Qual è stato il tuo percorso artistico?
Ho iniziato a disegnare fin dalla più tenera età. Il disegno è sempre stato il mezzo attraverso il quale ho dato corpo ad una fervida immaginazione. Non ho frequentato scuole d’arte. Sono sostanzialmente un autodidatta. Dopo il Diploma in Ragioneria, nel 1991, mi iscrissi all’Accademia di Belle Arti di Sassari. Fu una esperienza breve e deludente. Resistetti un paio di mesi e andai via sconsolato. Mi rifugiai in campagna e lì, a contatto con la natura, intrapresi il mio personale percorso artistico, in un contesto di grande solitudine e, diciamo pure, di isolamento.
Il mio lavoro nel campo del disegno e della pittura è andato di pari passo con un profondo interesse nei confronti delle letteratura e della filosofia, passioni che mi hanno portato a conseguire una Laurea in Lettere moderne e ad approfondire lo studio della Storia dell’Arte, conoscenza che ritengo fondamentale per chiunque voglia dedicarsi alla creazione artistica.
Negli anni ho lavorato come illustratore per diverse agenzie di grafica pubblicitaria ed aziende editoriali della mia città. Il fatto di non aver frequentato delle scuole d’arte ha rappresentato un limite e nel contempo un vantaggio. È stato un limite nella misura in cui mi ha precluso la possibilità di un confronto con altri pittori, con artisti di diversa estrazione, non necessariamente convergenti con le mie idee artistiche e con i miei gusti estetici. Allo stesso tempo, questa sorta di isolamento, mi ha permesso di mantenere inalterata una certa originalità, sia per ciò che concerne la forma che la scrittura pittorica.
Quali sono gli elementi principali del tuo lavoro?
Alla base del mio lavoro vi è in prima istanza l’attitudine a definire la forma attraverso la linea di contorno. Il disegno non è solo un modo di rappresentazione della forma; esso è soprattutto un modo di vedere la forma e dunque una modalità del linguaggio umano. Per modo di vedere intendo naturalmente un modo di intelligere, una modalità di espressione dell’intelletto volta a comprendere la realtà. In questo senso per me il disegno ha lo stesso valore che aveva per i pittori del 1400.
Nella mia produzione, disegno e colore vengono impiegati in un linguaggio grottesco, volto a coniugare l’alto e il basso, il sublime e il triviale, e dunque il tragico e il comico. Io assumo l’ossimoro, la contraddizione, come luogo in cui si rivela una verità problematica, che non si dà se non per contrasto, per accostamento con ciò che perennemente la contraddice. Il mio grande interesse è dunque la natura umana, rivelata nelle sue infinite passioni attraverso le espressioni dei gesti e la mimica dei volti.
L’immaginario grottesco è in genere legato alla rappresentazione di scene di vita collettiva, alle feste popolari, al tema del carnevale. Nell’ambito di questo contesto il linguaggio si arricchisce dei toni dello sberleffo, della satira, dell’irrisione.
Io prediligo la rappresentazione di figure sole, isolate, forse esiliate. Mi pare che nelle mie opere il grottesco non assuma una valenza sociale quanto esistenziale, non riveli tanto il suo lato comico quanto il dramma interiore. Il comico, semmai, è assunto quale elemento di contrappunto che rafforza il dramma in atto.
La smorfia, la deformazione del volto alludono ad una frattura dell’animo, alla tragedia esistenziale del singolo.
In quale modo secondo te l’arte può interagire con la società, diventando strumento di riflessione e spinta al cambiamento?
L’idea di un’arte che spinga al cambiamento coincide con una visione dell’arte come forza agente, come fattore propulsivo di mutamento politico. Personalmente, non credo che l’arte possa cambiare alcunché. Certo, la creazione artistica restituisce la temperatura di una società che si trasforma. L’arte anticipa o registra mode e tendenze del costume, istituisce nuovi modi di percezione visiva, rivelando nel contempo le tensioni della società di cui è frutto. Ma le ragioni profonde del cambiamento di una società non si possono ascrivere, a mio parere, alla attività artistica.
Sono più propenso a pensare che l’arte sia il sintomo di una malattia, di una condizione originaria di incompiutezza e dunque simbolo di una frattura, di una condizione discrasica. In questo senso, la mia visione dell’arte non è politica quanto antropologica.
Per quanto mi concerne l’arte, il pensiero visivo, che non si esaurisce unicamente nell’ambito di una estetica tout court, si costituisce come profonda riflessione su ciò che rimane immutato, nonostante il trascorrere del tempo, il trasmutare degli orizzonti filosofici, culturali e politici: è la natura di quell’animale sublime e abominevole, al tempo stesso, che è l’uomo e dell’abisso nel quale egli è confitto.
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
Dedicarmi con grande perseveranza al disegno e alla pittura, per far emergere integralmente l’universo immaginifico che mi appartiene, anche attraverso lo studio dei grandi pittori del passato. Sono arrivato ad un momento conclusivo di un percorso personale, ad una rinnovata consapevolezza della mia identità d’artista e di uomo, e sento il bisogno di portare la mia attività professionale ad un livello più alto e maturo, magari instaurando un rapporto intellettuale e professionale con qualche critico o gallerista di valore. Vorrei anche coniugare l’attività artistica con la riflessione teorica e la scrittura letteraria, che costituiscono un momento necessario della mia attività di ricerca.
In quale modo le istituzioni potrebbero agevolare il lavoro di artisti e curatori?
Ritengo che ogni azione volta a stimolare, sostenere e incoraggiare l’attività artistica in ogni sua declinazione, nonché quella di carattere critico e curatoriale, non possa prescindere da interventi di natura strutturale e programmatica, nonché da un rinnovato modo di interpretare il valore e il ruolo della cultura nel nostro paese. Occorrerebbe, anzitutto, elevare il livello generale di conoscenza della Storia dell’arte presso la popolazione, aumentando il numero delle ore di insegnamento dedicate alla disciplina (stessa cosa dicasi per la Storia della musica) e non solo nei licei preposti ad impartire questo tipo di insegnamento.
Occorrerebbe pensare l’arte come luogo privilegiato di formazione culturale e civica, di riflessione intellettuale ed esercizio di libertà, e non solo e soprattutto come fattore di crescita economica.
Sarebbe necessario adeguare il livello degli investimenti pubblici per il settore culturale allo standard di altre importanti nazioni europee; favorire l’attività di mecenatismo di enti locali e nazionali; incrementare gli spazi dedicati all’arte, e infine pensare un nuovo modo di considerare la figura dell’artista, inteso come lavoratore per la società e non solo per se stesso, sostenendo gli artisti e gli studiosi giovani e meno giovani di valore, anche outsiders, con borse di studio e forme diversificate di sostegno; penso, ad esempio, ad un sistema di contribuzione alternativo, che dia la possibilità agli artisti meritevoli di assolvere gli obblighi fiscali di legge attraverso la congrua corresponsione di opere d’arte allo Stato; misura, questa, che aiuterebbe non poco gli artisti non ancora sufficientemente consolidati.
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