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La teoria dei colori, secondo Carrefour

di - 7 Novembre 2018

Ho assistito alla sua laboriosa
gestazione non senza una certa apprensione. Passando per via Kerbaker non
potevo evitare di arrovellarmi, approfittando più del dovuto delle pause del
semaforo per tentare di allungare lo sguardo, sempre inutilmente. Spessi teli
di sicurezza verdi, ben distesi tra le impalcature di ferro, impedivano
l’occhio ma incoraggiavano l’immaginazione, che disegnava tutte le traiettorie
immaginabili compiute dalle squadre di operai, impegnati tra i ben conosciuti
reparti delle conserve e della prima colazione, gli attrezzi poggiati sugli
scaffali poco prima occupati da pane e da ogni tipo di companatico e, adesso,
densi di orme lasciate dalla polvere del lavoro e del cambiamento. Tutto questo
accadeva mentre l’estate iniziava e la città lentamente si svuotava, il nuovissimo
Carrefour cresceva mentre le strade di Napoli, sfumando all’ombra della
svogliatezza da villeggiatura, digradavano verso altri luoghi. Se il
supermercato non è più quello di una volta, lo dobbiamo anche al Carrefour, il vertice
avanzato del concetto della spesa, spazio di perenne messa a punto del linguaggio
che unisce l’uomo e la merce.

Il mosaico composto dalla
sovrapposizione delle sgargianti confezioni, ordinatamente disposte sulle
sconfinate linee prospettiche del reparto dei generi a lunga scadenza, ha espresso
la percezione di un’epoca segnata dalla magnificenza, un tempo che,
inevitabilmente, si è avviato al tramonto. Dietro questo paesaggio di
etichette, nel ritmo dei loghi e degli slogan, sono stati trovati tutti gli
elementi per analizzare il rapporto tra produttore, prodotto, consumatore,
consumabile, per cartografare la superficie di attrito tra immagine, oggetto,
rappresentazione. Non è stato poi troppo difficile, le cose erano state messe tutte
lì, come se il supermercato fosse un laboratorio per capire meglio quale
posizione assumere verso il mondo. In un luogo in cui tutto ha una disposizione
misurabile, la distanza tra i sott’oli e il banco frigo non può essere diversa,
il numero dei barattoli di filetti di alici non deve eccedere quello delle
scatolette di tonno.

“Il mondo sotto casa” era uno
degli slogan più conosciuti della Standa, lo stereotipo italiano di quello che era
il grande magazzino, primo nucleo del centro commerciale. Ed è effettivamente
così, posso manipolare con tutta tranquillità ciò che mi circonda, soppesarlo,
controllarne la composizione e il lotto di produzione, riporlo nel carrello e
possederlo. Un’altra sensazione anche rispetto alla realtà virtuale. Un mondo
percorribile con i piedi per terra e a misura di famiglia, aperto la domenica.
Poi la Standa si è lentamente spenta, tra ingerenze politiche, passaggi di mano
non sempre limpidi tra i maggiori gruppi nazionali, da Montedison a Fininvest,
cessioni a gruppi stranieri, ultimo dei quali l’austriaca Billa.

