Parole, parole da tutte le parti.
Mina e Alberto Lupo avevano individuato la questione già nel 1972 ma la loro
disamina si muoveva nello spazio segreto istituto della voce dialogante di due
amanti. Invece, spetta ai Jalisse il merito di aver inquadrato il problema con
i giusti termini del contemporaneo, quelli della fluidità e dello sconfinamento.
Forse, nel 1997, il loro pensiero erano troppo avanti, in fondo l’etica e
l’estetica di internet, almeno in Italia, non erano ancora così diffuse e dei
social network non ce n’era nemmeno il sentore, non se ne sentiva la necessità.
Solo adesso si spiegano le motivazioni della contestatissima vittoria sanremese,
era una questione di preveggenza. È bianco il rumore di moltissimi canali
dell’Internet, un sottofondo brulicante e ritmato dall’incedere fluente, non
sempre suadente, di parole, fiumi di codici più o meno densi di senso, corsi
perenni di segni con tanto di affluenti che generano complessi reticoli di
verbi, locuzioni, punti esclamativi e caps lock, per sfociare, infine, in uno
sconfinato, turbinoso bacino idroGrafico. Si parla, cioè si scrive (ma, oggi,
qual è la differenza tra scrittura e oralità?) troppo.
Per alcune affinità, non solo
professionali, avverto molto l’urgenza di questo problema, del quale già ha
scritto Matteo Bergamini nel “Fatto” del 2 febbraio, commentando un
approfondimento del New York Times sulla condizione futuribile del giornalismo,
settore che, in buona parte, contribuisce a far aumentare la mole di parole
quotidianamente sprecate su internet. Secondo il report stilato da una
commissione di sette giornalisti, le possibili linee di sviluppo sembrano
procedere in netta controtendenza rispetto alla situazione attualmente
percepita. Insomma, pare che stiamo uscendo dall’epoca della sovrabbondanza
delle parole per entrare in una nuova fase dell’incisività, con notizie
selezionate e originali, in grado di creare nuovi argomenti di discussione,
evitando di rianimare filoni ormai esauriti. Come ben sintetizzato nel titolo
di Rivista Studio, che ha ripreso l’articolo dei N.Y. Times, “scrivere meno per
scrivere meglio” potrebbe diventare non solo una voce della deontologia
professionale ma anche la nuova regola aurea dell’advertising che, da molti, è
considerato il vero colpevole della bassa qualità dei contenuti e della forma,
dovendo privilegiare, per questione di capitale, l’estrema diffusione. In
particolare, negli ultimi tempi, si sta parlando molto di native advertising, cioè
una tipologia di pubblicità online che assume l’aspetto dei contenuti del sito
sul quale è ospitata e non ne interrompe ma ne integra la fruizione. Una mina
mimetizzata e pronta a esplodere al clic su “ordina ora” oppure un approfondimento
dello storytelling?
L’argomento rimane controverso ma
il N.Y. Times scommette sul futuro di questa modalità e continua accennando a
un argomento altrettanto spinoso: far sentire il lettore all’interno di ciò che
sta leggendo, sommerso da migliaia di ettolitri di informazione, a 360° nella
notizia con tutti e sei i sensi. Gli stessi termini che ho usato per descrivere
questa situazione di coinvolgimento totalizzante, immersivo, in sé tutt’altro
che nuova, mi sembrano ambigui, come se stessi raccontando più un’esperienza
ludica che un processo di conoscenza. Il gioco è un gradevolissimo e
fondamentale esercizio di trasmissione del sapere, a patto di giocare
conoscendo le regole e avendo le chiavi di lettura per interpretarle. L’intrattenimento
sembrerebbe essere qualcosa di diverso, insiste sull’ambiguità, su uno sfumato
senso del tempo e della partecipazione, non riesco nemmeno a definirlo con
chiarezza. Ma è proprio sull’indeterminatezza tra informazione e
intrattenimento, sul vago piacere dell’inutilità ben mascherata, che le truppe della
famigerata colonna destra hanno strategicamente puntato per avanzare
inesorabili nelle home page, marciando al suon di petaloso, nonsonogiapponese e
INCREDIBILESCOPERTASCONCERTANTEDIILARYCLICCAELEGGI
Pubblicità, clickbait, SEO e
Analytics a parte, il giornalismo è un ambito considerato in caduta libera, una
professione in crisi sotto tutti i punti di vista, arrivando a coinvolgere
l’intera filiera del contenuto, dall’elaborazione alla fruizione.
