C’è un canale di comunicazione aperto, dove transitano messaggi sempre più frequenti tra l’Africa e il resto del mondo: è quello dell’arte contemporanea, popolato da artisti già molto quotati e da molti emergenti, che stanno proponendo stili, temi, linguaggi nuovi e significativi, in grado di raccontare storie altrimenti non comprensibili o non ascoltate. Su questo concetto è nata la fiera AKAA-Also Known As Africa, la cui quarta edizione si è conclusa lunedì, 11 novembre, a Parigi, al Carreau du Temple, per tre giorni crocevia ad alta intensità di ispirazioni e idee, con l’esposizione di gallerie africane ed europee i cui artisti hanno per comune denominatore l’Africa, intesa come origine o cultura condivisa.
Più che una moda, come dimostrano le cifre stabili o in ascesa sui grandi mercati e gli eventi di qualità, l’arte contemporanea africana e della diaspora sembra rappresentare una necessità non solo estetica, ma di comprensione di un universo enorme in trasformazione, fino a non molti decenni fa relegato ai margini e ora davvero emergente e carico di forme e contenuti che hanno bisogno di essere espressi, forieri di una potenza innovativa eccezionale, ancora non del tutto realizzata.
In quasi tutti gli artisti che abbiamo visto a Parigi, tra gli stand di AKAA, è forte il messaggio sociale che guarda al cambiamento e non potrebbe essere altrimenti, in riferimento a una realtà lacerata da estreme ineguaglianze, che spesso vive la devastazione della povertà, delle guerre e del degrado ambientale.
A dare ancora più forza sul piano culturale, AKAA ha offerto un percorso di eventi, di incontri, performance e cinema, all’interno del quale si è distinto lo straordinario e terribile documentario Système K, di Renaud Barret. Mai uscito in Italia, presentato alla 96ma Berlinale, è dedicato alla disperata e tragica tenacia di un gruppo di artisti-performer di Kinshasa, che cerca nella creatività la via per affermare il proprio diritto a una completa cittadinanza emotiva, intellettuale, umana, anche in una megalopoli infernale come la capitale del Congo.
Francia, Regno Unito, Belgio, Olanda e Portogallo sono i luoghi in Europa dove c’è più fermento e consapevolezza, approdi dei nuovi talenti, innegabilmente a causa di – o grazie a – un passato coloniale che ha lasciato in eredità un legame culturale con la maggior parte delle regioni africane e che oggi si riflette nella capacità di molte gallerie di comprendere e valorizzare rapidamente opere e autori.
A Parigi, in occasione di AKAA però sono state presenti molte gallerie africane, alcune di recente fondazione, che si stanno consolidando con proposte già molto ben accolte di artisti che non sempre sono riusciti a partecipare personalmente, a causa di problemi di visti o di costi. Il panorama è naturalmente molto variegato e vibrante di proposte.
Come quella dell’ugandese Afriart Gallery, che ha esposto alcune opere di Ocom Adonias, un artista nato a Kampala nel 1989, per la prima volta parte di un grande evento in Europa, concentrato sulle vite delle persone comuni, ritratte nelle situazioni quotidiane delle città, fatte di transiti e mercati caotici, rappresentate in modo realistico attraverso una tecnica mista di disegno e pittura sopra a collage di giornali. Tra i disegni tracciati sulle miriadi di notizie indistinte, si individua la figura di un santo, una persona tra tante che, ignorata dai media, nell’opera si distingue solo per una tenue aureola gialla. Una distinzione che è segno della forza dell’azione individuale, ancorché dimenticata, che resiste al di sopra del discorso politico, e che è metafora della lotta personale che ogni individuo ingaggia quotidianamente in un contesto sociale sempre spinto al limite.
Interessante e completamente differente è lo stile del camerunese Mustapha Baïdi Oumarou, nato nel 1997 – forse il più giovane artista esposto in questa edizione di AKAA – che porta una ventata di positività e serenità nelle sue figure immerse in sfondi coloratissimi, irreali e sospesi, riempiti di fronde e fiori che ricordano il decorativismo art déco, frutto dell’esperienza nella pittura su seta. I suoi grandi dipinti continueranno a essere esposti, dal 21 novembre, nella Galerie Claire Corcia, che l’ha portato in fiera e che punta su di lui come una delle figure più promettenti del momento.
Parte da un’altra prospettiva culturale la pittura di Andrew Kayser (THK Gallery), sudafricano, nato nel 1975, che ha deciso di lavorare in un atelier posto nel mezzo di Johannesburg, nel cuore del downtown diventato ghost-town dopo la fine dell’apartheid. Appartenente alla minoranza bianca che si è trasferita e barricata nei suburbi eleganti e recintati, in preda alla paura, Kayser con le sue pitture dal tratto delicato ed evanescente mette in luce l’ambiguità e le contraddizioni del suo mondo complicato, senza ergersi a giudice, descrivendo invece una realtà che non è fatta di alternative, ma di coesistenze: di etnie, di storie, di culture, di modi di pensare e di vivere.
Tra gli artisti più noti, sempre in grado di attrarre interesse, ha esposto Nelson Makamo, sudafricano, nato nel 1982 nel rurale Limpopo, attivo a Johannesburg, al quale il magazine Time lo scorso febbraio ha commissionato la copertina dell’edizione speciale dedicata all’ottimismo. I suoi dipinti, colorati, popolati, che hanno spesso come soggetto i bambini, depositari del futuro, sono certamente destinati a un’affermazione sempre più solida, sulla scia del grande successo di quello che Makamo ritiene la sua figura artistica di riferimento, Kerry James Marshall, il più quotato artista afroamericano vivente, il cui Vignette 19 (2014) è stato venduto in questi giorni a New York da Sotheby’s a 18 milioni e mezzo di dollari.
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