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Kenzo Tange e la planimetria del vuoto, tra i grattacieli del Centro Direzionale

di - 29 Aprile 2016

Il lungo rettilineo di Corso
Meridionale si allunga fino a incrociare via Gianturco, l’asse principale che
comunemente identifica tutta la zona industriale orientale. Io mi fermo molto
prima, in corrispondenza della spaccatura percettiva che i grattacieli di vetro
del Centro Direzionale scavano nella fitta sequenza dei palazzi in muratura.

Il Centro Direzionale si estende
su un’ampia area a ridosso del quartiere Poggioreale. Il terreno fu acquistato
dalla Mededil, società immobiliare poi entrata nel gruppo IRI-Italstat, ed era
precedentemente occupato da capannoni e fabbriche ormai dismessi che, in parte,
sopravvivono come relitti del tempo, svuotati da qualunque funzione e destinati
a sgretolarsi lentamente. Le discussioni sulle possibili modalità di riqualificazione
della zona risalgono agli anni ’60, un periodo in cui la città stava
attraversando una profonda crisi industriale che, nonostante l’impatto notevole
di stabilimenti come quelli della Cirio, delle Manifatture Cotoniere
Meridionali, della Società Meridionale Elettricità, procedeva di pari passo con
il ridimensionamento dell’Italsider di Bagnoli. L’idea di costruire un moderno
centro di localizzazione dei servizi era preponderante e la prima proposta
pervenuta era a firma di Luigi Piccinato, al quale il Comune affidò la
direzione della commissione per il nuovo piano regolatore di tutta la zona. Il
piano di Piccinato si trovò privo di riconoscimento normativo ma le direttive
furono riprese quasi integralmente dal nuovo piano presentato nel 1974 dall’assessore
Servidio, che metteva in discussione la portata dello sviluppo economico legato
al settore secondario, palesando l’urgenza, non più rimandabile, di trasformare
Napoli in una metropoli di servizi. Il piano prevedeva l’ampliamento della rete
stradale della tangenziale, la delocalizzazione delle fasce popolari verso i
quartieri Secondigliano e Ponticelli, la progressiva terziarizzazione delle
attività, attraverso una prima ipotesi di conversione in senso turistico della
zona occupata dagli stabilimenti dell’Italsider e, soprattutto, con
l’edificazione di un grande polo in cui concentrare uffici e sedi di importanti
multinazionali, un’architettura splendente per imporre una rinnovata immagine
della città.

Nei cantieri del Centro
Direzionale confluirono le più importanti società di Roma e Napoli, tra le
quali la Bastogi, la Società per il Risanamento, il Banco di Napoli, una
compagine azionaria di grandi gruppi economici che, in sostanza, si riunirono
sotto la Mededil. Il vetro e l’acciaio sorreggono i metri dei grattacieli e si
intrecciano a società e aziende private e statali, a nomi che ritornano tra
vicende distanti, in un groviglio che si perde in un’oscurità densa quanto
quella del Petrolio di Pasolini.

Salgo le rigide scalinate di uno
dei tanti accessi che portano alla piattaforma sopraelevata, sulla quale il
progetto di Kenzo Tange, approvato nel 1982 e avviato nel 1985, si impone in
una maestosità decadente. Le due torri gemelle dell’Enel aprono l’accesso
orientale, delineando l’ampio asse viario pedonale, un lunghissimo rettangolo
nel quale il vento si destreggia, colpendo le membra di cemento e i tronchi
degli alberi con una forza amplificata. Nell’edonismo di questa soluzione, la
convinzione di una visione post-industriale, utopisticamente verticale, fa
sentire le proprie ragioni. Il futuro, in quegli anni, sembrava brillare verso
un fine ultimo e grandioso, in ogni spazio si nascondeva un percorso da
intraprendere, una sfida da affrontare e vincere. Dalla parte opposta, un
chilometro in linea d’aria, si vedono le facciate curvilinee delle tre torri
nere del complesso del Nuovo Palazzo di Giustizia. Di fianco, a pochi metri, si
innalza la “scala” della Chiesa di San Carlo Borromeo, in un contrappeso di
forze spirituali e temporali. Il cemento armato del basso palazzotto
dell’Olivetti, disegnato da Renzo Piano, e le massicce facciate in pietra
bicromatica delle Torri del Banco di Napoli, progettate da Nicola Pagliara e
vendute nel 1995 in seguito alla crisi dell’istituto bancario, sfidano i 129
metri della Torre Telecom Italia, tagliata a metà da un profondo segmento nero,
una balconata panoramica.

Nel largo viale, voci e rumori si consumano in
un identico fruscio. Alcuni vani ai piani terra sono sprangati con catene
massicce e arrugginite, gli annunci delle agenzie immobiliari sulle vetrine
opache compaiono come superflue apparizioni di colore. Le scale mobili, che
collegano i parcheggi sotterranei ai livelli superiori, sono arrugginite per la
perenne avaria. Affianco ai citofoni, si affollano le targhe dorate di società
e studi, lasciando presagire lunghi corridoi di aria condizionata e borse
diplomatiche.
Il processo di stratificazione continua, che segna l’architettura napoletana con il codice del non finito, qui trova un momento di sospensione. Gli edifici sono immobili in uno spazio e in un tempo ben definiti e resistono alla riscrittura con una tenacia che sfocia in un’estetica estranea, aliena. Tra le cose si insinua la massa del vuoto, che esercita la sua
pressione sulle finestre schermate, ermeticamente chiuse e tutte uguali.
L’orientamento si confonde facilmente, la divisione dei lotti in isole
identificate da accostamenti di lettere e numeri, come in uno schema da
battaglia navale, non aiuta a muoversi e, per trovare la mia destinazione ho
impiegato più tempo che nel percorrere l’intero tragitto dall’Ex Lanificio.
Mentre i piani scorrono lentamente, dall’ascensore esterno vedo il traffico che si incanala verso i tortuosi corridoi, nascosti al di sotto della piattaforma
scintillante. Le automobili vi sprofondano, per emergere in altri luoghi
distanti.

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