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Midlestairs, le scale che portano ad altre scale
Extra pART
Esco dalla metropolitana di
piazza Dante e mi accorgo di essere in ritardo. Ci sono i soliti gruppi di
ragazzini che giocano a pallone. Uno è veramente bravo, dribbla i suoi amici
con disinvoltura e con altrettanta naturalezza si lascia cadere dopo un
contrasto, simulando le smorfie di un calciatore di serie A. Con la luce fredda
dei lampioni che taglia la piazza, l’illusione è ancora più forte e veramente
sembra di stare al San Paolo. Anche i fucili dei soldati e il mezzo pesante con
la carrozzeria mimetica sembrano proprio uguali a quelli dei videogiochi di
guerra iperrealisti.
Anche Flaviano è in ritardo e lo
aspetto scorrendo i titoli dei libri in esposizione sulle bancarelle di ferro,
un lungo segmento di pagine che parte da piazza Dante, passa sotto la
spagnoleggiante Port’Alba e arriva all’incastonatura barocca di piazza Bellini.
I libri che sto sfogliando distrattamente sembrano la cosa meno vera. Flaviano
arriva e ci avviamo a scoprire le Scale a San Potito, il luogo in cui Veronica Bisesti, Antonio Della Guardia, Fabrizio
Monsellato e Salvatore Ricci
hanno scelto di allestire “Midlestairs”. Proseguiamo per via Pessina poi
giriamo a sinistra, salendo sulla rampa che porta a San Giuseppe dei Nudi, una
chiesa settecentesca a croce greca, fondata da una confraternita di avvocati desiderosi
di avviarsi a più attività, e qui ci perdiamo. Sono diversi anni che percorro
Napoli, ma continuo a scoprire nuovi particolari.
Le Scale a San Potito non sono dove
avrebbero dovuto essere, nel punto indicato da Google Maps. Siamo solo pochi
metri al di sopra del livello della strada e Flaviano nota che la città ha già
preso una forma tutta diversa. La geometria allungata di via Foria, le grandi
architetture del Museo Archeologico e della Galleria Principe di Napoli, i
senza tetto che rifanno la loro ipotesi di letto, al riparo sotto le strutture
della Galleria. Rimane il problema di individuare le Scale a San Potito. La
chiesa di San Potito, oggi chiusa al culto, fu costruita nel Seicento e
racchiude alcuni pezzi esemplari del barocco napoletano, Madonne e Santi di
Luca Giordano e Andrea Vaccaro. A rigore di linguistica, queste Scale
dovrebbero condurre alla Chiesa, ma non ci sono. Palazzi antichi e moderni si
susseguono, ma di scalinate non c’è traccia. Poi ricordo quello che era scritto
nell’invito alla mostra: «Giunti alle scale del palazzo, abbiamo deciso di
introdurci in un posto che sembrava essere vuoto o forse che avrebbe potuto
tradire le nostre aspettative… non ci siamo sentiti delusi quando abbiamo
scoperto che non vi era palazzo: solo scale». Quindi, non si devono cercare
scale ma un palazzo che le nasconde. E così le troviamo. In realtà erano
proprio di fronte a noi.
Tutto farebbe pensare
all’ingresso di un palazzo privato, invece sono scale pubbliche. Entriamo nell’ampio
portone e scendiamo la prima rampa, nel ventre di un palazzo che non esiste se
non come luogo di transito, una sorta di progetto escheriano. Vedo Veronica Bisesti vicino al corrimano,
sul quale è bloccato uno smartphone con un paio di cuffie. Sullo schermo gira il
loop di un anello manipolato all’infinito. Questo movimento ipnotico
estraniante è scandito dal ticchettio prodotto dai movimenti automatici
dell’obiettivo per regolare il fuoco, continuamente disturbato dai riflessi
dell’anello stesso. Più giù c’è Antonio
Della Guardia e un altro telefonino, in bilico su una sottile sporgenza del
muro. Questa volta scorre il video di quattro spezzoni assemblati di
un’intervista a un economista. L’intervista non è stata ancora processata in
post produzione e il green screen sullo sfondo crea un paesaggio virtuale in
potenza, mentre le parole interrotte, i ripensamenti, le correzioni, la
pronuncia, producono una distorsione naturale, una balbuzie che si fa
linguaggio significante e codice.
Su una grata che dà sull’esterno
sono affisse le nuvole di memoria di Fabrizio
Monsellato, ritagli del pensiero in cui si animano alcuni concetti chiavi
di lettura del contemporaneo, come emozione e sincronizzazione. L’installazione
di Salvatore Ricci esiste nella
forma di due fogli di carta, due richieste di aiuto nella ricerca di un uomo
scomparso in una distorsione parallela del tempo e dello spazio, una curvatura
che presumibilmente potrebbe avvicinare due punti molto distanti, come un buco
nero o una scala. In questa operazione non c’è teatralità o egocentrismo, le
divinità della mitologia site-specific, ma un’estetica ragionata verso una
fluidità minima che è anche la peculiarità del luogo. Molte persone percorrono
le scale, alcune portano le buste della spesa o dello shopping di via Toledo. E
parte di esse non sa di star attraversando una mostra.