Generalizzando, questa situazione è dovuta alla coincidenza di molti fattori,
dei quali se ne deve accettare l’ineluttabilità storica, riconoscendovi,
piuttosto, una necessità di ridiscussione, visto che le stesse modalità del
comunicare sono periodicamente sottoposte a cambiamenti dei parametri. Come
sembrano pioneristiche quelle pose del giornalismo d’assalto della metà del
Novecento, scarpe consumate dalla corsa tra il luogo del fatto e la redazione,
block notes, sguardo indagatore e lingua affilata, quando la stampa iniziava a
essere considerata come il Quarto Potere. Al cospetto dei metodi di lavoro
attuali, quell’atteggiamento è considerato, al più, romantico, come descritto
nelle pagine di un romanzo di formazione. Ma sfogliare le immagini di un tempo
trascorso è solo un modo più elegante di “piangere miseria”, come si dice a
Napoli, ovvero macerarsi nella consunzione per non affrontare questa situazione
che ha tutto l’aspetto di un intricato paradosso. I fruitori sono immersi nel
flusso incessante di notizie che, gestito non più solamente dagli addetti ai
lavori ma da una platea straripante, genera profitti enormi. Però, questa piattaforma
ampliata non porta né a un accrescimento economico del settore né a un
consolidamento del pensiero individuale e collettivo. Di fatto, in virtù di
questo assottigliamento della distanza tra i ruoli, il giornalista non è più
una professione riconoscibile, con buona pace del tesserino che sento
scalpitare nel portafoglio, della deontologia e di un Ordine al di fuori del
tempo e dello spazio, entità eterea al di là del bene e del male. Il giornalismo
di una volta non c’è più, eppure ci sono ancora molti giornalisti, che
riconoscono nel proprio lavoro una competenza e una responsabilità specifiche
ma hanno smarrito l’ambito di confronto, il metro di paragone. Le linee
editoriali sono state fraintese e dichiarate obsolete da un sistema
comunicativo che ha privilegiato la confusione delle voci individuali,
egotistiche, referenziate solo da se stesse.
Dopo aver preso atto delle
criticità e delle opportunità di questa condizione, si può accettare la sfida
che risiede, tra l’altro, nell’elaborazione di strumenti giornalistici
specifici, nella proposizione di linguaggi in grado di entrare in confronto
tanto con le sfumature della post verità che con i termini dell’autorevolezza e
della credibilità. Alcuni passi importanti si stanno compiendo, nelle ultime
ore Facebook ha annunciato un accordo di collaborazione con otto mezzi di
informazione francesi, tra cui Le Monde e AFP, per avviare una sperimentazione
di Fact Checking sulla massa di notizie che affollano ogni giorno il social
network. Tentare è un compito necessario, l’incapacità di mediazione, di
istituire un legame tra le cose che accadono e le persone, sta generando volumi
di discorsi giganteschi e pericolanti, perché vuoti di senso storico e colmati
dall’irrazionalità, un sentimento che riesce ad adattarsi perfettamente a ogni
contesto. Basti pensare a com’è gestito mediaticamente il fenomeno
dell’immigrazione ed è solo il caso più eclatante perché la questione si
ripropone nelle pagine di cronaca, politica ed esteri, fino e oltre alla terza, quella della cultura. Nel caso specifico, l’arte, che sembra essere contemporanea solo per limiti anagrafici, tanto onnivora nel campo visivo quotidiano quanto incapace di incidere nell’elaborazione e nella diffusione delle conoscenze collettive, soprattutto per l’assenza di un tramite linguistico in grado di renderla efficacemente presente. Ma anche la scienza sembra lontana, visto che, quando tenta timidamente di uscire dai laboratori,
viene per lo più relegata nell’enciclopedia del sensazionalismo.
Ecco, sono stato trascinato dal
fiume di parole e ne ho scritte troppe. E intanto i Jalisse continuano a essere
fraintesi, visto che sono stati esclusi dalla lista dei 22 big di Sanremo 2017.
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