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exibart prize incontra Alessandro Pavone

di - 17 Settembre 2024

Come hai scoperto la tua passione per l’arte? Ci sono stati momenti o persone particolari che hanno influenzato il tuo percorso?

Il problema del senso del vivere mi ha sempre interessato. L’arte è stato forse lo strumento di indagine apparentemente più facile che ho incontrato da ragazzo. Mia nonna dipingeva. È stato facile cadere vittima del profumo che emanava dal suo studio. Poi ci sono stati molti incontri con maestri più o meno consapevoli di essere tali. Questo mi ha convinto della responsabilità che la propria ricerca può avere sugli altri.

Ci sono temi o concetti ricorrenti che esplori attraverso la tua arte? Cosa ti ispira maggiormente?

Crash test, Ecce homo, In ascolto, Supersatura, Nuovi Samurai, Armour, sono alcuni titoli di mie sculture e installazioni. Sono esperienze in cui ho sentito il piacere di spostare i limiti. Voglio testate la resistenza. Segnare i confini in cui le forze opposte si contrastano. Faccio scultura. Spingo, resisto. L’assoluto preme sull’apparire. Vedo un mondo che non si liquefà ma sgorga attraverso zampilli da una parete rocciosa. L’impermeabile verticale che mi sta dinnanzi è gravido. Io lo buco quando opprimente e spesso lo riparo con mezzi precari.

Come pensi che il contesto culturale e sociale in cui vivi influenzi il tuo lavoro artistico?

Pur abitando in un piccolo paese di montagna sento di vivere in occidente. La cultura radicale del divenire, delle ideologie, delle religioni, in cui sono cresciuto è la piazza in cui mi agito. Vorrei riportare un breve estratto di un articolo scritto dall’amica artista Annamaria Targher ( la quale sta su un fianco della stessa montagna su cui io stesso sto, ma che incontro meno rispetto ad altri artisti lontani a cui a differenza non scrivo) in occasione di una mia inaugurazione: ‘Radicato alla sua terra, quella elettiva e delle viscere, ne è essenzialmente apolide, perché troppo curioso e inquieto per non scorgere in quel fulcro sicuro, la possibilità centrifuga che tutto lascia aperto, sospeso e pone in discussione’. Certamente per sfuggire alla rete del solo internet e per ovviare alle difficoltà concrete negli spostamenti che il vivere in montagna rappresenta, i libri sono fondamentali tappeti volanti per conquistare spazi di libertà altrimenti irraggiungibili.

Puoi raccontarci di un progetto o di un’opera a cui tieni particolarmente e spiegarci il motivo?

Mi trovavo in Norvegia per la realizzazione di un grosso monumento in granito. Ventidue tonnelate di Larvikite. Senza entrare troppo nel dettaglio tecnico, avevo bisogno di asportate una parte di questo parallelepipedo per ottenere una parte aggettante molto sottile. Il granito è astuto se si tratta di restare pigro. Come noi. Se proprio dovrà spaccarsi sceglierà sempre il percorso più breve. Il maestro Makoto Fushiwara stava lavorando ad una sua scultura poco lontano. concordava con il granito sul fatto che ogni agitarsi umano è vano. Insomma la tecnica classica insegnava una metodologia e un risultato certo: il fallimento. La poesia che cercavo invece aveva bisogno di una rilettura della strategia. E’ stata una sfida che ha messo in lotta il desiderio con le resistenze. Sentivo viva la tensione tra l’impassibile fisicità della materia e l’impalpabile volontà progettuale. Questa è l’opera. Ne sono uscito scorticato, squartato, rinnovato. Ho testato la necessità del mio desiderio. In tutto il mio lavoro cerco di mettermi nei guai.

In che modo l’interazione con il pubblico influisce sulla tua pratica artistica? Ti capita di modificare il tuo lavoro in risposta ai feedback che ricevi?

Sento che fare arte è proprio ciò che per me è necessario (una noia). Nel momento in cui l’opera è data al mondo, per gli altri rappresenta il superfluo (già più interessante). Un superfluo che forse anche inconsciamente è ciò che è necessario alla vita di tutti (confortante). Mi diverte e mi interessa questa rapida trasformazione di valore nel passaggio di un opera attraversando una porta: dal mio studio alla strada. Dalle mie mani alle mani degli altri. Ancor prima dai miei occhi ai loro. O dai nostri incubi ai nostri sogni.

Cosa pensi della commercializzazione dell’arte contemporanea? Pensi che possa compromettere l’integrità dell’opera o la sua funzione critica?

L’unica ‘cosa’ o l’aspetto per cui valga la pena preoccuparsi è l’integrità dello spirito dell’artista. Che è poi l’unica opera che conosco. Certamente non è la sua unica funzione ma un’oggetto può essere venduto. E quando l’opera diviene ‘cosa’ si può comprare. Il mercato va per la sua strada. Sente di potere e quindi esige il suo spazio. Vuole imporsi sulle altre forze. Trova pochi ostacoli e molti alleati. Non guardo all’eticità del mercato quanto alla responsabilità dell’artista verso il suo fare. D’altra parte quando l’opera vede la luce per l’artista è ormai compiuta. Il percorso è fatto. La metamorfosi avvenuta. Lo scavo completato. Si è gia oltre. Perché preoccuparsi delle impronte? Il mio problema è restare vigile. L’allarme è scoprirmi sulle mie tracce per arrivare prima a dove so già. In quel caso devio immediatamente verso l’ignoto. Eppure, sembra strano a dirsi, ma l’arte è anche un mestiere. La professione dell’artista, che per il fisco esiste, spesso dalla società non viene considerata tale. Gli artisti si scontrano quotidianamente con un sistema sordo alle peculiarità di chi professionalmente opera nell’arte (non è cosi in altri paesi europei). Improvvisamente, è vero, sembra svanisca nel tedio tutta la retorica che si vorrebbe trapelasse gaiamente quando si parla d’arte. Invece ci sono i costi di una qualsiasi attività: commercialista, inps, inail, affitti, materiali. Ce lo rammentava spesso un professore all’istituto d’arte (sbagliando): gli artisti sono sempre stati ricchi, fatelo per hobby. E così che la costante attrazione e repulsione tra mercato e opera spesso la immagino come il canto delle sirene per le orecchie di Ulisse. (che non voleva diventare famoso a tutti i costi)

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