Le lunghe panche longitudinali di
similpelle nera e consumata, fissate su una solida piattaforma di ferro grigio,
sono occupate da poche persone che guardano curiose dai finestrini della
vettura e, di tanto in tanto, sobbalzano e scattano foto. Il tram 2 segue tutta
la riva est del Danubio, quella che lambisce Pest, la parte commerciale e
industriale della capitale ungherese. Dalla parte opposta si vede il Castello
di Buda, ripidamente dominante dalla collina, nonostante l’architettura, più
volte rimaneggiata nel corso dei secoli, rimandi più alla rappresentanza
sfarzosa del palazzo imperiale neobarocco che alla ruvidità austera del
castello medievale. La nostra destinazione è il Ludwig Kortárs Művészeti
Museum, il museo di arte contemporanea voluto dai famosissimi collezionisti e
imprenditori Irene e Peter Ludwig che, nel 1989, donarono quasi cento opere
della loro ricchissima collezione.
Il percorso è dolce e storico,
nel vagone si respira una malinconica funzionalità sovietica con qualche
venatura turistica, non ci sono orpelli, schermi, telecamere e pubblicità ma le
sedute sono ampie e comode. A una fermata salgono alcuni anziani ungheresi, sui
lori vestiti dalla foggia elegante e antiquata risalta una coccarda animata dai
colori nazionali. Oggi è il 15 marzo, giorno di festa nazionale in cui si
commemora l’inizio della Rivoluzione del 1848 contro la Monarchia Asburgica. La
Monarchia, aiutata dall’Impero Russo, riuscì a ristabilire l’equilibrio della
Restaurazione dopo un anno di sanguinosi conflitti, culminati nell’impiccagione
di 400 politici e militari ungheresi. Il tram prosegue la corsa sul suo confine
sferragliante e, dalla strada affollata, sentiamo salire alcune rime
incomprensibili e brutali, cori da stadio cantati da gruppi di giovani
nazionalisti vestiti di un nero che non sfina affatto. Sventolano bandiere e
lattine di birra, cantano, ridono, presumibilmente ricordando la gloria e i
sacrifici di tempi che non hanno potuto vivere. I ponti che uniscono le due
rive si susseguono insieme alle innumerevoli insegne di bar e birrerie. Molti
locali hanno disposto file di tavolini rotondi all’esterno, a pochi metri
dall’argine del fiume, per gli avventori che vogliono assaporare le sensazioni
del cibo speziato e del Danubio melmoso e imponente.
Il paesaggio cambia
improvvisamente, ritmato da accenti di una periferia terziaria che vuole
dimostrarsi all’avanguardia, simulando un’affinità di funzioni con altri
luoghi. Luciana e io continuiamo il tragitto fino al capolinea. Sulla banchina
ci sono sparuti gruppi di giovani che compiranno il percorso inverso, diretti
al centro città. Per arrivare all’unico museo ungherese dedicato all’arte contemporanea
facciamo una breve passeggiata, che avvalora l’impressione avuta dal tram: i
palazzi sono moderni, in vetro, alti, le geometrie trasparenti e sterilmente reiterate
mostrano, a loro volta, una ripetizione monodica di uffici e arredi, angoli
finti che si trovano ugualmente brutti in tutte le città del mondo. La
collezione del Ludwig Museum, prima ospitata al Palazzo Reale, dal 2005 è
visitabile all’ultimo piano del Palazzo Delle Arti, un imponente edificio che
affaccia sul Danubio, all’interno del complesso del Millennium City Center, e
di cui, già dalle scansioni esterne, si intuisce la polifunzionalità da
auditorium, teatro e concert hall. L’ingresso è largo e basso, incassato nella
facciata massiccia. Dentro, il caldo intenso e gli spazi ampi invitano a
rilassarsi. Intorno alla struttura limpida che delimita il bookshop ci sono
molti tavoli occupati da ragazzi che parlano fittamente oppure si concentrano davanti
agli schermi dei computer. Noi non abbiamo molto tempo e le cose da vedere sono
molte, quindi saliamo di filato all’ultimo piano.
