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Curatrice di arte contemporanea e ricercatrice nel campo delle arti visive e dello spettacolo, Carolina Ciuti è la direttrice artistica del festival di video arte LOOP, a Barcellona. La nozione di tempo guida da sempre il suo interesse e rappresenta il fil rouge della sua ricerca, che l’ha portata a collaborare con artisti del calibro di Regina de Miguel, Agnes Meyer-Brandis e Anton Vidokle.
Intervista a Carolina Ciuti, membro della giuria di exibart prize 2020
Qual è oggi lo stato dell’arte in Spagna? Ci sono delle differenze sostanziali rispetto all’Italia?
«La Spagna è un paese culturalmente dinamico: città come Barcellona, Madrid, Bilbao o Siviglia sono centri catalizzatori di gran parte dell’offerta culturale, arricchita poi dal contributo essenziale di realtà periferiche sganciate dalle logiche delle grandi città. Una fitta rete di residenze e studi d’artista configura un panorama in continua trasformazione, caratterizzato da proposte multidisciplinari con un forte accento sul video e la performance. La Spagna, però, è anche un paese fatto di grandi contraddizioni, dove l’immagine progressista conosciuta ed esaltata all’estero convive con un’anima profondamente reazionaria. Questo comporta, tra le altre cose, che l’impiego in ambito culturale non superi il 3,6% – con una maggioranza di contratti a tempo determinato e una proliferazione di (false) partite iva –, e che la disparità di genere e il divario salariale raggiungano livelli altissimi. In sostanza, un paese artisticamente vivo che pecca di regolamentazioni giuridiche e sistemi di tutela sociale a favore delle sue lavoratrici e lavoratori. L’esplosione della pandemia non ha fatto che acuire queste problematiche, denunciate in modo compatto dalla comunità artistica tramite numerose campagne social e la creazione di movimenti informali. Nonostante abbia lasciato l’Italia da quasi dieci anni, le iniziative che continuano a tenermi legata al mio paese d’origine mi fanno pensare che la situazione non sia poi così differente lì. Lo raccontano bene progetti come Art Workers Italia, associazione nata proprio in seno alla crisi causata dal Covid-19. Spesso mi chiedo se avrei avuto le stesse possibilità, nel caso in cui non fossi partita: il dubbio di fronte a questo interrogativo è ciò che mi ha impedito di fare rientro anche quando ne avrei sentito il bisogno».
Secondo l’esperienza di LOOP Barcellona, quale strategia perseguire per rimettere in sesto il settore dell’arte?
«Ci vogliono riforme che rendano il settore più trasparente e inclusivo, un insieme di regolamentazioni che chiariscano, prima di tutto, che l’arte è un lavoro a tutti gli effetti. La convinzione che “con la cultura non si mangia” (per ricordare una infelice uscita di Giulio Tremonti, che però ben rappresenta la visione del governo e di molte amministrazioni comunali anche qui in Spagna) deve necessariamente lasciare spazio a un approccio alla cultura come risorsa imprescindibile. Uno sguardo attento a ciò che succede in ambito internazionale deve poi accompagnare un essenziale lavoro di valorizzazione del talento locale ed emergente, in un ideale coordinamento (ad oggi pressochè inesistente) tra il mondo accademico e quello del lavoro. Infine, si rende necessario un ampliamento degli investimenti pubblici in parallelo a un’assegnazione più trasparente delle risorse private. In questo scenario, eventi annuali come festival o fiere possono diventare forum di dibattito e scambio essenziali per costruire nuovi futuri possibili».
Premi d’artista: che cosa rappresentano nel 2021?
«In generale, credo che la funzione di un premio e del suo impatto sulla carriera di un artista vari a seconda della natura del riconoscimento e della traiettoria dell’artista in questione. Agli inizi di una carriera può significare un incremento della visibilità e l’accesso a risorse e condizioni materiali difficili da ottenere altrimenti; in una fase più avanzata può invece convertirsi in un fattore che contribuisce ad aumentare il “valore culturale” attribuito ad un’opera, o in uno strumento finalizzato alla realizzazione di progetti ambiziosi (in questo caso mi riferisco, più nello specifico, a un premio di produzione). Più nello specifico, in un’epoca in cui i social molto spesso costituiscono un tribunale popolare tutt’altro che imparziale per l’esaltazione o la demolizione di un artista, un premio può anche costituire un canale di espressione e affermazione alternativo. Tra i premi che a mio avviso hanno poi una importanza particolare ci sono quelli che al riconoscimento finale (sia questo economico o esclusivamente simbolico) uniscono anche un processo di formazione e costruzione di contatti per l’artista. Più in generale ritengo che i Premi di qualità, ovvero quelli pensati con l’intento reale di CON-tribuire, possano svolgere una importante funzione di dinamizzazione, in un ecosistema artistico sempre più precario e privo di strutture sociali a tutela di chi crea. A questo proposito, mi sento di citare l’episodio non troppo lontano del Turner Prize 2019, in cui i quattro artisti nominati decisero di dividere in parti uguali il premio finale: un importante gesto di forza politica, ma soprattutto di solidarietà economica a fronte di condizioni sempre più complesse».