Artista, ideatore della pagina Make Italian Art Great Again e, di recente, autore di un (non) manuale per giovani artisti. Dalla sua prima personale nel 2017, Giulio Alvigini ha tratteggiato senza sosta il sistema dell’arte italiano a tinte forti, ironiche, provocatorie, con l’urgenza di comunicare e far riflettere – ma sempre a modo suo.
Nell’ultimo anno stiamo assistendo a un’arte più che mai esposta sui social network, sulle piattaforme virtuali, sul web in generale. Bastano ancora i meme per descriverla e dissacrarla? O senti il bisogno di un linguaggio nuovo?
«Per tentare una risposta, credo che sia importante prima chiarire che cosa vogliamo intendere con il termine “meme”: se considerarlo una semplice impalcatura visiva con una sua sintassi e una serie di elementi fissi e mobili – un’immaginetta buffa fine a sé stessa –, oppure se definirlo come un dispositivo linguistico che, al di là del suo potenziale di riproducibilità, reinvenzione e viralizzazione, pone in realtà questioni legate alle stesse fondamenta della cultura visuale contemporanea e delle pratiche collettive intorno alla genesi dell’opera dell’arte. Personalmente preferisco la seconda interpretazione, anche se non sono interessato al meme come oggetto di per sé (mi considero un autentico “normie”, un banalizzatore). Il mio rapporto con esso è più simile a uno scontro, un inciampo imprevisto, che a una relazione; lo interpreto come un linguaggio da piegare alle proprie necessità, una di quelle cosmologie universalizzate che meglio ci restituiscono le atmosfere e le isterie del presente. Per cui, non visualizzo il meme come un linguaggio nuovo o già scaduto, semmai è senza tempo e al pari della pittura a olio o della stampa 3D va utilizzato consapevolmente e coerentemente a ciò che si vuol dire».
Che cosa non può mancare nell’arte di domani? Cosa va mantenuto e cosa bisogna assolutamente confinare nel passato?
«All’arte di domani non deve mai mancare ciò che in realtà l’ha sempre accompagnata: il coraggio. Non è la tecnica ma è l’audacia che distingue i giganti dalle comparse e, purtroppo, oggi abbiamo più audience che audacia. Il 2020 ha scoperchiato diversi vasi di Pandora, disvelando verità di cui – è triste ammetterlo – avevamo già contezza da molto più tempo. I temi legati alla tossicità e alla sostenibilità economica del sistema dell’arte, l’autosfruttamento dei suoi lavoratori, l’elitarismo funzionale (di facciata) e soprattutto il cerchiobottismo imperante che sconfina nel conformismo sono tra gli scheletri nell’armadio che le pulizie di primavera del Covid hanno rispolverato e steso come panni al sole. Riconoscere il problema è sicuramente il primo passo verso la sua risoluzione, ma l’ostacolo successivo è dato dall’immobilismo sistematico conseguente alla stessa diagnosi. Intercettare e mostrare un problema senza predisporre un’azione, un contrattacco, è uno sport masturbatorio, un virtuosismo intellettualoide vuoto troppo diffuso. È l’ora di riporlo nel cassetto dei ricordi e di provare a reagire».
L’utilità dei premi: il punto di vista di un giovane artista (italiano semplice).
«Potrei rispondere in maniera molto convenzionale e prevedibile: sono strumenti utili per far conoscere il proprio lavoro, creare rete e mettere in discussione la propria pratica. Non esistono premi migliori o peggiori, esistono semmai i premi più adatti o meno al proprio percorso. Ribalterei la domanda, forse: sull’utilità dei premi consolidati e ormai diventati delle semplici spunte da aggiungere al cv. Quello che viene a crearsi è il cosiddetto effetto “un premio tira l’altro”, ovvero, quella dinamica legata a una performatività impiegatizia del portfolio che appiattisce il valore di ogni esperienza di formazione e produzione al semplice certificato di partecipazione, perché “è lì che i giovani artisti devono andare”. Tutti con le stesse residenze (accuratamente italiane) e workshop, sembrano essersi domandati “ce-l’ho-ce-l’ho-mi-manca” invece di interrogarsi su un più consono “è il luogo più adatto per il mio lavoro?”. A parer mio la sfida dei nuovi premi come l’Exibart Prize, sarà proprio imparare la lezione da una serie di premi diventati ormai simulacri di loro stessi e semplici gagliardetti utili soltanto all’autocelebrazione sui social, più che a reali sfide e occasioni di crescita. Io nutro grandi speranze. E voi?».
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