immigrati clandestini negli USA in fuga dai lunghi anni di una guerriglia a cui hanno preso parte in entrambe le fazioni, i combattenti ripropongono la loro esperienza di guerra, traslata nel luogo dove, ad oggi, passano le loro giornate in attesa di essere assunti come braccianti giornalieri.
L’effetto straniante creato dalla distanza, all’apparenza insanabile, tra un campo di battaglia e il parcheggio di un grande magazzino, si assottiglia fino a rivelare le responsabilità politiche e morali di un paese assopito dal consumismo e dalla convinzione che il profitto possa costituire un pretesto per conquistare e sottomettere.
Nell’altro ambiente della galleria, come una sorta di contrappunto, e’ esposto "Hipnostasis", una video-installazione prodotta in collaborazione con Raymond Pettibon. Attraverso una narrativa frammentata, i due artisti ritraggono un gruppo di vagabondi hippies di Venice Beach, volontariamente dediti a un’esistenza al di fuori delle regole e dei dettami sociali. La stasi che contraddistingue queste figure dall’aspetto icastico, quasi dei monumenti a un’utopia fallita, rivela l’approccio profondamente mistico e allo stesso tempo rivoluzionario di questi reduci della filosofia hippy. A un livello ulteriore, il lavoro sembra aprirsi a un’investigazione più profonda, di carattere esistenziale, che mette in discussione assunti come l’autenticità delle nostre scelte di vita e la comune nozione del tempo e dello spazio.
Attraverso un approccio che mischia toni comici e tragici, il reale e l'assurdo, Yoshua Okon ci offre due manifestazioni, all’apparenza antitetiche, di un'indagine volta a rivelare gli aspetti critici di una realtà che, percepita attraverso un sistema di convenzioni e di condizionamenti culturali, spesso ci si para davanti senza essere vista.
All'interno della project room verrà invece esposta una selezione di lavori della giovane e promettente fotografa NewYorkese Talia Chetrit.
Il titolo della mostra di Talia Chetrit, "Marking", rimanda a una polisemia che risuona nel lavoro stesso dell’artista. Come nel gesto di marcare, nelle fotografie di Talia Chetrit si assiste a una individualizzazione dell’oggetto che è anche un’appropriazione, si tratti di un vaso, una zolla di terra o un corpo nudo.
E ancora, marcare significa imprimere un segno: in maniera analoga, gli scatti di Talia Chetrit sono spesso il risultato di un processo combinatorio che rimanda alla bidimensionalità propria del disegno e della scrittura.
Il ribaltamento dei piani prospettici contribuisce a questo continuo rimando al segno: così, a una cavità nel terreno corrisponde frontalmente il rilievo di un seno, come a voler smentire la gerarchia tra orizzontale e verticale, tra spazio positivo e negativo e, in senso traslato, tra maschile e femminile.
Questo azzeramento di gerarchie avviene anche tra l'oggetto e il corpo femminile, così come tra materia organica e inorganica. Tutto, davanti all'obiettivo, diventa strumentale alla ricerca di un sistema di equilibri interni e di rimandi tra un lavoro e l'altro.
Ciò che ci aspetteremmo essere il risultato di un processo di post produzione e', nel lavoro di Talia Chetrit, il frutto di un uso sapiente e 'artigianale' del mezzo fotografico, in cui l'illusione finale e' tutta concentrata nello scatto, nelle forme e nella luce. La rivendicazione e la consapevole rielaborazione di moduli provenienti dalla storia della fotografia, spesso di stampo surrealista, si intreccia con un continuo interrogarsi sul mezzo, attraverso un linguaggio che svela le contraddizioni, ma pure le risorse infinite del metodo fotografico.
La ricerca di Yoshua Okon (Città del Messico, 1970) può essere interpretata come una incessante sperimentazione socio-antropologica, tradotta in lavori (spesso video-installazioni, ma anche fotografie e oggetti) che, pur mantenendo spesso un aspetto all’apparenza documentaristico, trascendono il contesto in cui si collocano per parlare, più in generale, degli aspetti contraddittori, surreali e grotteschi che appartengono alla condizione umana.
Nei video di Yoshua Okon l’improvvisazione e il coinvolgimento di non-attori ha un ruolo fondamentale, come a far intendere che la realtà supera di gran lunga la fantasia in fatto di emblematicità e di risonanza delle situazioni ritratte. Così, in "Orillese a la Orilla", dei poliziotti messicani sono chiamati a esibire davanti alla telecamera le loro pose migliori, creando un involontario spettacolo machista che parla di sopraffazione e abuso di potere. In un lavoro più recente, intitolato "Bocanegra", Okon lavora con un gruppo di neo nazisti messicani che, durante il loro rituale incontro settimanale, vestiti con divise del Terzo Reich, intrattengono conversazioni surreali che inframmezzano statement politici a banali considerazioni di ordine quotidiano.
