05 dicembre 2024

exibart prize incontra Lucia Gangheri-Gàngàri

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Mi ispira il senso di libertà che trovo nel guardare la natura, la sua forza vitale, la sua immensa grandezza.

Lucia Gangheri

Come hai scoperto la tua passione per l’arte?

Sin da piccolina amavo colorare, disegnare, tutto questo mi rendeva contenta, mi faceva star bene. Ovviamente, non sapevo utilizzare al meglio i materiali, però una cosa mi era molto chiara: volevo dipingere! La “chiamata all’arte” giunse intorno ai sedici anni, fu lì che compresi che quella sarebbe stata la mia strada.

 

Ci sono stati momenti o persone particolari che hanno influenzato il tuo percorso?

Sicuramente l’incontro con il maestro Antonio Rossi, un pittore della scuola napoletana, che era stato allievo di Vincenzo Gemito all‘Accademia di Belle Arti di Napoli. Mia madre, appassionata di arte, mi portava da ragazzina a lezione di disegno, da lui, nel suo studio. Ricordo che, inizialmente, l’impatto fu abbastanza duro, disegnavo pezzi anatomici in gesso, senza molta consapevolezza; poi, pian piano, la mia mano divenne più sicura ed il mio segno migliorava. Mia madre, quindi, gli chiese se era il caso di continuare ad intraprendere questa strada, lui le disse che c’era qualcosa nel mio segno – e aveva ragione, col senno di poi! – e così, successivamente, mi iscrissi prima al liceo e poi in Accademia.

 

Ci sono temi o concetti ricorrenti che esplori attraverso la tua arte? 

Nella mia formazione artistica, culturale e professionale, è stato sempre importante confrontarmi, oltre che con le tecniche pittoriche, anche con la fotografia, l’universo dei byte e dei circuiti integrati, il video, la musica, le pratiche meditative, lo zen-shiatsu ed il gioiello. La sperimentazione di temi diversi e linguaggi differenti insieme alle pratiche spirituali, mi ha portata – e mi porta tutt’ora – a vivere l’arte come un percorso molto personale. Un posto dove potermi liberamente muovere tra tutti i miei molteplici interessi, approfondendo, ogni volta, tematiche diverse, cercando sempre di restare fedele al mio stile. Considero tutto ciò una fonte di grande ricchezza, per la mia crescita umana e artistica.

 

Cosa ti ispira maggiormente?

Il senso di libertà che trovo nel guardare la natura, la sua forza vitale, la sua immensa grandezza. Poi, la trasformazione dell’ambiente e della dimensione umana in relazione a quello che ci circonda.

 

Come pensi che il contesto culturale e sociale in cui vivi influenzi il tuo lavoro artistico?

Io provengo da un clima culturale degli anni ’80, dove si respirava grande vivacità sul piano filosofico, teorico e artistico, ci si muoveva con grande libertà tra vari modelli culturali ed estetici. Ora ci troviamo in un momento storico e culturale di grande trasformazione: il secolo entro cui stiamo viaggiando, se da un lato, è pieno di grandi novità e grandi sfide, dall’altro, contiene anche pericolose insidie.
Siamo dinanzi ad una umanità che, in parte, è spaventata da tutti questi cambiamenti che stanno avvenendo: le certezze sono poche ed in un clima sociale di grande precarietà, nascono inevitabilmente reazioni di paura, rabbia e violenza, che altro non sono – secondo me – che una risposta all’incertezza e al cambiamento in atto. Anche il contesto culturale entro cui viviamo risente di queste profonde ansie: nascono tante domande e, forse, anche un po’ di confusione. Come artista sicuramente mi sento coinvolta dinanzi a tutti questi cambiamenti, ma cerco anche di rispondere in maniera propositiva lavorando e, soprattutto, credendo nell’ interconnessione, nella sinergia e nella cooperazione tra gli esseri umani. Ognuno di noi ha bisogno dell’altro, perché l’altro, il diverso da noi, non è una minaccia, bensí ispirazione, ricchezza culturale ed artistica.
Negli ultimi decenni, tutti questi aspetti sono presenti nel mio lavoro, dove cerco di mettere in evidenza la relazione tra l’uomo, la natura, ed i processi tecnologici della nostra contemporaneità, così come molta attenzione è posta sull’isolamento che viviamo nel tempo dei social.

 

Puoi raccontarci di un progetto o di un’opera a cui tieni particolarmente e spiegarci il motivo?

