Il lungo rettilineo di Corso
Meridionale si allunga fino a incrociare via Gianturco, l’asse principale che
comunemente identifica tutta la zona industriale orientale. Io mi fermo molto
prima, in corrispondenza della spaccatura percettiva che i grattacieli di vetro
del Centro Direzionale scavano nella fitta sequenza dei palazzi in muratura.
Il Centro Direzionale si estende
su un’ampia area a ridosso del quartiere Poggioreale. Il terreno fu acquistato
dalla Mededil, società immobiliare poi entrata nel gruppo IRI-Italstat, ed era
precedentemente occupato da capannoni e fabbriche ormai dismessi che, in parte,
sopravvivono come relitti del tempo, svuotati da qualunque funzione e destinati
a sgretolarsi lentamente. Le discussioni sulle possibili modalità di riqualificazione
della zona risalgono agli anni ’60, un periodo in cui la città stava
attraversando una profonda crisi industriale che, nonostante l’impatto notevole
di stabilimenti come quelli della Cirio, delle Manifatture Cotoniere
Meridionali, della Società Meridionale Elettricità, procedeva di pari passo con
il ridimensionamento dell’Italsider di Bagnoli. L’idea di costruire un moderno
centro di localizzazione dei servizi era preponderante e la prima proposta
pervenuta era a firma di Luigi Piccinato, al quale il Comune affidò la
direzione della commissione per il nuovo piano regolatore di tutta la zona. Il
piano di Piccinato si trovò privo di riconoscimento normativo ma le direttive
furono riprese quasi integralmente dal nuovo piano presentato nel 1974 dall’assessore
Servidio, che metteva in discussione la portata dello sviluppo economico legato
al settore secondario, palesando l’urgenza, non più rimandabile, di trasformare
Napoli in una metropoli di servizi. Il piano prevedeva l’ampliamento della rete
stradale della tangenziale, la delocalizzazione delle fasce popolari verso i
quartieri Secondigliano e Ponticelli, la progressiva terziarizzazione delle
attività, attraverso una prima ipotesi di conversione in senso turistico della
zona occupata dagli stabilimenti dell’Italsider e, soprattutto, con
l’edificazione di un grande polo in cui concentrare uffici e sedi di importanti
multinazionali, un’architettura splendente per imporre una rinnovata immagine
della città.
Salgo le rigide scalinate di uno
dei tanti accessi che portano alla piattaforma sopraelevata, sulla quale il
progetto di Kenzo Tange, approvato nel 1982 e avviato nel 1985, si impone in
una maestosità decadente. Le due torri gemelle dell’Enel aprono l’accesso
orientale, delineando l’ampio asse viario pedonale, un lunghissimo rettangolo
nel quale il vento si destreggia, colpendo le membra di cemento e i tronchi
degli alberi con una forza amplificata. Nell’edonismo di questa soluzione, la
convinzione di una visione post-industriale, utopisticamente verticale, fa
sentire le proprie ragioni. Il futuro, in quegli anni, sembrava brillare verso
un fine ultimo e grandioso, in ogni spazio si nascondeva un percorso da
intraprendere, una sfida da affrontare e vincere. Dalla parte opposta, un
chilometro in linea d’aria, si vedono le facciate curvilinee delle tre torri
nere del complesso del Nuovo Palazzo di Giustizia. Di fianco, a pochi metri, si
innalza la “scala” della Chiesa di San Carlo Borromeo, in un contrappeso di
forze spirituali e temporali. Il cemento armato del basso palazzotto
dell’Olivetti, disegnato da Renzo Piano, e le massicce facciate in pietra
bicromatica delle Torri del Banco di Napoli, progettate da Nicola Pagliara e
vendute nel 1995 in seguito alla crisi dell’istituto bancario, sfidano i 129
metri della Torre Telecom Italia, tagliata a metà da un profondo segmento nero,
una balconata panoramica.
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