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Negli ultimi anni del soggiorno in Brasile, Ernesto De Fiori, che solo a Berlino aveva trovato il suo vero habitat sin dal 1914, alla domanda di Pier Maria Bardi se avesse ricevuto alcun influsso dalla scultura tedesca, aveva risposto: “Al contrario, la scuola tedesca è stata influenzata da me, e da artisti come Lehmbruck, Kolbe e Sintenis”. Dichiarazioni alla stampa di tal genere sono frequenti, come accade spesso, in particolare nel caso di un artista di tale fulminante e mondano successo, che ritenne più volte di doversi esprimere e giustificare la propria poetica, e che giunse a ritrarre eminenti personaggi pubblici quali Paul von Hindenburg (1928) o celebrità dello spettacolo e icone della mascolinità e della femminilità quali il boxeur Jack Dempsey e Marlene Dietrich (1931). Sulla sua attività si conservano alcune sequenze del film Schaffende Hände (mani che plasmano, girato nel ’27 da Hans Cürlis), che ce lo mostrano chiaramente come un modellatore. Nelle proprie posizioni critiche, De Fiori si contrappone dapprima al movimento dada (1918), guadagnandosi gli sberleffi di Max Ernst, quindi all’astrattismo nell’ambito di un’inchiesta sul futuro del naturalismo (1925). Infine, in un’epoca di accesa propaganda, partecipa al dibattito sul futuro dell’espressionismo, su una Volkskunst, un’arte nazionale: in risposta alle formulazioni chiaramente espresse da Goebbels nell’aprile del ’33, lo scultore difende l’autonomia dell’arte dalla politica, non assumendo però una posizione chiara o in aperto contrasto con il regime. In quello stesso anno, a risentire delle prime leggi antiebraiche è un personaggio a lui molto vicino, Alfred Flechtheim, suo gallerista da vent’anni, costretto ad emigrare a Parigi e a chiudere l’attività. Tre anni più tardi, dopo aver esposto un suo Cavaliere alla mostra per le Olimpiadi di Berlino del ’36, lo stesso scultore intraprenderà il viaggio in Brasile da cui non farà più rito
Ernesto De Fiori, la cui bibliografia quasi esclusivamente in lingua tedesca (a lui è dedicata la mostra monografica al Georg-Kolbe-Museum nel ’92) già lascia intendere fino a che punto sia giunto il radicamento dello scultore romano a Berlino, in Italia è oggi noto soprattutto per la polemica scatenata in occasione della sua partecipazione alla prima mostra del Novecento Italiano nel ’26, e nel proprio paese d’origine interviene una sola volta, sulla rivista Fronte nel ’31, e si parla di lui negli anni Trenta su La Casa bella, L’Italiano e Domus, inoltre Giovanni Scheiwiller gli dedica ben due monografie Hoepli, una introdotta da Emil Szittya (1927), l’altra da Bardi (1950).
La prima attività scultoria di De Fiori, a Parigi negli anni 1911-13, testimonia ricerche formali indubbiamente vicine ad Archipenko e Brancusi: in seguito, il suo riferimento per questo periodo sarà da lui indicato in Maillol, il che significa rinnegare questa fase sperimentale della propria formazione. A giustificare tale giudizio incongruente basterà ricordare l’enorme fortuna di Maillol in Germania negli anni Venti, visto come l’iniziatore della modernità nella scultura francese, grazie al topos della sua presunta ‘grecità’ che lo vede contrapposto al ‘gotico’ Rodin. Tali premesse si sviluppano, nonostante le avverse correnti nazionalistiche, e culminano nel ’28 nella personale dell’artista francese alla galleria Flechtheim, nel cui comitato organizzatore, diretto dal collezionista Harry Graf Kessler, si trovano tutti gli scultori del circolo della galleria (fra cui De Fiori).
La polemica sull’italianità dell’artista scatenata nel marzo 1926 da Michele Biancale e Antonio Maraini sulle colonne del Popolo d’Italia è originata soprattutto dal fatto che lo scultore durante la prima guerra ha combattuto nelle fila dell’esercito tedesco. Il ’26 è per De Fiori in Germania il momento culminante di una parabola che si chiuderà in Brasile, e, dopo il suo gallerista Flechtheim, più di un italiano si avanzerà in sua difesa (Giovanni Scheiwiller, Leo Longanesi con la sua rivista L’Italiano), con la costante dell’affermazione del carattere italiano e mediterraneo della sua arte. Ad ogni modo, tali accuse, come quelle subite un decennio prima da Adolfo Wildt a causa del suo nome e della sua opera di matrice nordica, estranea al coevo panorama italiano, portano in Italia a un’ambigua interpretazione del percorso di De Fiori, che viene letto, in quelle rare occasioni che ce lo presentano, secondo gli schemi canonici che lo raccordano con l’antico, o con radici etrusche, in parallelo a Martini (cfr. Valentiner 1946). Si tratta di un breve percorso critico che talvolta può apparire ozioso nei suoi tratti di più stereotipato nazionalismo, ma deve spiegarsi in chiave delle coeve riflessioni sulla “romanità” e il “germanesimo” (del ’41 è lo studio di Longhi Arte italiana e arte tedesca).
Nel 1950, alla XXV Biennale di Venezia, una retrospettiva di De Fiori mostra ben tredici sculture, quattro acquarelli e venticinque disegni dell’artista naturalizzato tedesco, che solo nel ’26 aveva esposto in Italia. Significativamente, fra i commissari della mostra è presente Alberto Giacometti, e affianca De Fiori una retrospettiva di quel grande modellatore che è Medardo Rosso.
Autore: Margherita d’Ayala Valva
Revisori: Flavio Fergonzi, Paola Mola
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