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Postmoderno è il linguaggio dell’automobile
Extra pART
Prima i Duran Duran, con Save a Prayer. Già mi sembra che le
linee della mia Panda si stiano facendo più spigolose. Poi Phil Collins, con Another Day in Paradise. E via, un colpo
ottagonale di gomma Pelikan cancella le morbide bombature del design
automobilistico del nuovo millennio, si torna agli angoli che si incrociano. Questa
heavy rotation su una stazione radio locale sta confondendo le mie coordinate
temporali, già messe a dura prova cognitiva in questi giorni. Sto andando al Museo
di Capodimonte per parlare di Postmoderno e, per prepararmi adeguatamente, non
ho potuto fare a meno di immergermi negli anni ’80, decade in cui affiorarono
quei fenomeni sociali e culturali che Jean-François Lyotard aveva descritto
nella sua Condizione Postmoderna del
1979. Non mi riferisco solo alle spalline e ai ciuffi voluminosi ma anche alle
trasformazioni subite dalle regole della scienza, della letteratura e delle
arti in quelle società che, all’alba degli anni ’80, lasciata ormai alle spalle
l’impresa della ricostruzione bellica, stavano procedendo speditamente nella
formazione di schemi percettivi adatti al nuovo mondo postindustriale. Marco mi
aspetta sul ciglio della strada, cappotto lungo e nero, grandi lenti
rettangolari e affumicate. Nello specchietto retrovisore vedo il collo della
mia camicia sempre più alto e rigido. Accosto e approfitto ancora dello
specchietto per notare, con un certo stupore, qualcuno di diverso da me che sta
guidando la mia automobile. Non ricordavo di voler assomigliare così tanto a
Dave Gahan. Siamo nel sogno di una persona che si è addormentata alle 23.59 del
31 dicembre 1989?
Distante dalla vaghezza onirica, Lyotard
descrive un paesaggio nel quale tutto torna, seguendo una coerenza sempre
latente tra le profondità delle connessioni, ogni elemento procede dall’altro
in un gioco di incastri che, quando non sono perfetti, creano sovrapposizioni e
sconfinamenti, esattamente quei termini chiave del postmoderno. Succedeva che la
società iniziava ad autorappresentarsi come una massa estesa su scala transcontinentale
e composta da atomi lanciati in un assurdo movimento fluido, solo vagamente
casuale. Le frontiere di ogni ambito vengono soppresse, i codici possono essere
letti con l’identico alfabeto interpretativo da un lato all’altro di questa Pangea
postindustriale, la cultura alta appare come un ultimo retaggio oscurantista,
la relazione è la sola dimensione possibile e auspicabile, diventata più totalizzante
dell’ideologia e della religione. Sullo sfondo, la presenza ossessiva del
linguaggio, unica misura di tale dimensione e oggetto di studio di ogni
declinazione del sapere, dalla cibernetica, con l’elaborazione del codice
macchina, alla fonologia, con lo studio del sistema di scambi tra fonemi, fino alla
grafica pubblicitaria, con le sperimentazioni analogiche e digitali di font e
typeface. Adesso mi sembra ovvio, a un certo punto, qualcosa deve essere
sfuggito al controllo. Evase dai limiti tracciati dagli specialisti, saltando a
piè pari i rigorosi steccati delle ricerche, le parole hanno raggiunto il mondo
aperto e il nostro tempo, in cui gli eroi hanno lasciato il posto ai poeti,
andando, predicando e moltiplicandosi. Raggiungendo una precisione che in certi
casi è sconcertante, soprattutto se rapportata all’estrema incertezza di altri
episodi. Questa distanza tra i due estremi, l’ho sperimentata a mie spese, in
due precise situazioni, comodamente seduto in automobile che è un po’ il luogo
della maieutica.
