1974-2024 è un traguardo che nessun’altra fiera d’arte italiana ha ancora tagliato. Quali sono le maggiori sfide che gli anni, passati e corrente, hanno imposto e in che modo Arte Fiera risponde?
Simone Menegoi: «Le sfide di fondo che affronta Arte Fiera sono le stesse che affrontano tutte le altre fiere del mondo: le fluttuazioni dell’economia e del mercato dell’arte, la concorrenza delle aste, la proliferazione delle fiere stesse, in alcuni casi prossima alla saturazione. E poi Bologna ha dovuto affrontare sfide più specifiche, legate alla sua storia e alla sua identità; ad esempio, la necessità di trovare un equilibrio efficace fra la vocazione “nazional-popolare” della manifestazione, come è stata spesso definita, e il taglio curatoriale che ogni fiera d’arte ambiziosa oggi deve avere. Rispetto a queste sfide, la strategia che abbiamo adottato si riassume in poche parole: innalzare il livello qualitativo della fiera senza snaturarla, ovvero senza compromettere la sua forza commerciale, la sua indole inclusiva e popolare e l’italianità della proposta artistica. È più semplice a dirsi che a farsi, naturalmente. Ma mi sembra che, in questi anni, alle parole siano seguiti i fatti».
Hai studiato e vissuto a Bologna fino al 1993, anno in cui racconti che «La scossa elettrica del Nuovo, quella che all’improvviso mi sincronizzò con la creazione artistica di quegli anni» ti raggiunse non provenendo dall’ambito delle arti visive bensì da uno spettacolo del regista Romeo Castellucci. Qual è stato il suo potere di rivelazione e di trasformazione? E quanto di questo potere hai portato in Arte Fiera e accompagna la tua direzione artistica?
«Per un insieme di fattori, sia soggettivi che oggettivi, la visione di quello spettacolo fu una svolta per me. Fra le altre cose, influì sulla mia decisione di occuparmi di arte contemporanea, in senso lato; un senso che include anche il teatro, appunto, e poi la musica, l’architettura, il cinema, la letteratura del presente. Tutte discipline di cui le arti visive in senso stretto si nutrono, e i cui sviluppi più interessanti mi sforzo di conoscere. Nella misura in cui la scelta di fare il critico e curatore è stata influenzata da quell’esperienza di spettatore, si può dire che la sua eco mi abbia accompagnato anche in questi anni di direzione di fiera. Più concretamente, ad accompagnarmi è stata l’esperienza maturata in vent’anni e oltre di lavoro nel mondo dell’arte prima di questo incarico, in molti ruoli diversi: assistente di galleria, giornalista, critico, curatore, consulente, docente… una varietà di incarichi che mi ha fornito i rudimenti delle tante competenze che deve possedere un direttore di fiera. Senza dimenticare gli anni in cui ho collaborato con Artissima come curatore indipendente, esperienza fondamentale per imparare sul campo il funzionamento e le dinamiche di una fiera».
La performance è stata di casa ad Arte Fiera fin dalle primissime edizioni e quest’anno oltre a rinnovarsi la collaborazione con Fondazione Furla, per il programma di azioni dal vivo di cui sarà protagonista Daniela Ortiz, Uliana Zanetti curerà la mostra “Praticamente nulla da vendere”. La performance ad Arte Fiera nel 1976.
«Seguo con interesse il linguaggio della performance, ma in fiera ho delegato la curatela del programma prima a Silvia Fanti di Xing, che ha costruito il fitto programma di azioni dal vivo delle mie prime tre edizioni di Arte Fiera da direttore, e ora a Bruna Roccasalva, Direttrice artistica di Fondazione Furla, che collabora con me dall’anno passato. Una cosa è certa: se Bologna ha un posto di primo piano nella storia della performance nel nostro Paese, è anche grazie ad Arte Fiera. Come dimostra la preziosa mostra di studio curata da Uliana Zanetti, che sarà allestita nel Padiglione 25, l’edizione del 1976, con la sua programmazione di azioni dal vivo proposte da alcune gallerie coraggiose, fu una specie di “prova generale” della famosissima Settimana Internazionale della Performance del 1977. Non a caso, molti degli artisti che presentarono le loro azioni in fiera si ritrovano nella manifestazione dell’anno seguente, realizzata peraltro grazie al contributo economico della fiera stessa. La performance è di casa ad Arte Fiera fin dalle origini, e mi è sembrato naturale, quando ho assunto la direzione della manifestazione, darle un posto di primo piano nel programma di eventi collaterali».
