10 ottobre 2024

exibart prize incontra Guido Corbisiero

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Quello che mi ispira durante il mio processo artistico è lo scontro nelle sue manifestazioni visive e simboliche.

Come hai scoperto la tua passione per l’arte? Ci sono stati momenti o persone particolari che hanno influenzato il tuo percorso?

Da piccolo mia madre mi leggeva tantissimi libri: ha iniziato con i Topolino e Paperino, le fiabe dei fratelli Grimm, di cui ricordo ancora l’edizione Einaudi del ’96, poi per un periodo ero come ossessionato dalla Iliade e Odissea, questa edizione in un cartonato enorme illustrato di cui ricordo le immagini di barche greche che sbarcano a Troia e l’illustrazione di Ulisse legato all’albero maestro; mia mamma che ogni notte per mesi, forse per anni, continuava a rileggerlo, dall’inizio alla fine. La mia attrazione per l’arte parte dalla letteratura, nello specifico quella illustrata, poi si è spostata verso la musica, i videogiochi, l’animazione, i fumetti, il cinema, in una maniera sempre abbastanza ossessiva, a tratti salvifica. In qualche modo il mio legame con l’arte è sempre stato tracciato su un rapporto duale.

 

Ci sono temi o concetti ricorrenti che esplori attraverso la tua arte? Cosa ti ispira maggiormente?

Quello che mi ispira durante il mio processo artistico, e che allo stesso modo ricerco in qualsiasi mia produzione o lavoro di impronta artistica, è lo scontro nelle sue manifestazioni visive e simboliche. Questi contrasti, nella loro forma di opposti in contatto, traducibili come positivo e negativo, si avviano in maniera automatica ogni volta che vado a scavare nelle viscere dei miei ricordi. Quasi sempre mi trovo agli stessi incroci che tornano a essere delle idee fisse che si esauriscono in un rifiuto della terza opzione, tipo: provincia e centro, perdente e vincente, morto e vivo, nero e bianco, nascosto e visibile, padre e figlio, povero e ricco, indietro e avanti.

 

Come pensi che il contesto culturale e sociale in cui vivi influenzi il tuo lavoro artistico?

L’influenza di dove sono e dove sono stato è, probabilmente azzardando, una questione totalizzante, e di sicuro il più grande punto di riferimento che ho durante la fase di concettualizzazione. Napoli e Venezia sono due città molto diverse in tutto, pur risultando simili nel loro modo di essere mediate dall’occhio di chi le mitizza quasi al punto da non diventare reali – starci è come stare in un videogioco. Vivere i due capoluoghi di provincia, una nel ricordo e l’altra nella quotidianità, si riversa nel modo in cui l’ispirazione viene filtrata: un meme, una conversazione al bar, quello che ho visto mentre crescevo, le prime pagine de La Nuova, ricordi della mia infanzia, tutto è unito in un vortice che riesce a dare dignità al fango e miseria al luccichio.

 

Puoi raccontarci di un progetto o di un’opera a cui tieni particolarmente e spiegarci il motivo?

Un’opera recente a cui tengo particolarmente è ‘Nonna Silvia’, una installazione site-specific che ho realizzato per la mostra collettiva ‘Oltre il Sangue Amaro’ al MO.CA – Centro per le Nuove Culture a Brescia curata da Richard Vailati e Giorgia Massari. Il lavoro mi sta particolarmente a cuore perchè, seppur nella sua amatorialità, mi ha messo a dura prova sia nella ricerca che lo precede che nella sua realizzazione tecnica. È stata la prima volta che mi sono trovato in una mostra collettiva dove ero fuori dalla mia zona di comfort e sentivo dentro di me la necessità di dover dimostrare qualcosa. In ‘Nonna Silvia’ ho indagato il tema della malattia in relazione al dolore, sfidandomi come artista prima ancora che come nipote a ritornare nella storia della mia famiglia, cercando un equilibrio tra la razionalità degli eventi e i sentimenti dei resti, provando a restituire una narrazione che è sia una reincarnazione che una lapide.

 

In che modo l’interazione con il pubblico influisce sulla tua pratica artistica? Ti capita di modificare il tuo lavoro in risposta ai feedback che ricevi?

La mia interazione con il pubblico è piuttosto limitata: la maggior parte delle volte mi interessa sapere solo al termine del lavoro se questo piace o meno in modo da restare più saldo possibile alla mia visione iniziale, mentre più raramente chiedo opinioni nelle fasi preliminari del progetto. Non ho interesse nel dare potere al pubblico nei riguardi del mio lavoro perché reputo la riuscita o meno dello stesso sublimata solo alla mia percezione; modificare un’opera a seconda di un punto di vista non riuscirebbe comunque a farla piacere a tutti, quindi tanto vale concedermi la priorità.

 

Cosa pensi della commercializzazione dell’arte contemporanea? Pensi che possa compromettere l’integrità dell’opera o la sua funzione critica?

Penso che la questione sia molto più sensibile alla responsabilità dell’artista che al mercato. Lavorare a qualcosa perché si vuole che questo sia venduto è molto diverso dal lavorare a qualcosa perché si ha la necessità di farlo e, almeno secondo il mio parere, essere un artista cercando il successo e la vendita non preclude a priori l’intensità autoriale dello stereotipo bohèmien. Il fattore che sostiene l’integrità di un’opera d’arte è, sempre secondo la mia percezione, la capacità di tenere fede alle proprie intenzioni e al proprio modo di esprimersi, senza scadere nella pretesa di potersi appropriare di quello che funziona bocciando l’idea di rimetterlo in discussione. mercificato.

 

Nonna Silvia
Nonna Silvia

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