La prima. Ascoltare le pubblicità
automobilistiche in automobile potrebbe suonare come una situazione spaesante,
un’ambientazione ricorsiva alla Escher, una sorta di effetto droste della
metallurgia, sinestesia tra la pesantezza dei materiali assemblati e l’effimero
delle parole via etere. La pubblicità della BMW punta essenzialmente sul
concetto di ambizione, il possessore di qualunque modello di BMW è un individuo
che, avendo sempre presente l’obiettivo finale, affronta con decisione i bivi
imposti da un’esperienza quotidiana caratterizzata da un vago sentore di
straordinarietà tranquillizzante. Non potendo contare su alcun elemento visivo,
tranne quello concreto, animato, indipendente che circonda l’ascoltatore, per
altro probabilmente già seduto in un’automobile, i termini vengono calibrati
sull’obiettivo con una precisione millimetrica, assecondando un ritmo in
crescendo, con una serie di “ho fatto le mie scelte” e “avrei potuto”, al contrario
di quelli adoperati per i commercials da schermo, allusivi e a tratti
distraenti. “Ambizione” è usato solo una volta, quasi messo lì per caso, come
l’arma del delitto in un giallo magistralmente orchestrato. «La
nuova BMW invita a non aspettare che sia la vita a succedere, ma ad agire
subito, in prima persona. Perché la vita è azione, non reazione» è il
concept dichiarato dalla casa automobilistica. Il logo FIAT sul volante prima
si offusca, poi scompare, rimpiazzato dall’immagine ad alta definizione del
logo dei bavaresi. L’attenzione si sposta dall’individuo ambizioso all’oggetto
simbolo, causa ed effetto dell’ambizione, con una delicatezza terminologica che
sembra sfumatura e invece è un netto segmento semantico che inequivocabilmente
unisce il punto A, la partenza, al punto B, la meta. Con un’esattezza
enciclopedica che farebbe commuovere anche Denis Diderot e Jean-Baptiste
d’Alembert, i pubblicitari hanno scritto un testo che non lascia spazio
all’immaginazione e all’errore, la BMW è lì, davanti a te, anzi, le parole sono
talmente pertinenti, la struttura ordita dalla loro interazione e dalle
velocissime interpunzioni è così serrata, che non capisci come mai non ti sei
accorto prima di esserci proprio seduto dentro, con tanto di cambio automatico
a otto rapporti e park assistant. Per convincere della qualità di un’auto
esclusivamente attraverso il dire e l’ascoltare, in una pubblicità radiofonica,
non si può indulgere nell’interpretazione, le frasi devono significare solo quella
cosa, in effetti, l’oralità è l’ambito della parola pura, presente solo a se
stessa.
Il linguaggio, però, quasi mai
significa in modo così netto e definire i termini caratterizzanti di alcuni
ambiti dell’esperienza e della conoscenza è diventato un affare cruciale. Una
delle questioni più delicate riguarda il genere che, soprattutto nella
diramazione politica, può essere annoverato tra i settori maggiormente coinvolti
nelle trasformazioni delle società postindustriali. Senza dubbio, è da imputare
a una certa consuetudine patriarcale se l’intonazione di termini come “sindaca”
e “assessora” può suonare cacofonica. Ma, proprio nel caso in questione, il
problema potrebbe essere ben più profondo di una desinenza e riguarda
l’obsolescenza delle parole e dei concetti che esse esprimono. Nella storia dell’arte,
il termine “Avanguardia” designa un approccio alle modalità del fare e del
pensare tipicamente riferito a una situazione storica, allo stesso modo di
“Fabbrica”, “Bottega”, “Scuola”, “Movimento”. Già da qualche decennio, i
movimenti artistici delimitabili in vocabolario sono scomparsi, per lasciare il
posto a un unico movimento non inquadrabile in una definizione, composto da
infiniti esiti trasversali, in continua ricerca di assestamenti e ibridazioni.