Quest’anno Opus Novum è stata affidata a Luisa Lambri, che ha scelto di collegare due edifici simbolo dell’architettura bolognese degli anni ’70. Qual è l’intenzione dell’opera e quale la sua essenza?
«L’opera si inserisce nelle celebrazioni del cinquantenario di Arte Fiera allargando lo sguardo dalla fiera alla città; ci ricorda che Arte Fiera nasce in un contesto lungimirante non solo per quel che riguarda le arti visive, ma per tutte le forme di espressione, inclusa l’architettura. Ma non c’è stato, in ciò, alcunché di artificioso, di programmato a tavolino. È cominciato tutto con la scelta di affidare a Luisa Lambri la commissione di un’opera inedita da presentare durante la fiera, aggiungendo così il suo nome a quelli di Favelli, Marisaldi, Arienti, Moro, Garutti, che sono stati protagonisti di Opus Novum prima di lei. Conoscendo bene gli interessi dell’artista, un anno e mezzo fa abbiamo fatto insieme a lei un tour degli edifici più notevoli della Bologna anni Sessanta-Settanta, fra cui il complesso delle Torri di Kenzo Tange e il Negozio Gavina di Carlo Scarpa. Due opere, su tutte, l’hanno colpita: il Padiglione de L’Esprit Nouveau, di cui ha detto fin da subito che sarebbe stata una bellissima sfida esporre delle opere al suo interno; e la Chiesa di Santa Maria Assunta, di cui non conosceva neppure l’esistenza, e il cui campanile, in particolare, ha catturato il suo interesse. Da qui, in modo molto naturale, è nato il progetto: allestire nel Padiglione una mostra dell’artista in cui comparissero delle immagini inedite della chiesa di Riola. Come sempre nel lavoro di Lambri, il rapporto con lo spazio sarà fondamentale; le sue immagini non sono solo opere in sé, ma anche strumenti attraverso i quali l’artista interpreta lo spazio in cui espone e ci permette di guardarlo con occhi diversi».
Nel 2018, auspicavi che Arte Fiera riuscisse a essere catalizzatore delle rinnovate energie di Bologna. A distanza di sei anni e nel vivo della cinquantesima edizione, quali obiettivi sono stati raggiunti, quali nuovi traguardi vuoi raggiungere e come è evoluto il tuo rapporto con la lunga storia della fiera e della città?
«Questi anni hanno visto crescere l’intesa e la collaborazione fra Arte Fiera e il MAMbo, il cui direttore, Lorenzo Balbi, è anche il curatore di Art City, il programma di eventi in città durante Arte Fiera. Fra i risultati di questi anni, cito la creazione del Trust per l’Arte Contemporanea, uno dei cui compiti è quello di ampliare le collezioni del MAMbo attraverso degli acquisti mirati ad Arte Fiera; il deposito a lungo termine al MAMbo di una parte degli arredi fosforescenti realizzati da Alberto Garutti per il suo intervento ad Arte Fiera del 2023, acquisiti da BolognaFiere; la collaborazione istituzionale fra la fiera e il museo nell’ambito della quale ha lavorato Uliana Zanetti, curatrice delle collezioni del MAMbo, per realizzare Praticamente nulla da vendere, la mostra di cui parlavamo prima, sulla performance ad Arte Fiera nel 1976. Ma forse il risultato più evidente della collaborazione di questi anni è la costruzione di un’Art Week bolognese a cui tutte le istituzioni per l’arte contemporanea in città, pubbliche e private, partecipano, e in cui tutte trovano il loro momento di visibilità: musei e fondazioni, gallerie e spazi off. Bologna si è presentata all’appuntamento più importante dell’anno, la settimana della fiera, compatta e concorde. Era l’obiettivo comune mio e di Balbi, e mi sembra che sia stato conseguito».
L’intervista a Simone Menegoi è stata pubblicata nel numero 123 di exibart.onpaper. Clicca qui per scaricarlo
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