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La voce di Mina tra le piramidi della Stazione Centrale di Napoli

di - 22 Aprile 2016

Il brusio di piazza Garibaldi
continua a fluire, scivolando alle mie spalle (link
alla tappa precedente). Imbocco Corso Novara, camminando sul marciapiede
alberato che costeggia il fabbricato viaggiatori in vetro e acciaio della
Stazione Centrale. La luce del primo pomeriggio screzia il pavé, passando
attraverso gli spiragli lasciati dalle foglie fitte e ormai verdi, germinate
seguendo il codice dei cicli stagionali. La superficie dei tre grattacieli
degli uffici delle FS è scintillante come uno specchio sul quale le onde sonore
disegnano figure progressivamente concentriche. La disposizione dei tre
edifici, uniti in una sorta di stella a tre punte, evoca un simbolismo ritmico,
evidentemente riferito all’ondata di architettura razionalista che investì Napoli
dagli anni ’30. Proprio in quel periodo vennero costruiti, tra gli altri, il
Palazzo delle Poste, in piazza Matteotti, il Palazzo dell’Intendenza di
Finanza, in via Diaz, il Mercato Ittico, in piazza Duca degli Abruzzi. Gli alti
palazzi di vetro furono inaugurati nel 1966, come ultimo atto dell’ambizioso
piano di riqualificazione della vecchia stazione, edificata nel 1866 in stile
neorinascimentale e liberty, gravemente danneggiata dai bombardamenti della
Seconda Guerra Mondiale e definitivamente smantellata per far posto a quella
attuale, aggiornata ai modi dell’architettura occidentale del secondo
dopoguerra. Il progetto definitivo fu approvato, in seguito a un concorso
nazionale, nel 1954 e ibridava le proposte avanzate da due gruppi di
architetti. Pierluigi Nervi, Bruno Zevi e Luigi Piccinato, i nomi piĂą in voga in quelle decadi, facevano
parte dei diversi schieramenti ma, insieme, i tre avevano fondato, nel 1945, l’Associazione
per l’Architettura Organica.  

Oggi, il complesso della Stazione
Centrale, pur con i rimaneggiamenti degli ultimi anni, esprime ancora il
fascino retrofuturista di un’ipotesi mai arrivata a compimento. In ogni sezione
della sua struttura allungata e squadrata, si moltiplicano le forme
triangolari, dalla distesa di piramidi del tetto – che in linea con i dettami
dell’Architettura Organica dovevano rimandare agli steli d’erba agitati dal
vento – ai pilastri a tre braccia. Una simile tripartizione degli elementi
slancia la costruzione con un’eleganza instabile, tutti gli elementi sembrano adattarsi
a una condizione biologica di movimento, seguendo traiettorie oblique e
incrociandosi in determinati punti dello spazio, traducendo, nella soliditĂ 
dell’acciaio e del cemento, gli attraversamenti evanescenti della varia umanità
che la popola. Tra queste poderose spinte strutturali, si agitano ancora alcuni
residui di quella volontĂ , oggi dimenticata, di immaginare il futuro con la
fiducia di poterlo concretamente influenzare, «il futuro non è più quello di
una volta», scriveva sardonicamente Arthur C. Clarke, l’autore di 2001: odissea nella spazio e Le fontane del paradiso. E proprio tra
queste architetture enigmatiche, ancora irrisolte, è ambientata la clip di Se telefonando, scritta nel 1966 da
Maurizio Costanzo e musicata da Ennio Morricone, in cui Mina, vestita di cavi neri, si affaccia su piazza Garibaldi, sulle
vetrate del corpo centrale della Stazione, sulla distesa metallica della linea
ferroviaria, sul cantiere della pensilina degli autobus che, in quegli anni,
era ancora in costruzione. I potenti gesti espressivi della grande cantante si
accordano armonicamente alle strutture, l’impostazione è vagamente fantastica, onirica
e non è un caso, perché il video fu girato da Piero Gherardi, architetto e scenografo, stretto collaboratore di Federico Fellini e vincitore di due
premi Oscar per i costumi di La dolce
vita
e 8½.

Il tratto di Corso Novara fino
all’incrocio con Corso Meridionale, l’ultima svolta verso la mia meta, è breve
ma questi pochi metri segnano un drastico passaggio di atmosfera, si estendono
come un’escrescenza brutalmente solida, innestata su un corpo gassoso per
qualche imprecisione chimica. L’aggregazione sfaccettata di colori, odori e
linguaggi che caratterizza piazza Garibaldi vira verso un tono ferroso, reso
uniforme dal grigio che si è depositato sui moderni materiali da costruzione. Alcuni
uomini, seduti sulle panchine all’ombra, guardano distrattamente il loro riflesso
sulle carrozzerie delle automobili incolonnate nel traffico. Hanno capelli
corti, la pelle del volto è spessa sotto la barba ispida. Altri stanno
disponendo con cura, su lenzuoli logori e stesi direttamente sul marciapiede,
plastiche e lamiere trovate agli angoli delle strade, metri e metri di cavi
strappati dalla corrente elettrica, frammenti contorti che si trascinano
boccheggiando verso una nuova, insperata utilitĂ . Un lato di Corso Meridionale
è quasi interamente occupato da un prefabbricato a tre piani destinato agli
uffici della Stazione. Tre ordini di decine di finestre cadenzano una
prospettiva allungata, la cui monotona severità è accentuata dal lento
movimento dei rotori di alcuni condizionatori. L’altro lato è intasato di
negozi di elettrodomestici, pasticcerie, bar, una famosa gioielleria, hotel.
Sul segmento di marciapiede occupato una ricevitoria di scommesse dal nome
altisonante, una massa di scontrini pieni di fitti caratteri neri si agita
grottescamente, accompagnando lo spostamento d’aria delle automobili. I ritmi
delle relazioni sono diversi da quelli della Piazza, qui è tutto molto
silenzioso e si esaurisce in alcuni sguardi, in parole precise e gesti rapidi.
Si cammina piĂą velocemente e si guarda di sfuggita, per caso. In fondo, si
intravedono gli alti palazzi del Centro Direzionale che, per un inganno ottico,
sembrano oscillare nel vuoto.

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