Carrefour, invece, non smette di
crescere. Con ricavi di quasi 90 miliardi di euro, è il secondo più grande
gruppo al dettaglio al mondo, dopo l’americana Wal-Mart, e il primo a livello
europeo. Nel 2015, le vendite sono cresciute del 3,5% in Italia e del 2,5% in
Spagna, raggiungendo i picchi del 13,5% in Brasile e 23,3% in Argentina. Considerando
il quarto trimestre del 2015, il colosso francese ha acquisito circa 282 mila
metri quadri di spazi espositivi, aggiungendo 439 store a un network esteso in
più di 30 Paesi, dal Sud America al Nord Africa, passando per l’Asia. In questa
nuova cartografia della prossimità, che avvicina abitudini e punti di vista di
milioni di persone da un capo all’altro del globo terracqueo, in questo
meccanismo di ridefinizione degli spazi, il Carrefour è decisamente avanti. Eppure,
secondo il CEO Georges Plassat, la crescita non è proporzionata agli
investimenti ed è necessario un cambio di marcia ma con pazienza, a passi
mirati. «La
velocità non è spettacolare, dobbiamo fare alcuni cambiamenti ma la fretta
porta solo al disastro», ha detto qualche tempo fa, in una intervista
rilasciata al Wall Street Journal. Festina lente, affrettati lentamente, faceva
dire Svetonio al saggio Augusto, il primo imperatore della storia romana,
artefice del passaggio dalla Repubblica al Principato. Plassat immagina un
punto di svolta, la sua strategia è dichiarata e la sta perseguendo con precisione
e decisione: diminuire l’impatto dell’esercizio nella scala XXL degli
ipermercati in favore di negozi più piccoli, accoglienti, convenienti. Pensati
a misura dell’individuo e non più del gruppo, massa o famiglia tradizionale. Già
le 24 ore consecutive di apertura, un’anomalia temporale considerando i ritmi
tradizionali della spesa, avevano dettato nuovi standard per la disposizione
dei prodotti e la scelta dei colori, con briosi rossi e arancioni, apportando
anche alcune significative modifiche agli strumenti, come carrelli della spesa
più piccoli e in plastica leggera. Per il Carrefour, la teoria dei colori è fondamentale
e, in una nota diffusa alla stampa, è stato specificato che il nuovo logo,
usato per il servizio di e-commerce, annunciato in questi giorni da una
campagna di guerrilla marketing a Milano e Roma, al grido degli hashtag #Ghepensimi
e #Nuntescomoda, «è magenta, non rosa».

E il nuovissimo Carrefour di via
Kerbaker è un ulteriore passo, forse ancora sperimentale, lungo questa
inversione di rotta, a tutta dritta verso l’individuo. Via i colori troppo
accesi e invadenti, il pavimento è rivestito di un linoleum poroso e dai toni
grigi, sul quale le suole delle scarpe producono il suono ovattato di un
morbido attrito, appena sottolineato dallo sfregamento delle ruote dei
carrelli, completamente realizzati in una plastica gradevole al tatto e con le
meccaniche silenziose, perfettamente oliate. I cestini verde scuro del reparto
frutta hanno gli angoli smussati e richiamano l’attenzione sugli elementi vegetali
allestiti ordinatamente e senza troppa esuberanza. Prevalgono le linee oblique,
che segmentano i reparti e annullano la visione di un insieme troppo dilatato,
chi era abituato a percorrere chilometri tra roccaforti di latte a lunga
scadenza e confezioni da 32 uova, dovrà abituarsi a tale frammentazione
prospettica. Queste direzioni sintetiche conducono verso due poli di
attrazione, la zona delle casse e, specularmente, verso l’area più lontana
dall’ingresso, il reparto dei freschi, cuore pulsante della struttura, con le
vetrine del pane, dei dolci e dei croissant bene illuminate, prospicienti al
reparto salumeria, con la lunga sfilza di prosciutti ancora elegantemente confezionati.
I profumi del forno caldo e della carne speziata si intersecano tra buste di
insalata già lavata e scatolini di seitan sotto vuoto.

Fuori dal Carrefour, l’estate è
ormai finita da un bel po’ e, come al solito, mi riduco a fare la spesa in
tarda serata. Esco dalla fermata della metropolitana di Quattro Giornate e, nel
raggio di un chilometro, ho a disposizione quattro diversi Carrefour, il
vecchio modello, il nuovo e il nuovissimo. Traccio il percorso più conveniente,
inserendo tra i parametri anche il peso delle buste, e mi avvio verso via
Doria. I fruttivendoli stanno smontando i larghi banchi in silenzio ma durante
il giorno dominano Antignano, la zona più verace del Vomero, con la loro
potenza vocale, sempre ricca di una certa inventiva nel reclamizzare la
freschezza dei prodotti. I loro movimenti sono precisi, cassette e tavole,
impilate le une sulle altre, mantengono un equilibrio immutabile, ieratico. In
fondo alla strada, l’insegna del Carrefour è splendente, altrettanto sacrale, i
neon rossi e blu disperdono le loro frequenze luminose nell’atmosfera,
interagendo con le pareti dei palazzi di via Doria, Napoli, di Vila Guilherme,
São Paulo, di Quyang Rd, Shangai. 

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