Dare un nome a questa situazione forse vorrebbe significare fraintenderla,
anche se Postmoderno mi sembra abbastanza comprensivo. Oppure questa è solo una
scusa di comodo perché non ne siamo ancora in grado e lo faranno, per noi, gli
storici dell’arte del domani, a mente lucida e fredda.
È comunque la politica a soffrire il
logoramento del linguaggio più di ogni altro settore e se i suoi stessi
paradigmi fondativi, come “Democrazia”, “Partito”, “Parlamento”, sembrano
sempre più opachi, estrusi tanto dalla realtà quanto dalla post verità,
figuriamoci i termini derivati, riferiti alle persone e non ai concetti
generali, come “assessora/e”, “sindaca/o”. Parole e idee difficili da capire soprattutto
per le giovanissime generazioni, ormai distanti anni luce dall’estetica del
Muro e cooptate dai testi “Cantati” – sarà il termine giusto per definire la
loro azione di emissione vocale? – da Fabio Rovazzi e Fedez, quelli sì,
mirabilmente incentrati sul contemporaneo. Una metropoli contemporanea, diffusa
e liquida come la società che plasma e dalla quale è plasmata, può essere
“Governata” da “un/a” “Sindaco/a”? Breve nota etimologica: il termine deriva
dal greco “sundikos”, cioè quella figura di ufficiale pubblico, istituita dopo
l’espulsione dei Trenta Tiranni e il ritorno della democrazia ad Atene,
incaricata di rivedere i conti, giudicare sopra i beni confiscati ai cittadini
e far rispettare le leggi.
La seconda. Tornando a casa, di sera
tardi, dopo una stancante ma rilassante partita di calcio. Radio appena di
sottofondo, finestrini abbassati quel poco, giusto per far entrare un pacato
accenno di esterno. Traffico nullo. Anzi no, prima di vedere nello specchietto
retrovisore la lunga fila di auto, non mi ero nemmeno accorto della 500L bianca
che, davanti a me, procede cum lento pede. Piuttosto inusuale per un patentato
napoletano. Gli autisti sono sempre più tesi, li immagino stringere il volante
con le dita progressivamente rosse, bianche, cianotiche. Anche le lamiere si
adattano a questa conformazione dello spirito e assumono un atteggiamento
predatorio frustrato dalla carreggiata troppo stretta per qualunque sorpasso
minimamente azzardabile. Divertito da questa situazione, indovinando i pensieri
degli altri automobilisti, che staranno tutti questionando sull’applicabilità
del famigerato luogo comune, tento di capire il genere dell’autista della 500L.
Inizio anche a immaginare i termini con
i quali avrei potuto descrivere questa situazione e mi rendo conto della
difficoltà nell’impresa di scegliere la giusta sintassi per rimanere fedele
alla realtà dei fatti, evitando di ripetere la retorica un po’ stantia della
poca attitudine femminile alla guida.
Comunque, a causa del lunotto troppo
stretto, non riesco a capire se sia un autista o un’autista ma, con la coda
dell’occhio interiore, quel sesto senso abituato alle strade partenopee, mi
rendo conto dell’incedere temerario di un motorino. Un ragazzo e le sue pizze
da consegnare. Si piega in posizione aerodinamica sul manubrio di uno Scarabeo
che deve aver visto tempi migliori ma sembra affidabile e sicuramente lo è. Le
braccia si aprono con i gomiti alti verso l’esterno, proseguendo direttamente
dalle manopole come un unico essere ibrido di gasolio e farina. La lunga fila
di automobili cede rispettosamente il passo, porgendo numerosi cenni di
ammirazione e approvazione conditi con un pizzico di invidia. Quando mi sorpassa,
gli auguro buona fortuna e gli servirà tutta, per evitare magistralmente una
sbandata della 500L, improvvisa e illogica ma poi nemmeno troppo, vista la situazione.
Anche questa sera, una famiglia avrà le sue pizze ma la sfida per immaginare
altri lessici, non solo quelli di genere, in grado di reggere il confronto con
il tempo, rimane ancora apertissima.