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exibart prize incontra Giuseppina Arangino
exibart.prize
di redazione
Qual è stato il tuo percorso artistico?
Sono un’autodidatta. Fin dalla giovanissima età ho trovato nell’espressione artistica un mezzo per esprimere, in modo consono, pensieri e sentimenti che non trovavano altro modo. I primi medium sono stati i colori e le parole, divenuti presto pittura e poesia.
Ho, da allora, dedicato tempo e spazio alla pittura, ben presto divenuta a olio, cercando sempre di migliorarmi. A dispetto dei molti apprezzamenti ricevuti, non ho scelto l’arte come lavoro principale, benché ne sentissi la mancanza quando non la praticavo e malgrado desiderassi concederle più spazio. Quella per la disciplina medica è stata a lungo una passione concorrente all’arte. Questo conflitto, durato a lungo, si è sciolto nel 2008. Dal 2009 le mie energie sono dedicate in via esclusiva alla creatività artistica.
Dopo aver scritto “Sorres”, il mio primo romanzo (ripubblicato nel 2021), ho iniziato a indagare la materia con la tecnica scultorea, che si è presto affiancata alla pittura, nello sviluppo delle mie attività.
Nel 2019 ho sperimentato l’incisione a puntasecca, dotandomi di un altro potente mezzo espressivo. Dopo un anno di corso presso il Maca’n Printmakers Space, nella città di Cagliari, è nato un libro d’arte figurativo intitolato “Amore”. Dal 2021 dipingo anche in acrilico e astratto concettuale.
Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?
In assoluto la passione per quel che faccio, nel senso più profondo di questo sentimento. A seguire le tecniche che continuo ad approfondire ogni giorno e che scelgo per esprimere ciò che mi sta a cuore, senza però scostarmi dal valutare etica ed estetica, il cui rapporto accompagna sottotraccia i miei lavori. Per la scultura, sempre astratta-concettuale, uso materiali recuperati da cantieri, case, amici, rielaborati servendomi di smalti ad acqua o colori acrilici e vinilici.
Per la pittura, figurativa e astratta-concettuale, impiego colori a olio e acrilici, disegni a penna o pennarelli o matite, acquerelli.
Sono passata nel 2021 dal figurativo all’astratto. Da questo momento, la mia scelta tra astratto, concettuale o figurativo è profondamente legata alla natura di ciò che desidero esprimere.
La ricerca che mi porta a ciò che rappresento nasce da una personale attenzione verso l’Uomo. Gli ambiti che instancabilmente esploro riguardano l’inconscio, la psichiatria, il sociale, l’intimo, con una particolare attenzione alle problematiche di genere, mediate talvolta da episodi di cronaca, di cui è necessario non dimenticare mai il portato.
Nell’ampia realtà di stimoli e suggestioni su cui si sofferma la mia attenzione creativa, la scrittura rappresenta da sempre una compagna di riflessione e di espressione, mai messa a tacere da altre forme e modi del generare.
In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?
L’arte può arrivare a parti di noi che non conosciamo o che evitiamo, sia come individui che come società. Essa agisce sull’immaginario per stimolarlo, per cambiarlo e talvolta per stravolgerlo.
Lavora sul profondo del nostro inconscio più di quanto pensiamo.
Può stigmatizzare aspetti sociali per portarli a una maggiore o diversa considerazione, provocare confronti e dibattiti, rompere degli schemi, erodere delle convinzioni. In aggiunta, ha l’immancabile vantaggio di rendere migliore uno spazio, che si tratti di un luogo pubblico o privato.
L’arte non può e non dovrebbe mancare alla dimensione umana. Il costo della sua mancanza sarebbe l’aridità.
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
Ho diversi progetti nella testa, alcuni iniziati e non finiti, che desidero terminare. Alcuni inaugurati o delineati e non più toccati per diverse ragioni, da anni.
Una serie di pitture a olio ispirate al classico, che rivisitano alcuni miti di famosi in nuova visione di genere. Miti trattati da quadri dei secoli d’oro della pittura italiana, che tanto hanno contribuito al nostro immaginario. Ha inaugurato il ciclo il quadro “La Nuova Proserpina e il suo Ratto”.
La serie “Finis Superbiae Finis Arrogantiae”, nata durante la pandemia, giunta quasi al termine.
Diverse sculture già impostate, da ultimare, e l’installazione “The City of Happiness”, opera destinata a crescere e trasformarsi così come è destinata a variare e cambiare una città.
Un progetto, da portare avanti con l’incisione, di tavole con scene sull’attualità cittadina.
La consegna alle stampe del mio secondo romanzo, la cui stesura è stata terminata e di cui è in corso la revisione finale.
Vivo sempre in attesa di idee nuove, generate dal mio cervello: essenziale è non smettere di studiare e informarsi, scambiare idee e consigli, cercare nuovi stimoli.
In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?
Purtroppo ci si vanta di essere un popolo di poeti, santi e navigatori, ma dei poeti non si occupa nessuno. La cosa più avvilente sta nel come veniamo disconosciuti dalle istituzioni e lasciati in balìa di formule studiate per altri, in cui anche gli esperti brancolano. Siamo lavoratori autonomi occasionali o partite iva, ma non siamo uguali al mio valente amico falegname. Vaghiamo tra chi tira la cinghia e chi fa la star.
A mio parere lo stato dovrebbe aprire un programma dedicato solo a chi vive d’arte, dipendente dal ministero della cultura, mirato ai nostri specifici bisogni. Una piattaforma o un registo a cui ci si possa iscrivere, in cui ci si possa sentire esistere anche per la società, mediante cui sia possibile ricevere assistenza amministrativa. Ancora, dovrebbero essere strutturati contratti ad hoc per le particolari situazioni dell’arte e per tutti i suoi lavoratori, tutelati in ogni aspetto, così come si tutelano già altri lavoratori. Una scelta come questa costituirebbe non solo un riconoscimento ma un’entrata nel presente dell’arte. La nostra nazione trascura l’arte, tolti i soliti grandi pochi centri che “danno lustro” e curano il passato, e la ricerca di base nelle scienze. Mi sembra evidente quanto queste costituiscano scelte mortali, per un paese, da abbandonare.