Spero non abbiate riposto negli
scatoloni gli addobbi e che tutti i pastori siano rimasti ben saldi ai loro
posti. Perché Natale non è ancora finito e a dare il colpo di coda, sarà
Sant’Antonio. La chiusura ufficiale delle festività natalizie spetta al santo
che, un po’ Prometeo un po’ Arsène Lupin, rubò il fuoco al demonio per scaldare
i poveri. Il 17 gennaio, giorno in cui si celebra il Santo, nei quartieri di
molte città risplendevano altissimi falò ma, ormai da qualche tempo, la
tradizione si è persa.
A Napoli, a portare avanti la
memoria, sono i ragazzini dei Quartieri Spagnoli che, come ogni anno,
perlustrano il centro della città alla ricerca di alberi di Natale, il
combustibile più adatto, anche per la relativa facilità nel reperimento. Ma,
questa volta, non saranno i soli, perché sul lungomare, in prossimità del
Nalbero (ne parlo qui),
si accenderà un altro falò che sembra promettere scintille. Come si legge in
una nota diffusa alla stampa, tra «giocolieri di bolas, mangiafuoco, band di
musiche popolari», un acrobata, lanciandosi con una torcia da un cavo teso a
quota 31 metri del Nalbero, accenderà la pira posizionata sulla spiaggia,
formata da materiale infiammabile di origine vegetale e alberelli di natale
secchi donati dai cittadini. Manca solo qualche animale esotico, meglio se di
stazza più larga possibile, ma non sono da escludere soprese dell’ultimo
minuto. La tradizione si riprende con più sobrietà nei Comuni più piccoli e
lungo tutta la penisola, da Magenta, in Lombardia, alla Barbagia, in Sardegna,
dove compaiono anche le maschere dei Mamuthones e dagli Issohadores. A
Campagna, in provincia di Salerno, la cerimonia del fuoco è particolarmente
sentita e i “fucanoli” illuminano tutte le strade, montati anche su portali e
facciate di edifici. In questi ambiti, il rito continua a svolgere una significativa
funzione relazionale e cronologica, il fuoco, primordiale occasione di incontro
e di scambio, cancellerà le tracce di ciò che è passato, liberando il tempo
trascorso verso un nuovo inizio. L’iconografia del fondatore del monachesimo,
nato in Egitto nel 251 e morto a 105 anni coltivando un orticello nel deserto
della Tebaide, è intimamente legata a tale elemento naturale e per precisi motivi
storici, perché nei monasteri dell’Ordine dei Canonici Ospedalieri Antoniani
trovavano riparo i malati di ergotismo, conosciuto nel Medioevo con il nome di fuoco
sacro o male degli ardenti.
Così, i ragazzini dei quartieri
lavorano duramente per preparare il cippo, per fare in modo che nel giorno del suo
onomastico tutto sia pronto. I giovanissimi si dividono in gruppi, ispezionando
cortili e palazzi, contrattando con negozianti e bussando ai citofoni, trascinando
tronchi anche enormi, quasi mai con il consenso del proprietario, per le strade
affollate di turisti esterrefatti. Sul Corriere del Mezzogiorno, sul Mattino,
sulla Repubblica, sono «teppisti», «nemici della città», «vandali», nei titoli
non si risparmiano mezzi termini, epigoni della violenza urbana macchiano il
volto della città della villeggiatura, addobbata per le feste. Rituale di
passaggio e di condivisione, percorso di conoscenza del sé e di riconoscimento
nel gruppo, metodo di mappatura dello spazio, le definizioni potrebbero essere
amplissime e coinvolgere ambiti diversi, rischiando di rimanere solo sulla
superficie di un fenomeno radicato nel luogo, permeabile e al tempo stesso
sfuggente a ogni tipo di ingerenza e interpretazione. Per dare voce a questa
storia che ha dell’incredibile, Cyop&Kaf realizzarono, nel 2013, “Il Segreto”,
documentario che, negli ultimi anni, ha fatto incetta di premi e menzioni, dal Pravo
Ljudski Film Festival di Sarajevo allo Sciacca Film Festival e tra i finalisti
del David di Donatello.
Ammucchiati in uno slargo
ricavato dalle macerie di un palazzo demolito, un luogo misterioso in cui
custodire un segreto prezioso, gli alberi ormai secchi bruciano velocemente, non
tutte le persone affacciate ai balconi danno cenno di gradire ma tutto appare
come un’evidenza ciclica, una mitologia che ritorna e oltrepassa il senso della
storia, per narrare un’altra definizione del mondo. Nel documentario, vediamo i
ragazzini respirare le spirali di cenere che consumano l’aria, le mani
finalmente riscaldate, gli occhi arrossati per le lingue di fuoco che si
dilatano e restringono seguendo ritmi imprevedibili, solleticando gli edifici troppo
vicini.
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