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Archistar di tutti i tempi mangiano kebab e sfogliatelle, lungo la strada dalla Duchesca a Piazza Garibaldi.

di - 7 Aprile 2016

Appena uscito dall’Ex Lanificio (link
alla tappa precedente) vengo sommerso dal traffico nevrotico di via Carbonara.
Gli odori provenienti da ristoranti e tavole calde sono talmente pungenti da
diventare forme che si insinuano tra le lamiere delle automobili. In questa
zona vanno molto la zuppa di cozze e il brodo di polpo, pietanze che, dopo
secoli di carretti improvvisati per un consumo precario e rapido, hanno trovato
una dimensione sedentaria. I massicci torrioni di Porta Capuana proiettano la
loro ombra su piazza De Nicola, unendo, con un segmento obliquo e scuro, gruppi
di uomini e distese di mercanzia improvvisata. Questi trafficanti dai volti
appuntiti sorridono, si lamentano della povertà e aspettano seduti che arrivi
qualcuno interessato a comprare il ciarpame, raccattato da case abbandonate e
ottimisticamente riallestito in strada. Saltimbanchi senza la nobiltà di
Beckett, la loro scenografia è minimale e pronta a scomparire alla prima vista
di un lampeggiante.

Attraverso via Poerio, allungando
di proposito il tragitto verso il Centro Direzionale. Sono in anticipo rispetto
all’appuntamento, ho un buon passo e la strada è piena di cose da vedere. Qui
tutto si trova in un ordine fuori posto. La scienza rassicurante di una
farmacia e la tecnologia scintillante di un megastore sono intercapedini
solidificate nella miriade di piccoli negozi cinesi che vendono gli identici
prodotti, tra i minimarket ucraini con un vasto assortimento di birre in
lattina. Qui, le cose vivono di un’esistenza fluida, tutto si inventa e si
distrugge allo stesso tempo. Assenza e presenza convivono, forse hanno creato
una terza categoria, una sorta di persistenza dai confini labili, un incubo per
chi si occupa di rendere nominabili, definibili, vendibili, queste cose. In
questo luogo ogni linguaggio si deforma, assumendo circonvoluzioni vertiginose
per adattarsi agli angoli, ai portoni dei palazzi, ai tratti somatici.

Le facciate degli edifici sono
sbrecciate, altre perfettamente tinteggiate di giallo tufo. I muri dei piani
terra sono ricoperti di tag e pezzi di writing, insulti e dichiarazioni d’amore
e di fede calcistica. Questa zona è chiamata Duchesca, dal nome di una villa
rinascimentale, progettata dall’architetto e scultore Giuliano da Maiano per Alfonso II d’Aragona, famosa per i suoi
amplissimi e rigogliosi giardini di stile ispanico-musulmano, al cui interno
erano inclusi edifici preesistenti, ruderi e archeologie. Solo pochi anni dopo
la sua realizzazione, le vicissitudini storico-politiche del regno di Napoli ne
provocarono l’abbandono e la progressiva spoliazione. Il nuovo prese il
sopravvento, altre costruzioni caotiche riempirono i giardini, inglobando anche
la maestosa villa. Oggi non ne è rimasta una singola pietra, nulla a parte il
nome che continua a identificare, con precisione, non solo l’area intorno a
Castel Capuano ma anche un certo atteggiamento delle persone che vi risiedono.
La Duchesca, tra i quartieri più antichi di Napoli, è relativamente poco
attratta dai grandi movimenti di glocalizzazione che caratterizzano alcune zone
del centro. Proprio in questo luogo, si sono ramificate e sovrapposte culture
caleidoscopiche che hanno assemblato uno spazio in cui inventare un’ipotesi di
sussistenza, non senza momenti di crisi e assestamento.

Alla fine della strada, si
intravede l’apertura di Piazza Garibaldi. Le strutture esterne della fermata
della metropolitana, progettata da Dominique
Perrault
, rappresentano quel sogno di ottimistica imponenza che ha sempre
contraddistinto la zona. La piazza e l’annessa stazione furono aperte subito
dopo l’Unità d’Italia e l’assetto è rimasto simile fino agli anni ’60 del XX
Secolo, quando si ampliarono tutti gli spazi per arrivare all’attuale
sistemazione non sistematizzata. I cantieri della metropolitana sono ancora in
fase di smantellamento e in città tutti sono curiosi di vedere come andrà a
finire, come si attraverserà questa piazza teoricamente ariosa. Per il momento,
il traffico continua a scorrere canalizzato in un caos che è l’incubo dei
navigatori satellitari e la viabilità pedonale segue leggi non scritte dalla
segnaletica orizzontale.

Incuneati tra i cantieri, i
venditori di pacchi, doppi pacchi e contropaccotti si impegnano a far rivivere
lo stereotipo. Generazione dopo generazione le rughe sono sempre le stesse, i
gesti identici e gli oggetti anche. Sembrano smartphone e tablet ma hanno
sempre lo stesso peso, la stessa forma e l’identico valore. Fermano con
esattezza matematica solo i turisti, adattano parole e gesti per deformare la
realtà fin troppo evidente, ben descritta nelle guide di tutto il mondo. Sul
lungo e stretto marciapiede che da via Poerio arriva fino alla Stazione
Centrale, incrociando via Milano e via Torino, le insegne si susseguono con un
ritmo vertiginoso. Tavole calde e bar, kebab turco, riso indiano, involtini
srilankesi, pizzerie da asporto, sfogliatelle e datteri, uno dei rari Mc
Donalds. E decine di altri negozi, per lo più molto piccoli, che potrebbero
avere qualunque cosa, da televisioni di marca a vesuvi in miniatura e in sfere
di vetro con la neve. Le bancarelle ambulanti dei mercatini etnici occupano
ogni angolo, a ogni ora del giorno. Furgoncini caricano e scaricano scatoloni
grigi e marroni con impressi caratteri cinesi, giapponesi, cirillici. Migliaia
di oggetti passano tra migliaia di mani, entrano in buste e tasche, sono mangiati
oppure immediatamente rivenduti, formano una corrente ininterrotta di colori,
materiali, packaging. Schede di memoria, microfoni Bluetooth, giubbotti
imbottiti e cappotti con pelliccia, sciarpe di lana e guanti di seta, scarpe
veramente false, pentole in acciaio inox ed elettrodomestici di ultima
generazione.

Uomini di colore vestiti in modo
sgargiante si appoggiano alle vetrine straripanti di oggetti. Arrotolano
tabacco guardando svogliatamente i passanti. Ragazze asiatiche trasportano
pesanti pacchi su carrelli che cigolano, le loro risate sono cristalline e
illogiche. Del dialetto napoletano, così impetuoso, si sente solo un sussurro
che si confonde con gli accenti dell’est e dell’ovest, del nord e del sud. Le
onde sonore, oscillanti nel veicolo dell’aria, traducono questa inerzia in un
nuovo linguaggio, in una nuova conoscenza acustica. 

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