Le opere della permanente seguono
un’impostazione in cui la storiografia è un segno dominante, i riferimenti ai
fatti politici saturano il luogo e le interpretazioni, gli autori sono per lo
più magiari e dell’area dell’Est Europa. Alla fine degli anni ’80, quando i
coniugi Ludwig scelsero Budapest per ospitare una parte della loro enorme
collezione, in Ungheria si stava concretizzando, gradualmente e con cautela, la
transizione verso le democrazie parlamentari di tipo occidentale. Prima, gli
artisti erano membri della Mûvészeti Alap, il Fondo Arte, una catena di
gallerie gestite dal governo, che era anche l’acquirente principale. In quella
decade di liberalizzazioni aprirono le prime gallerie private di arte
contemporanea, come la Rabinex, che chiuse dopo pochi anni, o la Knoll, ancora
attivissima, mentre i giovani artisti ungheresi si spostavano attraverso
l’Europa, con tappa obbligata nell’Italia della Transavanguardia, per tornare
in patria carichi di nuovi motivi. Per questi artisti, gli eventi storici sono
stati una fonte di ispirazione tutt’altro che latente e anche i più giovani
sembrano risentire di tale background. Nei fasci intermittenti di neon blu
intrecciati, si riconosce il profilo del Monumento della Liberazione, costruito
nel 1947 per celebrare la liberazione dal nazismo da parte dell’Armata Rossa.
L’opera di Ágnes Szabó accoglie i
visitatori e cancella la retorica politica con una silhouette femminile luminosa
e ammiccante che rimanda, in maniera sfacciatamente letterale, ai luoghi del
consumismo. Communism Never happened,
scrive in tipografici caratteri cubitali Ciprian
Muresan, nato in Romania nel 1977, giocando sull’ambiguità tra le due
modalità della realtà, l’una delineata dal linguaggio e l’altra dal visivo,
come l’interferenza tra la storia narrata e la sua percezione individuale.
Sul disco di una pizza cinematografica è attaccato frettolosamente un biglietto con
una scritta ricalcata a matita, Véres
Film, pellicola sanguinante. Macchie di sangue chiazzano la superficie
metallica dell’opera di Tamás St.Auby,
richiamando le censure e l’esilio forzato subiti dall’artista che, negli anni
’60, portò in Ungheria le idee e le pratiche di Fluxus. Oltre un persistente
alone rosso, il volto fiero di Sándor
Pinczehelyi è perfettamente incastonato nell’incrocio tra Sarlò es kalapàcs, tra falce e martello.
Rigidi poligoni prospettici sono delineati dagli strumenti e dalle braccia che
formano un ibrido di continuità, l’ironia è un ombra che incrina la potenza
propagandistica dell’immagine. Lenin, impeccabile nel vestito elegante, non dorme
sogni tranquilli, lo vediamo rigirarsi nervosamente, come se stesse vivendo un
incubo, nel video proiettato sul pavimento e nascosto in un box, opera di Blue Nose, collettivo composto da Alexander
Shaburov e Vyacheslav Mizin. Il grigio e il nero, che delineano i confini degli
Stati di una grande carta dell’Europa, attraggono e respingono. L’estetica
della mappa geografica si carica di strutture distopiche, quando ci si accorge
che la Société Réaliste, il
collettivo fondato da Ferenc Grof (1972) e Jean-Baptiste Naudy, ha raddoppiato
ed evidenziato le zone oggetto di rivendicazioni territoriali.
Ci sediamo su una panchina di
legno tirata a lucido, un complemento armonico negli ampi spazi bianchi del
museo, proprio di fronte alla parete interamente occupata da decine di sottili
strisce di tessuto blu ricamato con una sottile scritta arancione, “Day By Day.
I Think About The Future”. Benczur Emese
ha iniziato a cucire il 16 dicembre del 1997 e i metri di nastro continueranno
ad aumentare, fino a raggiungere la data del 100° compleanno dell’artista
brasiliana. La stanchezza della giornata inizia a farsi sentire e rimaniamo
seduti a guardare le stringhe ricamate, a indovinarne i giorni, fino all’ora di
chiusura.
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