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Napoli-Amsterdam, via luce
Extra pART
Questo vaso di Pandora che ci
hanno appena servito ha una forma sinuosa, aggraziata, smaltata di un nero ambizioso,
da XVII Secolo d’Oro, ed emana effluvi di pesce stufato, formaggio fuso,
limone. Lo apriamo con una curiosità che la prima forchettata soddisfa in un
tripudio di sapori e consistenze. L’apparenza non ha ingannato, il consiglio di
Silvia e Diego è stato indovinato, questo ristorante olandese, appartato dal
centro di Amsterdam, si è rivelato veramente tipico, pur con tutte le riserve
nell’usare un tale aggettivo. Sicuramente, i piatti che stiamo assaggiando sono
saporiti e cucinati con ingredienti di qualità. Soffitto basso, ambienti
silenziosi, panche e sedie di legno e tessuto e, soprattutto, quella luce
soffusa che filtra dalle finestre e si adagia immobile tra chincaglierie dall’apparenza
cristallizzata, puramente fenomenica, e distribuite su ogni superficie
disponibile.
Come nel classico proustiano
della memoria, qualche sapore o impressione mi ricorda un episodio di pochi
giorni prima. Il tassista ci sta accompagnando all’aeroporto e, sfilando sulla
tangenziale di Napoli, inizia a raccontarci di quando cucinò uno spaghetto al
rancifellone, comunemente conosciuto come granchio favollo o Eriphia verrucosa.
Mentre tesse le lodi di questo suo piatto memorabile, i cui profumi dovevano
attirare gli altri condòmini, tutti incuriositi e ingolositi, sull’ampio
ballatoio del suo appartamento, tendo a distrarmi nella luce di metà mattinata
che colpisce la distesa della città metropolitana, della provincia vesuviana,
del golfo, rendendoli una materia pulsante. Terre, cementi, salsedini, sempre
lì e mai uguali, ibridi percettivi impossibili da discernere tra miriadi di
venature sovrapposte. A metà Ottocento, Giuseppe
De Nittis, tra i fondatori della Scuola di Resina, scriveva così: «…e
il mare, il gran cielo e i vasti orizzonti! Lontano le isole di Ischia e di
Procida; Sorrento e Castellammare in una nebbia rosea che a poco a poco veniva
dissolta dal sole…a volte, felice, restavo sotto gli improvvisi acquazzoni.
Perché credetemi io l’atmosfera la conosco bene; e l’ho dipinta tante volte.
Conosco tutti i segreti dell’aria e del cielo…». La Scuola di Resina, molto
vicina a quella dei Macchiaioli, cronologicamente contemporanea, tentava di
rendere l’imprevedibile atmosfera del visibile, giocando con riflessi di biacca
argentata, pigmenti rosso fuoco e brusche variazioni di tonalità, nascondendo
forme dai contorni sfumati nella coincidenza tra screziature e chiaroscuri. In
quella idea rappresentativa, i dettagli di oggetti, paesaggi e tratti somatici,
si perdono tra ritagli di una luce polverizzata, dinamica, che avanza e
indietreggia incessantemente, non trovando un momento di stabilità,
mimetizzandosi con le ombre, rendendosi difficile da riconoscere.
Ad Amsterdam, il cono bianco dei
faretti ben calibrati si estende sulla facciata degli edifici di Leidseplein. I
lampeggianti dei veicoli di pubblica utilità, polizia e nettezza urbana,
mantengono un’intensità costante che si insinua nelle sfumature del primo pomeriggio
olandese. Ma è negli ambienti interni che la luce raggiunge una quieta
perfezione. Fredda e pulita, attraversa le ampie finestre, raramente schermate
da persiane o tende, e fa risaltare dolcemente la linea di contorno degli
oggetti, la grana dei tessuti, fino alle particelle polimeriche che li
compongono, lasciando affiorare qualcosa di laterale rispetto alla ieraticità
dell’icona religiosa tanto comune alle nostre latitudini. La dimensione del
sacro, disegnata da questa luminosità, non è tanto la misura intima degli
ambienti domestici, degli arredi e dei gesti privati, ma qualcos’altro di
segreto che si nasconde tra i diversi gradi di profondità della materia. Questa
discesa nel microcosmo della composizione fisica, dove il movimento e l’immobilità
coincidono, avvicina tanto la calibrata combinazione di leggerezza e precisione
della Lattaia di Vermeer, quanto «la
nitidezza, la certezza, la precisione, l’equità, la rettilinearità, la velocità,
che si identificano con la quiete e soprattutto con la verità»,
di Piet Mondrian. Entrambi – e altri
insieme a loro – lessero la proporzione di quella luce, interpretandola come un
arabesco d’atomi.
Attraversiamo Vondelpark, le luci
in lontananza scivolano tra i rami, si disperdono sul piano appena increspato
dei laghetti artificiali. Lo Stedeleijk è lì nei pressi, la sua architettura
sospesa sulle ampie vetrate del piano terra. Il 2017 è l’anno dei centenari e al
museo ricordano il secolo di De Stijl e della Rivoluzione Russa. La mostra
dedicata a De Stijl soffre per il
suo stesso nome e per l’enorme storia alle spalle. Il tema è il rapporto tra il
movimento artistico e le opere in collezione permanente, un argomento
interessante e complesso che avrebbe richiesto un approfondimento e, invece, si
legge appena, tra le poche opere ma confuse e allestite secondo un percorso non
sempre leggibile, che si snoda in sei, piccole sale.
Più sgargianti dei pezzi di Isa
Genzken e di Theo van Doesburg messi in dialogo, ritroviamo i poster e le
grafiche della propaganda bolscevica, la cui derivazione di primo novecento è
ricordata solo dal rigoroso bianco e nero di alcune proiezioni. Tra i film industrial
di Dziga Vertov e i manifesti iconici di Gustav Klutsis, il moderno grafico ha tutto da imparare, in quanto a
font, concept, moodboard e storytelling. Marx, Engels, Lenin e Stalin
potrebbero posare su una rivista hipster, mentre le fabbriche del Donbass non
sembrano poi troppo dissimili da uno studio di un Kiefer.
Al piano di sopra, un forte
rumore di ingranaggi arrugginiti in movimento ci guida verso la grande retrospettiva
di Jean Tinguely, la più grande mai
allestita in un museo olandese. Ma entriamo dal lato sbagliato. Iniziamo il
percorso dalla fine, dal pezzo forte, da Mengele
Totentanz, la Danza Macabra Mengele, che il maestro del Nouveau Réalisme
orchestrò ricomponendo i residui recuperati da una casa incendiata da un
fulmine. Decine di esseri tendono verso qualcosa, caccia o processione non fa
differenza, i loro gesti ritraggono la bozza di un atto eternamente incompiuto.
Le luci fioche dell’allestimento attraversano i corpi, che sono fragili
nonostante l’anima di ferro, le ombre acuminate volteggiano e prolungano, nella
nitida atmosfera museale, un movimento grottesco, claudicante.