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Un caffè sospeso tra astrattismo e funzionalità

di - 23 Gennaio 2017

L’ho sempre negato fermamente ma
è venuto il momento di prendersi le proprie responsabilità. La manualità non è
il mio forte. Certo, ho avuto alcune occasioni di riscatto, come quando riuscii
a disintasare le tubature del lavandino della cucina – ricordo ancora
l’emozione nel non dover ricorrere all’idraulico – ma, in linea di massima,
ammetto che nell’eterna disfida tra l’astrattismo e la funzionalità, tendo
verso il primo termine. Queste due parole, segnate su un foglio bianco, isolate
da qualunque contesto, sembrano essere destinate a generare campi di forze
opposte, come le coppie storiche, tipo apollineo e dionisiaco, eros e tanatos,
l’introverso e l’estroverso, Sandra e Raimondo. Eppure, a parte le attitudini
personali alle riparazioni domestiche, l’astrattismo e la funzionalità, come
categoria delle cose, non sono poi lontani, una zona di congiunzione c’è e si
estende dall’oggetto quotidiano all’opera straordinaria.

Proprio qualche giorno fa, ho
preparato una conferenza il cui titolo era “Astrattismo e Funzionalità”, un
argomento con il quale ci si confronta, letteralmente, in ogni momento della
giornata, anche quando si esclama “ma che bel cane!” e tutti capiscono il
messaggio, interpretando correttamente il riferimento proprio a quel
particolare tipo di mammifero, di cui la parola “cane” è icona, volendo metterne
in evidenza la piacevolezza visiva, tattile o caratteriale. Qualunque tipo di
linguaggio è teso a estrarre un codice in grado di rendere comunicabile un
determinato concetto e, per l’arte visiva, astrazione e funzionalità sono due categorie
fondative, due vettori che, con i loro equilibri e squilibri, delineano i
paradigmi espressivi di uno stile, di un metodo, di un rapporto con il mondo
delle cose e delle idee. Elementi di astrazione e di funzionalità sono presenti
nei canoni anatomici della statuaria greca, nella teoria delle misure di Albrecht Dürer, nella corrispondenza
tra ricchezza formale ed esattezza teologica della cattedrale di Saint Denis,
nella disposizione tipografica delle parole nei manifesti delle Avanguardie,
nella progettualità visionaria e comodissima delle sedie, dalla Sedia Rossa e Blu di Gerrit Rietveld, una «scultura
astratta-realistica per gli interni delle nostre case future» secondo Theo Van Doesburg, alla Sedia Vassily di Marcel Breuer, «la prima, grande vittoria del disegno industriale»
scriveva Giulio Carlo Argan.

Continuando a giocare sul
bilanciamento tra i due estremi, fu proprio il Bauhaus a trovare, o ritrovare,
un perfetto punto di equilibrio, elaborando una metodologia della percorribilità,
dell’attraversabilità, immaginando un nuovo spazio simmetrico tra
rappresentazione e dimensioni, istituendo l’estetica del gesto quotidiano. Devo
aggiungere che la conferenza era ospitata nel luogo più adatto, cioè a Castel
Sant’Elmo, un monumento dall’incredibile potenza formale, che rappresenta
perfettamente la congruenza tra la funzionalità strategica dell’architettura
militare e l’astrazione simbolica del potere come manifestazione di controllo e
protezione.

Astrattismo e funzionalità sono
categorie usatissime nella costruzione scenografica, Stanley Kubrick docet. Portate al massimo grado espressivo, descrivono
contesti diametralmente opposti, all’inizio e alla fine di 2001 Odissea nello Spazio. Nelle sequenze in cui l’astronauta
Bowman percorre i corridoi della Discovery One, tutto lo spazio, pur esteticamente
impeccabile, è articolato su una scala di misura compilabile. È la prima parte
del film, in cui deve emergere la narrazione dell’ordine funzionale dell’uomo
di scienza che razionalizza la conoscenza del mondo. Invece, nella seconda
parte, la celebre progressione di colori dello Star Gate, con le scie di colori
che si sovrappongono in un paesaggio fluido che ricorda le montagne di Ernst Kirchner, apre un paesaggio in
cui Bowman compie il suo viaggio al centro dell’universo o al centro di se
stesso, allontanandosi o forse avvicinandosi quanto più possibile al nucleo
sconosciuto dell’universo e della vita.

Ma non sono necessarie esperienze
liminali, proprio stamattina ho avuto l’ennesima prova dell’intima connessione
tra astrazione e funzionalità.  Da quando
Flaviano mi ha consigliato di usarla, non posso più farne a meno. È la
macchinetta tradizionale del caffè, detta anche “napoletana” nel resto del
mondo tranne che a Napoli, dove è affettuosamente chiamata “cuccumella”. In
realtà fu inventata da un geniale francese, tal Morize, nei primi anni del XIX
Secolo, stanco di dover sorbire le bevande in infusione insieme ai residui di
polvere. A vederla, sembra che ci sia qualquadra che non cosa, due impugnature
che puntano l’una contro l’altra, un beccuccio strettissimo e orientato a
dispetto di qualunque legge per il momento conosciuta della fisica. Al primo
impatto, non il massimo della funzionalità, eppure, basta cambiare il punto di
vista, ribaltarlo, e tutto acquista un senso. Quando l’acqua inizia a bollire
nel contenitore inferiore, la macchinetta si può levare dalla fiamma ma il
caffè non è ancora pronto. A fuoco spento, la cuccumella si deve capovolgere
con un movimento rapido, tenendola ben salda per entrambi i manici. L’acqua,
quando entra in contatto con la polvere per renderne solubili le sostanze, non ha
raggiunto una temperatura troppo elevata, anzi, tende ad abbassarsi
gradualmente, evitando di estrarre alcune componenti aromatiche indesiderabili.

Si aspettano cinque, anche dieci
minuti se necessario, poi la parte inferiore, che adesso è sopra, si può svitare
e il caffè, caduto goccia a goccia nell’altro contenitore, si può comodamente versare
dal beccuccio, finalmente rivolto verso la giusta direzione. La forma apparentemente
casuale non lascia, però, niente al caso, come ci ha spiegato Edoardo De Filippo che, nel memorabile
sketch del balcone contenuto in “Questi fantasmi”, descrive tutto il procedimento,
compendiando la poeticità del tempo dell’attesa con la gestualità meticolosa della
preparazione. Così, anche nella macchinetta napoletana, in un oggetto d’uso
quotidiano, l’astrazione e la funzionalità sono due categorie che puntano verso
un unico risultato, un buon caffè.

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