"Piovra", il lavoro che dà il titolo alla mostra (esposto in contemporanea all’Hammer Museum di Los Angeles), consiste nella rimessa in scena della guerra civile in Guatemala, riproposta nel parcheggio di un Home Depot della periferia di Los Angeles, durante un giorno di regolare apertura. Yoshua Okon porta alla ribalta una guerra che tutti, in particolare gli USA, hanno voluto dimenticare, anche in virtù del provato coinvolgimento della CIA negli sconvolgimenti politici guatemaltechi che, nei primi anni ’50, hanno condotto ad una guerra civile tenuta in vita per ben 40 anni con lo scopo di favorire le multinazionali statunitensi nel controllo di una porzione significativa dell’economia Guatemalteca.
I performer che prendono parte al video sono membri della comunità Maya di Los Angeles: immigrati clandestini negli USA in fuga dai lunghi anni di una guerriglia a cui hanno preso parte in entrambe le fazioni, i combattenti ripropongono la loro esperienza di guerra, traslata nel luogo dove, ad oggi, passano le loro giornate in attesa di essere assunti come braccianti giornalieri.
L’effetto straniante creato dalla distanza, all’apparenza insanabile, tra un campo di battaglia e il parcheggio di un grande magazzino, si assottiglia fino a rivelare le responsabilità politiche e morali di un paese assopito dal consumismo e dalla convinzione che il profitto possa costituire un pretesto per conquistare e sottomettere.
Nell’altro ambiente della galleria, come una sorta di contrappunto, e’ esposto "Hipnostasis", una video-installazione prodotta in collaborazione con Raymond Pettibon. Attraverso una narrativa frammentata, i due artisti ritraggono un gruppo di vagabondi hippies di Venice Beach, volontariamente dediti a un’esistenza al di fuori delle regole e dei dettami sociali. La stasi che contraddistingue queste figure dall’aspetto icastico, quasi dei monumenti a un’utopia fallita, rivela l’approccio profondamente mistico e allo stesso tempo rivoluzionario di questi reduci della filosofia hippy. A un livello ulteriore, il lavoro sembra aprirsi a un’investigazione più profonda, di carattere esistenziale, che mette in discussione assunti come l’autenticità delle nostre scelte di vita e la comune nozione del tempo e dello spazio.
Attraverso un approccio che mischia toni comici e tragici, il reale e l'assurdo, Yoshua Okon ci offre due manifestazioni, all’apparenza antitetiche, di un'indagine volta a rivelare gli aspetti critici di una realtà che, percepita attraverso un sistema di convenzioni e di condizionamenti culturali, spesso ci si para davanti senza essere vista.
All'interno della project room verrà invece esposta una selezione di lavori della giovane e promettente fotografa NewYorkese Talia Chetrit.
Il titolo della mostra di Talia Chetrit, "Marking", rimanda a una polisemia che risuona nel lavoro stesso dell’artista. Come nel gesto di marcare, nelle fotografie di Talia Chetrit si assiste a una individualizzazione dell’oggetto che è anche un’appropriazione, si tratti di un vaso, una zolla di terra o un corpo nudo.
E ancora, marcare significa imprimere un segno: in maniera analoga, gli scatti di Talia Chetrit sono spesso il risultato di un processo combinatorio che rimanda alla bidimensionalità propria del disegno e della scrittura.
Il ribaltamento dei piani prospettici contribuisce a questo continuo rimando al segno: così, a una cavità nel terreno corrisponde frontalmente il rilievo di un seno, come a voler smentire la gerarchia tra orizzontale e verticale, tra spazio positivo e negativo e, in senso traslato, tra maschile e femminile.
Questo azzeramento di gerarchie avviene anche tra l'oggetto e il corpo femminile, così come tra materia organica e inorganica. Tutto, davanti all'obiettivo, diventa strumentale alla ricerca di un sistema di equilibri interni e di rimandi tra un lavoro e l'altro.
Ciò che ci aspetteremmo essere il risultato di un processo di post produzione e', nel lavoro di Talia Chetrit, il frutto di un uso sapiente e 'artigianale' del mezzo fotografico, in cui l'illusione finale e' tutta concentrata nello scatto, nelle forme e nella luce. La rivendicazione e la consapevole rielaborazione di moduli provenienti dalla storia della fotografia, spesso di stampo surrealista, si intreccia con un continuo interrogarsi sul mezzo, attraverso un linguaggio che svela le contraddizioni, ma pure le risorse infinite del metodo fotografico.
15
settembre 2011
Yoshua Okón – Piovra. Project room: Talia Chetrit – Marking
Dal 15 settembre al 10 novembre 2011
arte contemporanea
Location
KAUFMANN REPETTO
Milano, Via Di Porta Tenaglia, 7, (Milano)
Milano, Via Di Porta Tenaglia, 7, (Milano)
Orario di apertura
da martedì a venerdì ore 11.00 - 19.30
sabato ore 14.00 - 19:30
lunedì su appuntamento
domenica chiuso
Vernissage
15 Settembre 2011, ore 19.00
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