Risulta difficile tra i tanti progetti realizzati focalizzarsi particolarmente su di uno.
Ogni progetto contiene in sè riflessioni, ore di studio, svariati disegni, per poi diventare una unica soluzione visiva. Forse considerarli tutti importanti sembrerebbe eccessivo, ma fanno parte della mia vita e sono l’espressione di tutte quelle fasi che ho attraversato nel mio percorso di vita e di arte. Se devo sceglierne uno, forse, il progetto Artemis’-Border, realizzato per il MANN (Museo Archeologico di Napoli) è stato un momento importante per me, un passaggio decisivo, dove mi sono confrontata con un luogo che accoglie una infinita collezione di opere antiche. Qui, in questo spazio, è nata l’idea di fare un lavoro dedicato alla bellissima statua di Artemide Efesia, da cui sono stata sempre sedotta. Di questa antica statua, che fa parte dell’importante collezione Farnese, ho incominciato ad osservarne i particolari, i fregi sulla sua tunica, i simboli, il suo raffinato colore, fino a scoprire, man mano, quanto fosse intrisa di segnali: la porta di Iside, le tre fasi lunari, i particolari segni zodiacali collegati alla primavera e all’estate, il suo volto scuro, le api sulla tunica e le mammelle simili a favi. Ho rappresentato questa meravigliosa divinità, come una viaggiatrice che si muove lungo la curvatura dello spazio e del tempo, in un grande sistema sidereo integrato, che comunicava con l’uomo contemporaneo, attraverso una mappa stellare resa con l’uso di microchips, simili alle costellazioni zodiacali che Artemide porta sul suo pettorale. La dea, diventa foriera di un importante avvertimento da consegnare all’uomo contemporaneo: non superare il limite perché la natura e, nello specifico, le api vanno assolutamente salvate.
Tutta la mostra comprendeva un’installazione visiva e sonora: c’era una voce narrante che leggeva inni dedicati alla dea con, un sottofondo di suoni emessi dalle api; la parte visiva, invece, era costituita da un apparato di circa venticinque opere.
I dipinti, in acrilico e glitter, componevano un grande apiario e una grande tela su cui era rappresentata Artemide; poi c’era un altare devozionale in plexiglass, con dentro un alveare di api vere, ciotole con offerte in miele, olio, sale e microchip. Infine, un grande taccuino, dove sono state segnate le varie fasi progettuali, le fonti di ispirazione, le diverse elaborazioni e gli scritti a corredo di tutto il lavoro progettato.

 

In che modo l’interazione con il pubblico influisce sulla tua pratica artistica?

Relazionarsi con il pubblico è estremamente stimolante ed importante perché ti fa capire quanto si riesce, veramente, a stabilire un contatto empatico – che io chiamo “fratellanza” o “sorellanza”. È bello perché senti l’altro che ha percepito esattamente quello hai voluto comunicare: è una gioia, anche se dura per poco, però ti fa capire che sei riuscita ad arrivare al cuore di qualcuno e che il tuo lavoro è stato percepito nel modo giusto.

 

Ti capita di modificare il tuo lavoro in risposta ai feedback che ricevi?

Certamente. Spesso, una riflessione nata dalla lettura di un libro, un appassionato discorso con una determinata persona o la visione di un film, per esempio, possono contribuire a darti la giusta soluzione, durante un processo creativo. Poiché non credo che le cose succedono per caso e che ci sia sempre un motivo per cui avvengono, allora tutto può accadere, anche durante il progetto di un lavoro, modificando l’opera nel corso della sua realizzazione. Le mie pratiche spirituali mi hanno insegnato a non essere rigida, ma sempre aperta ad accogliere il nuovo: il cambiamento è una grande
opportunità per arricchire me stessa ed il mio lavoro!

 

Cosa pensi della commercializzazione dell’arte contemporanea? 

L’opera d’arte, da sempre, è stata oggetto di commercializzazione, perché l’artista per poter continuare la propria ricerca, ha la necessità di vendere il proprio lavoro.
Un tempo c’era la committenza che garantiva la sopravvivenza dell’artista e la diffusione del suo lavoro. Attualmente, l’arte fa parte del grande business mondiale, dove, molto spesso, l’opera d’arte viene acquistata solo per mero investimento. Si bada alla quotazione: più è alta e più si investe. Ecco, io credo che la commercializzazione dell’arte, esclusivamente come investimento, significa mortificare l’artista, il suo lavoro, la sua dignità. È anche vero che viviamo l’era della globalizzazione, dove ognuno sceglie come diffondere la propria arte e che percorso intraprendere per la vendita: a questo punto, direi, che c’è spazio per tutti.

 

Pensi che possa compromettere l’integrità dell’opera o la sua funzione critica?

No, non credo proprio. Se il linguaggio di un artista è forte ed il messaggio è valido, travalica ogni riflessione!

 

Ape blu

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