La città si distende in una successione silenziosa di
geometrie piane. Non più terreno poroso della metropoli ma superficie liscia e
percorsa da poligoni irregolari che si intersecano, Napoli sembra immobile,
svuotata delle sue relazioni e delle sue storie. Poi entriamo in un fitto banco
di nuvole, non si vede più nulla tranne un grigio sporco di pioggia e l’aereo
sobbalza e scricchiola. Metà dei passeggeri sorride nervosamente, l’altra metà
trattiene il fiato. Una ragazza, alla mia destra, fa esercizi di respirazione
seguendo la pratica Qi Gong, un signore con un foulard colorato, alla mia
sinistra, appoggia comodamente la testa alla poltrona e simula i singhiozzi del
velivolo con un movimento oscillatorio delle mani. Io fisso la copertina
dell’Espresso che ho comprato all’edicola dell’aeroporto.
I caratteri bianchi di “Sparanapoli” si stagliano su
una foto di Mario Spada che ritrae tre ragazzi su un terrazzo.
Lo sfondo è quello riconoscibile del centro storico, dei decumani, le vie delle
pizzerie storiche, dei pastori del presepe, delle chiese barocche, dei balconi
con i panni stesi. I tre guardano dritto nell’obiettivo, gli occhi sono fessure
ancora più scure dei passamontagna neri che coprono i volti. Compaiono anche
due pistole, maneggiate con una certa indifferenza. Si parla di baby-gang,
delle «paranze dei bimbi», le nuove leve di una camorra caotica, senza boss,
che non controlla e agita il centro storico.
Il fotografo napoletano, nato nel 1971, ha realizzato
diversi reportage sulla sua città natale. Tra il servizio sui cani da
combattimento, quello sulla vita e la morte tra le Vele di Scampia, e le
fotografie di scena di Gomorra, c’è una consequenzialità organica. Le sue foto
sono sempre in bianco e nero, giocano su un bilanciamento tra saturazione,
evocazione del reale e linguaggio estetico, sull’equilibrio tra i contrasti,
proprio come la realtà che vogliono rappresentare, quel paradiso abitato da
diavoli, come da definizione burlesca medievale, acutamente ripresa da
Benedetto Croce. Le immagini dell’ultimo reportage per l’Espresso sono
oggettivamente affascinanti e il fatto che lo siano è una questione, visto che
nell’articolo di Emiliano Fittipaldi, anche lui napoletano e coetaneo di Spada,
si parla di «carneficine», «proiettili vaganti» e «far west» tra «palazzi
fatiscenti» e «sangue che continua a scorrere», e questi termini non sono usati
per recensire un film d’azione. I ragazzi killer sono consapevoli di essere i
protagonisti del momento e, com’è naturale, fanno di tutto per rivestire questo
ruolo per un tempo che sia, se non esteso, almeno intenso.
Questi killer a sangue caldo, volubili adolescenti amanti
degli smartphone, degli abiti griffati e delle pistole semiautomatiche o a
tamburo, vogliono raccontare se stessi, comunicare la propria vita al limite e
i propri sogni violenti a un pubblico il più vasto possibile, entrando
nell’ambiguo canale della notizia. Gli atteggiamenti sono pose da social
network, adattate su scenografie di un quotidiano diventato oggetto di una
comunicazione sfaccettata. Tra le parole e le immagini si instaura un legame
denso, due universi di segni che implodono in un unico codice spettacolare.
Muri sbrecciati, mensole che non reggono nulla, sedie e tavoli impolverati e
posizionati sotto crocifissi imponenti, mani ben strette sulle pistole, occhi
che osservano zone al di fuori dello spazio della rappresentazione.
I giovani killer descrivono tatuaggi, rapporti e attività
illecite in modo sommario, puntando più sullo stile che sull’informazione, «noi
non abbiamo paura di niente, nemmeno di morire», «le pistole ci servono per
difendere il territorio dai nemici». Non ci sono domande, non ci sono momenti
di dubbio o di crisi, non c’è distacco tra chi parla, chi scrive e chi legge.
Le voci riportate dei giovani non occupano molto spazio e Fittipaldi riassume e
integra con alcuni riferimenti generici, una «disoccupazione giovanile al 70%»,
un «degrado sociale, culturale ed economico», un «welfare che non
funziona», qualche richiamo a uno Stato impersonale che, in qualche momento
storico oppure in un adesso non identificato, ha fallito. In chiusura, invece,
la precisa, tipica frase gergale «mi deve morire mammà», una formula
popolare di giuramento, tradotta quel tanto che basta per far capire qualcosa a
tutti ma lasciando l’inclinazione folcloristica che determina una lingua sempre
uguale a se stessa, tipica del luogo. La video inchiesta di Duccio Giordano,
visibile sul sito de L’Espresso, completa la serie “Sparanapoli”. Il
servizio parte con un suggestivo audio di folate di vento, poi la voce camuffata,
cupamente gracchiante, di un membro di una gang, ascoltato in una camera
dall’atmosfera lugubre e malsana. Sul muro alle spalle dell’uomo, sono appesi,
in ordine incerto di importanza, un ferro di cavallo, una foto di Tony Montana
e un’immagine della Madonna.
L’editoriale del direttore Luigi Vicinanza interpreta il
contenuto del reportage, spostando il peso della rappresentazione dalla camera
fotografica alla realtà, dalle parole alle cose, dall’artefice alla persona:
«Sembrano usciti dal backstage di Gomorra, la serie tv. E appare sempre più
difficile capire quanto la finzione televisiva influenzi la realtà o
viceversa». La questione, però, non è capire chi viene prima, tra la realtà e
la finzione, due ambiti che hanno sempre delineato campi di ingerenze
ipotetiche. Il nocciolo è il disorientamento tra gli ambiti del racconto di un
evento e della trasmissione di informazioni, la sovrapposizione tra i canali
della comunicazione, l’interferenza che le estetiche modellabili immettono nei
processi di conoscenza. Un argomento che coinvolge la cronaca nera e la storia
dell’arte, il romanzo e l’inchiesta, portando verso narrazioni, per il momento,
senza definizione e senza destinatari in grado di decifrarle.
L’aereo ha raggiunto la sua quota di crociera e viaggia
placidamente al di sopra di un mare compatto di nuvole che nasconde la città.
Posso immaginare che il mondo continui la sua ordinaria esistenza forse reale e
fatta di contrasti, oltre questa membrana grigia, sconfinata e composta da
particelle d’acqua, un elemento minuscolo che si riproduce in masse spesse di
apparenza. La ragazza ha finito gli esercizi rilassanti di respirazione e legge
da un ebook reader, l’uomo con il foulard colorato, che si è presentato come un
pilota in pensione, mi sta elencando tutti i luoghi da visitare assolutamente,
una volta sceso a Budapest.
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