L’information visualization, disciplina che studia le possibili traduzioni visive dei dati –di qualunque tipo, da quelli scientifici, a quelli statistici ed economici- è ormai una disciplina a tutti gli effetti. Con un proprio circolo di adepti, una conferenza annuale, una rivista ufficiale (Information Visualization, Palgrave Publishers). Il proliferare di un tale campo di studi nasce da una necessità: quella di maneggiare grandi volumi di informazione grezza cercando di mantenere al contempo una visione d’insieme. In modo da poter estrarre valutazioni, instaurare paragoni, tenere traccia dei mutamenti e delle tendenze. E visualizzarle, come si suol dire, a colpo d’occhio.
Ma mentre siamo tutti abituati alle applicazioni di questa disciplina nel campo della scienza, dell’economia, della geografia, della statistica, settori in cui il mapping visuale di dati numerici o testuali è uno strumento indispensabile di studio da decenni, di comparsa più recente è l’entrata della data visualization nel campo dell’arte e del design. Già da diversi anni, uno degli ambiti di ricerca più frequentati dai media artists di tutto il mondo è proprio quello della creazione di interfacce creative. Con il moltiplicarsi delle reti e dei sistemi informativi, il problema più urgente è diventato quello di mettere a punto efficaci mappature. Si sa, infatti, che tra l’informazione grezza e la sua visualizzazione si frappone sempre un ulteriore livello, quello dell’interfaccia, che può influenzare, e non poco, la fruizione dei contenuti. Implicazioni politiche e sociali attraversano le ricerche degli artisti, che spesso puntano il dito contro un’eccessiva standardizzazione dei sistemi di interazione e delle interfacce stesse, ma da non sottovalutare sono le ricadute di tipo estetico.
Nel panorama fittissimo di esperimenti e ricerche, spicca l’attività dell’americano Golan Levin, autore del progetto The Dumpster, ultima commissione della Tate Gallery di Londra, impegnata fin dal 2000 nel sostegno, culturale ed economico, della Net Art.
L’opera di Levin, realizzata con il contributo di Kamal Nigam e Jonathan Feinberg, è stata prodotta dal museo inglese in collaborazione -per la prima volta due importanti musei si alleano in una simile iniziativa- con lo statunitense Whitney Museum of American Art, promotore di Artport, portale dedicato all’arte telematica. Prima ad essere lanciata del trio di nuove commissioni, (che comprende anche The Battle of Algiers di Marc Lafia e Fang-Yu Lin, e Screening Circle di Andy Deck), The Dumpster ha fatto la sua comparsa in rete il giorno di San Valentino. E la data scelta per il debutto non è casuale. Il tema del progetto, costruito utilizzando il software Processing, ideato da Benjamin Fry e Casey Reas, è infatti l’amore, o meglio, la fine delle relazioni sentimentali.
Tramite un’interfaccia interattiva, l’utente può visualizzare una collezione di oltre 20.000 brevi testi che parlano di storie d’amore interrotte. Il materiale, prelevato da migliaia di blog tenuti da adolescenti americani di una fascia di età tra i 13 e i 19 anni, può essere letto attivando caselle di testo che si aprono cliccando su un’evocativa interfaccia a bolle. La visione di insieme appare come un affresco corale dei sentimenti, delle abitudini e delle preoccupazioni tipiche dell’adolescenza, arrivando a toccare problematiche molto serie come la depressione, l’uso di droghe e le disfunzioni legate alla sfera sessuale.
Lev Manovich, autore del testo critico che accompagna il lancio del progetto, conia per questo tipo di opere l’espressione Social Data Browsing e pone l’accento sulla duplice prospettiva innescata dall’opera. The Dumpster, infatti, riesce a conciliare una visione complessiva, che delinea il ritratto di un intero gruppo sociale, con lo sguardo da vicino. Come una “foto di gruppo” che lascia spazio ad efficaci zoom sulle singole personalità.
link correlati
www.tate.org.uk/netart
www.visualcomplexity.com
www.infosthetics.com
valentina tanni
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 29 – marzo/aprile 2006
[exibart]
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